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26.11.18

Così Jean-Claude Juncker ha ucciso il sogno dell'Europa

Favori giganteschi alle multinazionali. Aiuti ai miliardari. E beffe ai cittadini. Ecco come il numero uno della Commissione ha scatenato il populismo
di Paolo Biondani e Leo Sisti

Una voragine nei conti dei 28 Paesi dell’Unione europea: mille miliardi di euro all’anno, tra elusione ed evasione fiscale. Multinazionali che non pagano le imposte e smistano decine di miliardi di dollari dei loro profitti, accantonati grazie a operazioni finanziarie privilegiate in Lussemburgo, verso altri paradisi rigorosamente “tax free”. Stati membri dell’Unione che si fanno concorrenza sleale sulle tasse. È disastroso il bilancio che sta lasciando Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, nonché ex padre-padrone del Granducato, mentre imbocca l’ultimo anno del suo mandato, in scadenza dopo le elezioni del 2019: il suo viale del tramonto. Ormai ogni giorno il numero uno della Ue deve incrociare i ferri con populisti e sovranisti, pronti a sfidare regole, limiti e vincoli europei. In Italia ad attaccarlo è soprattutto Matteo Salvini, con un avvertimento: «Pensi al suo paradiso fiscale in Lussemburgo». Dove Juncker è stato presidente del Consiglio dal 1995 al 2013 e, già prima, più volte ministro delle Finanze, esordendo con il primo incarico politico nel 1982, ad appena 28 anni. Ed è proprio il Lussemburgo il vero nodo del caso Juncker, di cui ora approfittano i nemici dell’Europa. Il nodo di un paese fondatore della Ue che spinge i ricchissimi a eludere le tasse.

Lo scandalo si apre il 5 novembre 2014. Quattro giorni dopo l’insediamento di Juncker alla guida della Commissione europea, un network giornalistico internazionale svela i segreti fiscali del Lussemburgo. A guidare la ricerca, durata sette mesi, è l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), a cui aderisce anche L’Espresso, che nel 2016 si imporrà con i Panama Papers. “LuxLeaks” è il nome in codice dell’inchiesta, dove “Lux” sta per Lussemburgo e “Leaks” per fuga di notizie. L’Espresso, insieme a quaranta media di tutto il mondo, accede a un archivio con 28 mila documenti sottratti da due impiegati, poi condannati, della sede lussemburghese di PriceWaterhouseCoopers (Pwc), un colosso della consulenza e revisione societaria. Intese riservatissime che garantiscono a 340 multinazionali, da Amazon ad Abbott, da Deutsche Bank a Pepsi Cola, di pagare meno dell’uno per cento di tasse. Un sistema sviluppato proprio in Lussemburgo. Lo scoop provoca interventi parlamentari, denunce, indagini giudiziarie. Il 20 novembre L’Espresso, in copertina, chiede le dimissioni di Juncker, «inadatto a guidare l’Europa». Juncker però è rimasto presidente. Ed è diventato il simbolo di un’Europa sempre più in crisi.

Solo dal 2002 al 2010, mentre Juncker era premier del Lussemburgo, il suo paese ha attirato 220 miliardi di dollari grazie a quegli accordi fiscali confidenziali. Il 2003 è un anno chiave. Jeff Bezos, fondatore di Amazon, decide di fissare nel Granducato il suo quartier generale europeo. Merito di un corteggiamento assiduo di Juncker, che allora se ne vantava: «Amazon è venuta in Lussemburgo non solo per motivi fiscali, ma anche per il contatto con il governo». Robert Comfort, per undici anni responsabile fiscale del colosso americano in Europa, in un’intervista è ancora più esplicito: «Il messaggio di Juncker era questo: se avete qualche problema che non riuscite a risolvere, tornate da me. Cercherò di aiutarvi». Juncker dunque ha aiutato il suo paese. Per questo, quando scoppia LuxLeaks, anche un suo avversario politico, come il premier Xavier Bettel che gli è subentrato nel 2013, si precipita a difendere il sistema, con parole volgari: «È intollerabile che si getti il Lussemburgo nella merda».

Juncker e il sistema fiscale lussemburghese sembrano vacillare quando tra i 751 parlamentari europei inizia una raccolta di firme per una mozione di censura. Nel testo, presentato dalle destre (tra cui Lega e Movimento 5 Stelle) dopo che un precedente tentativo delle sinistre era andato a vuoto, si leggeva: «Juncker è direttamente responsabile delle frodi fiscali che hanno fatto risparmiare miliardi alle multinazionali». Ma il 27 novembre 2014 la coalizione tra popolari (lo stesso gruppo di Juncker) e socialisti forma un blocco compatto, salvando Mister Euro: mozione respinta con 461 voti contrari, 101 a favore e 88 astensioni.

La guerra delle tasse però continua su un altro fronte. Da più parti s’invoca una commissione parlamentare. Ma di che tipo? Una vera commissione d’inchiesta? Oppure una semplice “commissione speciale”? La differenza non è da poco, perché solo con la prima scatta l’obbligo per gli Stati membri di presentare i documenti richiesti dai deputati. Lo scontro è frontale. A favore della commissione d’inchiesta si schierano verdi, estrema sinistra, una parte dei liberali, conservatori e cinquestelle. Il verde Philippe Lamberts è soddisfatto: «Si verserà così tanto sangue sul tappeto, che nessuno sarà in grado di pulirlo». Non sa che una sorta di golpe è dietro l’angolo. Il 12 febbraio 2015 una controffensiva di popolari e socialisti evita l’inchiesta e approva solo una commissione speciale, denominata Taxe. A presiederla sarà Alain Lamassoure, francese come il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici, entrambi con un passato da ministri in patria. Durerà sei mesi e avrà 45 membri. Tra i suoi compiti, il più importante è richiedere agli Stati membri di trasmettere tutti gli accordi fiscali (tax ruling) emessi fin dal primo gennaio 1991. Evidente lo scopo: stanare i patti agevolati, capire se qualche Stato ha garantito alle multinazionali «risparmi di tasse derivanti da trasferimenti artificiali di utili».

L’attività della commissione speciale è una débâcle: nessun governo nazionale fornisce i suoi tax ruling, trincerandosi dietro impegni di confidenzialità e riservatezza. Ma c’è di peggio. Lo dimostra un carteggio, iniziato nell’aprile 2015, proprio tra Lamassoure e Moscovici. Il primo preme sul secondo perché gli Stati consegnino i verbali del cosiddetto “Gruppo codice di condotta”. Si tratta di un comitato di tecnici delle finanze, istituito nel 1998 dall’Ecofin, il consesso dei ministri dell’economia della Ue, per valutare le pratiche fiscali nocive. Quindi, in teoria, per bloccare schemi tributari che favoriscono le multinazionali. In pratica però i pareri degli esperti restano sostanzialmente ignorati. Perché in questa materia vige il criterio dell’unanimità. Quindi basta il veto di un solo Stato per fermare qualunque cambiamento. E così, dopo numerose proteste, quando le prime carte arrivano finalmente alla commissione speciale Taxe, ecco la sorpresa: molte parti degli atti risultano censurate.

Per gli europarlamentari c’è un ulteriore diktat: chi è ammesso a consultarli, deve firmare una dichiarazione impegnandosi a «non divulgarne il contenuto a terze persone». E le carte si possono leggere solo in una “reading room”, una stanza speciale a porte chiuse, tra le 9.30 e le 18.30, senza portare telefoni o computer. Ricorda Fabio De Masi, esponente della Linke tedesca: «Era vietato fare fotocopie. Vietato anche appuntare note, almeno all’inizio. Inoltre la Commissione Juncker ha precisato che una consistente fetta di documenti era andata persa durante un trasloco: nessuno li ha mai visti». Commenta Lamberts: «È indegno di una democrazia, è una gran buffonata».

La conclusione più amara viene dall’europarlamentare Sven Giegold dei Verdi tedeschi: «Sapevamo che c’era un’evasione di massa. E sapevamo che c’era una colossale elusione fiscale, con le multinazionali come protagoniste. Voi giornalisti del consorzio Icij avete pubblicato un elenco di casi estremi, però non potevate immaginare fino a che punto fosse giunto il sistema in Lussemburgo. Leggendo le carte, abbiamo scoperto che il principio dei tax ruling era conosciuto da vent’anni. Nella “reading room” abbiamo rinvenuto verbali di incontri del Consiglio europeo degli ultimi due decenni. Possiamo ricostruire che cosa è avvenuto. Sappiamo che qualcuno ha cercato di chiudere le scappatoie fiscali: senza successo, perché occorreva il consenso unanime. E sappiamo che alcuni paesi hanno fermato il cambiamento: soprattutto Lussemburgo, Belgio, Olanda, tutti difesi dal Regno Unito. Per vent’anni alcuni stati membri hanno impedito il cammino dell’Europa verso una tassazione pulita. Lo sappiamo, ma non possiamo provarlo pubblicamente: perché carte non possiamo averne».

Già dopo i primi sei mesi, sarebbe prevista la chiusura dei lavori di Taxe, che però continuano. Finalmente, il 25 novembre 2015 la commissione speciale vota una “risoluzione”. Ovvero una serie di raccomandazioni, che non hanno carattere vincolante, ma consistono in un invito rivolto alla Commissione Juncker perché formuli proposte di direttive, che per diventare leggi dovranno superare il vaglio del Consiglio europeo, formato dai capi di Stato e di governo dell’Unione. Un percorso ad ostacoli. Nel testo finale, in particolare, viene rigettato un emendamento, proposto da De Masi e altri europarlamentari, che mirava a definire il Lussemburgo «centro di operazioni fiscali aggressive, frutto di strategie globali sotto la supervisione di Juncker». L’unica censura ammessa riguarda la sparizione di una pagina da un rapporto sulle frodi fiscali nel Granducato: un dossier commissionato nel 1996 proprio dall’allora premier Juncker a un suo parlamentare, ma riemerso soltanto nel settembre 2015, poco dopo la sua audizione a Bruxelles. Un mistero mai chiarito.

La risoluzione concede un plauso all’inchiesta LuxLeaks e qualche cenno a misure concrete, come l’idea di obbligare le multinazionali a redigere un rendiconto per ogni paese dove hanno filiali, invece di un solo bilancio globale. Solo un passaggio del testo cita «pratiche fiscali discutibili promosse da società di revisione in un determinato Stato membro». Senza nemmeno nominare il Lussemburgo.

La commissione speciale viene poi autorizzata a proseguire i lavori con una seconda fase, da gennaio a luglio 2016, chiamata Taxe 2. Qui si riapre la polemica sulla documentazione del Gruppo codice di condotta, disponibile in quantità maggiore. Ma con un vincolo paralizzante: per esaminare molte nuove carte importanti, si deve attendere l’autorizzazione degli Stati interessati. Che rallenta i lavori. O non arriva mai.

Quanto a Juncker, il suo nome non viene neppure sfiorato. Nessuna accusa, nessuna responsabilità politica. Del resto, la sua linea di difesa è sempre stata una sola: tutti colpevoli, nessun colpevole. Il caso LuxLeaks? «Non riguarda il solo Lussemburgo, dovremmo parlare di EuLeaks», ha sempre risposto Juncker, evidenziando che i tax ruling «esistono anche in altri ventidue Stati europei». Autocritiche? Nessuna. Nemmeno sul suo passato da premier lussemburghese: «Oggi farei la stessa cosa: volevamo diversificare la nostra economia». Dalle banche alla finanza. Parola di Juncker. Di cui potranno rallegrarsi i 550 mila abitanti del Lussemburgo, che secondo gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale oggi sono primi al mondo per Pil pro capite: 120 mila dollari all’anno a testa. Ricchi con le tasse altrui, mentre l’Europa affonda.

29.1.17

Pierre Dardot e Christian Laval: «Il populismo è la parola del nemico»

Intervista. L'analisi dei filosofi francesi sul cortocircuito tra sovranità nazionale e sovranità popolare rafforza il «sistema». L’appello al popolo presente nelle tesi di Ernesto Laclau conduce a pericolose derive politiche. Donald Trump e Marine Le Pen usano la collera contro le élite per contrapporre gli interessi nazionali alla globalizzazione 
 Roberto Ciccarelli (il manifesto)
Il populismo come dispositivo teorico emergente nella società neoliberale per rispondere alla crisi del capitalismo e ai conseguenti cambiamenti geo-politici e geo-economici in atto. È il tema dal quale Pierre Dardot e Christian Laval, coppia consolidata della filosofia francese, sono partiti per scrivere il loro prossimo libro sul momento populista della politica contemporanea. L’incontro è avvenuto a Roma dove hanno partecipato alla conferenza sul comunismo. La loro analisi distingue tre populismi: mediatico, nazionalista e teorico e parte da una tesi: «Il populismo è una parola del nemico – afferma Pierre Dardot – Siamo per l’uso della categoria di popolo, ma rifiutiamo quella di populismo».
Per quale ragione?
Christian Laval: Il populismo è una categoria che sintetizza fenomeni diversi. Da quando i media dominanti se ne sono impadroniti hanno fatto di tutta l’erba un fascio. Il populismo mediatico mette infatti insieme Le Pen, Trump, Farage, Corbyn, Grillo o Podemos. In questo modo si neutralizza ogni possibile opposizione al sistema.
Anche i populisti vogliono ripristinare la sovranità popolare. Non parlano anche loro di popolo?
Pierre Dardot: Fanno una deliberata confusione tra la sovranità del popolo e la sovranità dello stato-nazione. In Francia Marine Le Pen invoca il popolo perché vuole rafforzare le prerogative dello stato-nazione. La sua idea di sovranità consiste nel rafforzare il potere sul popolo. Vuole rafforzare in maniera autoritaria il potere dello stato a svantaggio proprio del popolo, ovvero la possibilità di tutti di partecipare alla vita politica e agli affari pubblici. Viceversa la sovranità popolare, il potere del popolo, è l’esercizio diretto del potere da parte del popolo.
Un capitalista come Trump può fare gli interessi del popolo alla Casa Bianca?
Laval: Trump è l’esempio di come una parte della classe dirigente ha giocato la carta della collera popolare contro il capitalismo e il sistema. Ha catturato questa collera mettendola a profitto di un rafforzamento del sistema. È una dimostrazione della flessibilità delle classi dominanti capaci di recuperare l’opposizione. Lo dimostrano i primi orientamenti del suo governo. L’élite dei miliardari che ne fanno parte ha deciso di dismettere la timida riforma sanitaria di Obama, deregolamentare la finanza, riarmare l’economia americana contro quella tedesca.
Il populismo può diventare una critica del capitalismo?
Laval: Al contrario, è una risposta neoliberale alla crisi del capitalismo. Accentua la guerra commerciale tra gli stati: guerra finanziaria e fiscale nel quadro di una concorrenza generalizzata. Le diverse configurazioni del populismo, da Trump alla Brexit, sono l’espressione di una politica che appare anti-sistema ma che rafforza il sistema.
Cresce invece il numero di chi crede nella possibilità di un «populismo di sinistra». Come lo spiegate?
Dardot: È la posizione del populismo teorico ispirato dal filosofo argentino Ernesto Laclau. Si riprende il populismo condannato dai media e dalle classi dominanti, lo si rovescia in una categoria positiva. Siamo in totale disaccordo con questo uso perché il populismo è inteso come il momento costitutivo della politica in quanto tale, non un’esperienza specifica come potrebbe essere il peronismo analizzato da Laclau. La valorizzazione del ruolo del leader è un altro problema. Laclau sostiene che sia uno dei fattori che costituiscono l’identità del popolo. Questa tesi mette in dubbio il principio stesso della democrazia perché istituisce un rapporto plebiscitario e paternalistico tra il leader e il popolo. Va fatta un’analisi accurata per distinguere la democrazia dal populismo. Altrimenti si rischia di entrare nella notte dove tutte le vacche sono nere.
Jean-Luc Melenchon, il candidato alle presidenziali francesi alla sinistra del partito socialista si definisce «populista». Come mai?
Dardot: Melenchon rivendica il populismo teorico di Laclau ed è ispirato da Chantal Mouffe. Sorvola sugli aspetti più criticabili del chavismo, il culto della personalità del capo. Il suo movimento si chiama La France Insoumise (La Francia ribelle). Non è un appello alla ribellione del popolo contro lo Stato, ma a un paese che si ribella ai poteri esterni che ne condizionano la sovranità. La componente nazionalista è presente sin dal nome che questo movimento si è dato. Il riferimento è alla pretesa della rivoluzione francese dove la nazione pretendeva di incarnare l’universale. Questo è il modello Robespierre.
Anche l’estrema destra di Marine Le Pen intende riarmare la nazione contro la globalizzazione. Come si spiega questo convergente disaccordo?
Laval: Questo discorso deriva dalla corrente neofascista del Front National. Nell’estrema destra francese la commistione con un discorso socialista non è nuova. Alla fine del XIX ha riscoperto un discorso di tipo socialista. Questa commistione non è nuova: Maurice Barrès alla fine del XIX secolo aveva definito il suo movimento come «socialista nazionale». Se Le Pen padre aveva un orientamento neoliberista puro alla Reagan, Le Pen figlia ha riscoperto il sovranismo e il protezionismo mescolandoli con alcune tesi del socialismo sovranista e gaullista di Jean-Pierre Chevènement. È una politica ambigua che invoca la protezione statale contro la deregolamentazione. Anche per questo persone di sinistra voteranno Front National alle presidenziali. In generale, esiste un orientamento nazionalistico tra chi sostiene che il prossimo presidente dovrebbe andare a Bruxelles per riorientare la politica europea a favore degli interessi francesi. La Francia si considera un paese del Nord Europa, quella dei dominanti. Nessuno pone il problema della cooperazione con i paesi dell’Europa del Sud, vittime dell’asimmetria che oggi premia la Germania.
Perché l’uscita dall’euro è considerata una bandiera?
Dardot: Si vuole restaurare il potere sovrano dello Stato: battere moneta. Chi a sinistra è ipnotizzato dall’uscita dall’euro la riprende e incorre nella confusione della destra che non distingue tra sovranità popolare e sovranità dello stato-nazione. È un’illusione perché lo stato-nazione costituisce una forma attraverso la quale oggi si esercita il potere delle oligarchie. Il loro potere non è sinonimo di sovranità dello stato-nazione, ma di poteri transnazionali che hanno interessi diversi dal popolo che intendono governare. Senza contare che da più di una generazione gli stati-nazione stanno privatizzando alcune funzioni della sovranità: quella militare, ad esempio. Dalla prima guerra del Golfo in poi è diventato evidente la sua cessione verso agenzie private.
Avete proposto una federazione internazionale composta di coalizioni democratiche. In cosa consiste?
Laval: Siamo favorevoli alla ripresa dell’ispirazione che ha fondato la prima internazionale nel XIX secolo. Non pensiamo a un’internazionale dei partiti sul modello delle altre internazionali che svilupparono la loro azione a livello nazionale. Pensiamo invece a una federazione di associazioni, sindacati, cooperative e anche di partiti.
Qual è la differenza con l’altermondialismo dei social forum?
Laval: Quelli erano luoghi di discussione, non di azione contro il sistema neoliberale mondiale. Il modello è quello delle società operaie il cui statuto garantiva a chiunque di aderire direttamente all’associazione internazionale saltando i livelli intermedi. Nessuna organizzazione può mediare la volontà dei singoli e i singoli possono partecipare direttamente, al di là della nazionalità. Questa soluzione potrebbe tutelare i migranti dal potere discrezionale degli stati, ad esempio.
Per federazione intendete anche un’istituzione politica?
Dardot: L’Unione Europea, così com’è, è detestabile. La federazione è un modello politico alternativo che potrebbe ispirare un’organizzazione internazionale aperta con l’obiettivo di federare i popoli europei nell’ottica di una co-partecipazione agli affari pubblici. L’Europa ha bisogno di una prospettiva internazionale per rifondare la democrazia in Europa su altre basi rispetto a quelle neoliberali, non per combattere per la sovranità dello stato-nazione.

La nuova ragione del mondo scritta a quattro mani

Pierre Dardot è ricercatore al laboratorio Sophiapol dell’Università di Parigi Ovest-Nanterre e professore nelle «classes préparatoires» a Parigi. Christian Laval insegna sociologia all’Università di Parigi Ovest Nanterre La Défense. Insieme hanno scritto «Marx, prénom: Karl» (Gallimard), «La nuova ragione del mondo», «Del comune», «Guerra alla democrazia», pubblicati in Italia da DeriveApprodi. Insieme a El Mouhoub Mouhoud, Dardot e Laval hanno scritto «Sauver Marx?: Empire, multitude, travail immatériel» (La Découverte) nato dai lavori del gruppo di studio «Question Marx». Di Christian Laval è disponibile in italiano «Marx combattente», (manifestolibri). Specialista del pensiero utilitarista e liberale, Laval ha scritto tra l’altro «L’Homme économique » (Gallimard).

3.9.14

Democrazia come diarchia. Intervista a Nadia Urbinati

di Alessandro Mulieri (Micromega)

Riprendendo alcuni spunti dal suo recente “Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e volontà” (UBE), Nadia Urbinati spiega, in questa intervista concessa al “Rasoio di Occam”, perché la democrazia non è tale se non riposa su una duplice sorgente d’autorità, quella della volontà (l’autorità formale della legge) e quella dell’opinione (il giudizio dei cittadini). È questo delicato equilibrio fra volontà e opinione che è messo in pericolo da populismo e plebiscitarismo.

Cominciamo dall’inizio. Il suo pensiero combina in maniera originale la storia delle idee politiche e un’attenzione particolare allo studio teorico delle realtà politiche contemporanee. Secondo lei, qual è l’importanza di una prospettiva storica nel fare teoria della politica e della democrazia?

La politica è un’arte del discorso e della decisione. Si nutre della conoscenza umana, individuale e collettiva, psicologica e storica; questa conoscenza è la condizione che orienta il giudizio verso l’azione. Muovere la volontà comporta usare l’arma della parola per far valere un ragionamento e guidare le emozioni. Per questo Artistotle aveva incluso la politica nel genere del sillogismo retorico, non di quello scientifico. Questo vale soprattutto per la democrazia, un sistema di governo e una forma politica che riposa essenzialmente sul discorso, l’arte della persuasione che muove in concerto persone tra loro diverse ed estranee. Incanalare le azioni verso la decisione (ovvero verso un esito univoco) è opera delle procedure democratiche, convenzioni che sono coerenti ai principi di questa forma di governo: contare voti di egual peso secondo la regola di maggioranza e lasciare che ciascuno contribuisca con la parola alla costruzione della decisione. Il legame con il mondo sociale e storico è inevitabile in quanto queste procedure agiscono su una materia che à fatta di interessi e opinioni di individui concreti, i protagonisti del governo democratico. John Dewey scriveva che in quanto progetto in permanente formazione, la democrazia ha necessariamente una storia e si tinge della specificità della società nella quale si fa strada. Le democrazie rappresentative contemporanee sono l’esito e l’espressione permanente di una lunga serie di lotte volte a contenere poteri gerarchici fondati su ragioni non estendibili a tutti, e in questo senso arbitrarie, come l’età, una competenza specifica, la proprietà, la sacralità, la forza militare. La secolarizzazione, l’evoluzione di un sistema di scambio fondato sul mercato, l’invenzione della stampa, hanno contribuito in vario modo alla crescita di relazioni sociali rette su una qualche eguaglianza e infine alla costruzione di uno spazio pubblico separato nel quale un’eguaglianza più ampia potesse consentire al maggior numero di competere per incarichi pubblici. In questo senso possiamo dire che lo studio della democrazia non può essere concepito in una prospettiva antistorica o puramente astratta, anche se i suoi principi hanno una validità che trascende il tempo nel quale sono stati ideati e sperimentati. Il processo storico di sviluppo della democrazia è una sintesi composita di principi ed esperienze che si sono consolidati nel corso di un tempo lungo. Comincia nell’antica Grecia e arriva fino a noi, alle nostre democrazie rappresentative. Diverse condizioni storiche, diverse istituzioni e diverse forme di governo democratico, ma un simile principio di libertà politica come sfera separata dalla dimensione sociale.

Ci può spiegare più nel dettaglio quali sono questi principi?

Innanzitutto l’eguale libertà politica di darsi leggi, ovvero l’autonomia, un principio che attraversa l’intera storia occidentale. Quella democratica è un’eguaglianza artificiale per cui persone di diversa condizione sociale, economica, e oggi dobbiamo aggiungere culturale, religiosa e di genere, hanno un potere eguale di prendere parte al processo politico, sia approvando direttamente le leggi che votando per chi dovrà coprire questa funzione. E’ questa la condizione per vivere liberi: non sottostare al potere di chi lo reclama dichiarandosi superiore in una qualche cosa che non può essere acquisita anche dagli altri e idealmente da tutti. Gli antichi ateniesi chiamavo questa eguaglianza isonomia o per legge ovvero per una ragione che nulla aveva a che fare con qualità naturali o situazioni sociali. Quando Solone dichiarò che i poveri erano uguali ai ricchi, intese dire che come cittadini di Atene essi erano uguali e la legge li doveva proteggere dal rischio derivante dalla traduzione delle diseguaglianze sociali in diseguaglianze di potere politico. La democrazia fece dunque una promessa di ugual potere in qualcosa, non in tutto. Due sono i principi correlati a questo: isegoria o il potere eguale che ogni cittadino ha di partencipare con la parola alla formazione della decisione, e parrhesia o il sapere di poter con sicurezza parlare francamente in pubblico. La condizione democratica è di tranquillità e di sicurezza non solo di libertà. Essa non promette se non questo e per tanto il suo valore come ordine politico sta nell’essere un metodo, una procedura.

Parlando di quest’aspetto, mi viene in mente che nel suo libro lei insiste molto sul rapporto stretto che lega la democrazia al liberalismo politico. Come lei scrive, “la democrazia prima di tutto promette la libertà e usa l’eguaglianza politica e legale per proteggere ed esaudire questa promessa”. In altre parole, sulla scia di Bobbio e Habermas, lei insiste sul ruolo dell’eguaglianza come necessario complemento della libertà. Come risponde a quei teorici, come Chantal Mouffe, che guardano al rapporto tra liberalismo e democrazia in termini di opposizione?

Credo che sia davvero difficile concepire la democrazia senza il principio della libertà di scelta da parte dei cittadini. Sia Hans Kelsen che Norberto Bobbio (che si ispirava a Kelsen) hanno ben spiegato la relazione tra democrazia e libertà. La mia visione del rapporto tra democrazia e liberalismo è simile a quella di questi autori e riposa su un’idea semplice: il liberalismo politico (governo moderato e fondato sui diritti individuali) e la democrazia sono intrecciati perché senza le libertà di parola e associazione i cittadini non possono contribuire a costruire opzioni politiche e a scegliere di schierarsi, pro o contro, ovvero a formare una maggioranza o a finire all’opposizione. Si ritorna insomma al ruolo fondamentale che la libertà politica assume nel garantire l’isegoria. Autori come Chantal Mouffe che insistono sulla centralità del conflitto in democrazia hanno però difficoltà a contemplare il momento della decisione. Quando si decide, si verifica un’interruzione momentanea del processo conflittuale o di antagonismo – o meglio quel processo si sposta fuori dalle istituzioni, le quali procedono secondo quella specifica visione selezionata dalla maggioranza. Quindi non è sufficiente dire che la democrazia è basata sul conflitto (o il suo opposto, il consenso); bisogna specificare che la democrazia è prima di tutto metodo di decisione basato sulla regola di maggioranza. Questa specificazione è fondamentale perché elimina alla radice il consenso unanimistico, che non fa parte della democrazia anche perchè esso può conferire il potere di veto anche a uno solo, ovvero assegnare potere alla minoranza invece che alla maggioranza. La democrazia comincia quando non si è d’accordo e si deve poter decidere e quando di decide di decidere contando i singoli voti secondo il principio di maggioranza, che, come si intuisce, presuppone l’esistenza di una minoranza (cosa che, invece, il principio unanimista non presuppone: qui, infatti, l’esistenza dell’opposizione è vista come una sconfitta). La regola di maggioranza e il voto individuale sono le condizioni fondamentali che caratterizzano la democrazia rispetto a sistemi non-democratici. E’ per questo che liberalismo (quello politico) e democrazia si implicano a vicenda, hanno bisogno l’uno dell’altro.

‘Democrazia sfigurata’. Questo il titolo del suo ultimo libro in uscita con università Bocconi editore in cui racconta la crisi delle democrazie contemporanee (edizione in Inglese Democracy Disfigured. Opinion, Truth and the People per Harvard University Press). Lei descrive la democrazia come un sistema diarchico basato sui concetti di volontà e opinione. Allo stesso tempo, la sua intenzione dichiarata è quella di difendere una concezione procedurale della democrazia. Può spiegarci cosa intende?

L’espressione ‘diarchia” vuol significare che in democrazia ci sono due poteri o due sorgenti di autorità e poi che essi non sono in opposizione ma che, pur restando diversi e distinti, sono in permanente relazione. Una, la volontà, è l’autorità formale della legge e di chi la fa e l’applica (il voto dei cittadini, quello dei corpi elettivi, le regole e le istituzioni dello Stato) e il cui procedere è secondo norme stabilite in una costituzione scritta; uso il termine volontà riferendomi alla tradizione delle teorie della sovranità che identificavano la legge con la volontà (Rousseau in particolare, dove la volontà è la legge del sovrano). L’altro potere, quella che chiamo opinione, sta e vive fuori delle istituzioni, nel mondo regolato dai diritti individuali politici che servono ad articolare il giudizio dei cittadini e a esprimere il dissenso nella società, a raccogliere informazioni. Questa seconda forma di autorità include forme diverse di partecipazione. Per opinione (che dovrebbe essere pensata al plurale), intendo il mondo vario di formazione delle idee che coinvolge settori diversi della società civile. L’opinione ha tre funzioni: la prima è conoscitiva-cognitiva e cioè raccoglie e diffonde informazioni grazie alle quali noi formuliano i nostri giudizi politici; la seconda è politica e consiste nello schierarsi al momento di costruire o scegliere agende politiche; la terza è estetica nel senso che si basa sull’idea dell’esposizione pubblica da parte di chi gestisce il potere e le istituzioni (noi cittadini vogliamo vedere quello che avviene dentro il palazzo per poter giudicare). Queste tre funzioni costituiscono insieme l’idea di autorità dell’opinione.

Una concezione, questa della diarchia democratica, che sembra molto simile a quella di Habermas per cui la democrazia deliberativa si basa su una struttura doppia della deliberazione formale e informale. Quali le differenze con la teoria habermasiana?

Sicuramente queste due forme di autorità politica, volontà e opinione, sono presenti in diversi autori, soprattutto nel lavoro di Jürgen Habermas. Tuttavia, in Fatti e Norme di Habermas le due forme di autorità, le procedure che corrispondono alla volontà e l’opinione, rimangono indipendenti l’una dall’altra. Inoltre, la democrazia come deliberazione sulla quale Habermas ha focalizzato la sua teoria politica dà molto rilievo alla funzione integrativa dell’interazione etica tra cittadini che argomentano delle questioni pubbliche e meno alla funzione decisionale che nasce dal suffragio e si manifesta con le opzioni partigiani ovvero in partiti politici. Infine, l’opinione ragionata di cui parla Habermas intende in qualche modo emendare gli interessi e le opinioni non riflessive, modi se così si può dire inferiori di partecipazione perchè esposti alla ragione strumentale. Secondo me le due dimensioni devono essere pensate insieme benchè ciascuna abbia una funzione sua propria e il loro potere sia diverso; e infine, la dimensione dell’opinione deve contemplare le ragioni partigiane e interessi e non escluderle come forme contaminate di deliberazione.

E qual è la posizione di Bobbio su quest’aspetto?

A differenza di Habermas, Bobbio sembra suggerire l’idea della democrazia come diarchia. Quando in Il futuro della democrazia Bobbio definisce la democrazia un metodo, egli aggiunge che questo metodo presuppone che la società sia luogo di espressione e contestazioni delle opinioni, un esercizio di dissenso che necessita di un metodo per convergere verso decisioni. In Bobbio la democrazia promette l’elezione dei rappresentanti, e si basa anche su un processo di partecipazione regolata diretta e indiretta alla formazione del consenso, di condivisione del potere da parte di tutti. La forma razionale della deliberazione è una componente, non però ciò che vale a nobilitare la democrazia: sono invece le procedure a nobilitarla perchè consentono il libero gioco delle idee e degli interessi, il rispetto dell’esito della gara a patto che le regole consentano sempre di provare a vincere domani. E’ la temporaneità di ogni decisione che ci rende liberi, il fatto che nessuna vittoria è ultima. Quello che faccio rispetto a Bobbio è di schematizzare la distinzione servendono dell’idea diarchica di volontà e opinione. La mia idea è che i due poteri debbano rimanere separati e distinti e interagire senza mai confondersi o sovrapporsi. Questo equilibrio o meglio la tendenza a mantenere questo equilibrio è il lavoro in cui consiste la democrazia, un ordine politico e insieme un modo di agire nello spazio pubblico (definito sia dal voto che dalla sfera dell’opinione).

Il libro arriva a conclusione di un periodo decennale in cui il suo pensiero si è contraddistinto per un’attenzione particolare, storica e teorica, al concetto di democrazia rappresentativa. L’idea alla base del suo libro del 2006 Representative Democracy: Principles and Genealogy è che la democrazia rappresentativa sia “una forma unica di governo democratico peculiare delle società moderne” che non costituisca un’alternativa alla partecipazione. In contrasto rispetto al democratismo radicale alla Rousseau e l’elitismo schumpeteriano (che convergono nel definire rappresentanza e partecipazione come opposti concettuali) lei sostiene che la partecipazione ha bisogno della rappresentanza per dispiegarsi e dipinge la rappresentanza come una forma complessa di partecipazione, un processo politico che genera e si sostiene su un continuo flusso di influenza, controllo e comunicazione tra cittadini e rappresentanti. In che modo quest’idea della rappresentanza come partecipazione si rapporta (o si evolve) nel concetto diarchico di democrazia come volontà e opinione?

La diarchia di cui parlo in questo libro è lo svolgimento di quello che già avevo messo in luce nel libro del 2006. Comune a entrambi è l’idea che la democrazia sia fatta delle regole che conosciamo proprio perchè retta sull’opinione e quindi il dissenso (in quanto contrariamento alla verità l’opinione non ha altra autorità che il numero dei consensi che riesce a ottenere). Tuttavia, in quest ultimo lavoro faccio un passo ulteriore approfondendo il concetto di potere dell’opinione e individuando le possibili deformazioni cui la diarchia può andare incontro. Mi sembra che le maggiori metamorfosi avvengano proprio sul versante dell’opinione, nel modo in cui le tre funzioni dell’opinione sono espresse. Presumendo la democrazia procedurale come la figura essenziale, parlo di variazioni della sua figura e anche di sfiguramenti.

Si può pensare che le deformazioni della democrazia convivano con la concezione diarchica?

Le deformazioni non devono essere viste come alternative rispetto alla democrazia, ovvero come forme non-democratiche; nella maggior parte dei casi, esse convivono e nascono dall’interno della democrazia, come forme estreme di stiracchiamento di una funzione dell’opinione rispetto alle altre. Proprio in virtù di questa coabitazione della democrazia con le sue sfigurazioni, è importante interrogarci su quali sono le condizioni che portano allo sviluppo di quest’ultime. Ce ne sono molte e tutte attuali. Penso ad esempio all’invenzione di Internet, la cui importanza è sicuramente paragonabile a quella che l’invenzione della stampa ebbe per la nascita della democrazia moderna. Ma penso anche al problema della regolamentazione dei finanziamenti economici e agli squilibri legati alla globalizzazione che mettono in crisi la forma statale della democrazia. Credo che la particolare pericolosità delle deformazioni della democrazia cominci a essere evidente quando queste cominciano a diventare narrative dominanti.

Come spiega lei stessa, il concetto di democrazia epistemica è particolarmente attuale perché guarda in modo falsato al tema del rapporto tra democrazia e verità. In che modo le concezioni epistemiche della democrazia si rapportano o modificano la democrazia come diarchia?

Nel rapporto tra le due autorità è possibile che questa seconda, l’autorità dell’opinione, si trasformi così da voler svolgere la funzione della volontà. Questo avviene nella prima sfigurazione della democrazia che analizzo, quella sostenuta dalle teorie epistemiche della democrazia. La mia critica a questa sfigurazione parte dal fatto che la democrazia ha e ha sempre avuto un rapporto molto complicato con la verità e la teoria politica con la filosofia. Questo perché il suo metodo di decisione non ammette che ci sia una verità assoluta. Sulla verità non si ha senso votare. Quando Rousseau dice che in assemblea chi si trova in opposizione sbaglia, egli non presuppone una concezione di verità assoluta, ma un’idea di verità legata alla nozione di cittadinanza (la volontà generale). Secondo il filosofo ginevrino, per il cittadino la giustizia e l’utilità devono andare insieme: questo è il senso del patto sociale. La volontà generale non ha contenuto ma è un medoto grazie al quale i cittadini si fanno la domanda alla quale devono rispondere quando sono chiamati a votare, a operare cioè come attori pubblici, come cittadini. Quando un cittadino deve giudicare una proposta da votare non si deve chiedere: “mi piace questa proposta?”. Si deve invece chiedere: “è questa proposta in accordo col patto fondativo del contratto sociale per il quale l’utilità individuale deve andare insieme alla giustizia?” Rousseau non dice quindi che chi è all’opposzione sbaglia nel senso che si oppone a u certo contenuto o a una verità assoluta; lo dice invece presumendo che come cittadini dobbiamo farci la domanda giusta, alla quale, secondo lui, non ci possono essere due risposte diverse ma una sola. Il punto di riferimento – i principi fondamentali – è il termine centrale sul quale il goudizio politico si forma, rispetto al quale chi ha ottenuto meno voti è prevedibilmente nel torto (presupponendo che tutti ragionino senza malevolenza o che nessuno usi l’arte della retorica per persuadere). La lezione di Rousseau è importante per questa ragione: ci ricorda che la democrazia presume la diversità di opinione e l’argomentazione, anche se non possiamo seguire Rousseau nella regola del silenzio per tenere lotanto il discorso e l’arte della persuasione (sulle quali del resto riposa la rappresentanza, che Rousseau come sappiamo esclude). Retorica e ideologia sono le armi che i cittadini usano quendo partecipano alla formazione delle opinioni, le quali sono plurali. I filosofi alla ricerca della verità non sono contenti di questa soluzione e credono che la democrazia non debba soltanto concederci di vivere nell’eguale opportunità di participare alla formazione della volontà politica; vorrebbero inoltre che le sue procedure ci diano la possibilità di ottenere decisioni buone o migliori di quelle che otterremmo se seguissimo procedure non-democratiche. Tuttavia, le procedure democratiche non sono costruite perché noi otteniamo risultati di un certo tipo. Noi abbiamo quelle procedure perché prendiamo decisioni all’interno di situazioni per nulla omogenee o organiche e questo ci può portare anche a decisioni non soddisfacenti. Lo scopo delle procedure non è di darci buoni risultati ma risultati che siano sempre modificabili – direi quindi che la democrazia è il regno delle decisioni penultime.

In altre parole, le teorie epistemiche della democrazia rigettano una visione procedurale della democrazia e preferiscono considerarla un mezzo per ottenere certi risultati. Ma quale può essere una risposta democratica a queste teorie?

Un esponente di punta delle teorie epistemiche della democrazia, David Estlund, critica Habermas per diferere il proceduralismo senza dargli nessun valore oltre la procedura stessa; in questo senso il proceduralismo habermasiano sarebbe indicativo di un atteggiamento nichilista. Questa è la visione propria delle teorie epistemiche della democrazia che vedono nella procedura una struttura in sè priva di valore se non finalizzata a un esito buono. La mia risposta a questa visione consequenzialista è che nella procedura c’è un valore perché le regole dicono chi siamo, cioè uguali cittadini che liberamente partecipano alla costruzione delle decisioni. Le procedure della democrazia sono piene di contenuto in questo senso. Tra l’altro, l’idea epistemica della democrazia è storicamente infondata. La democrazia non ci promette dove andare ma soltanto come dobbiamo camminare, non è uno strumento quindi ma un fine in se stesso. Questo si porta alla mente Machiavelli, secondo il quale la politica assomiglia all’acqua che gli argini incanalano per approfittare al massimo della sua forza e tener sotto controllo le sue potenzialità disastrose. La democrazia procedurale fa le veci degli argini. La visione epistemica ci porta invece a vedere la procedura politica come un mezzo per raggiungere certi risultati ovvero per correggere le nostre opinioni nella ricerca di ottenere risposte vere o corrette ai problemi. Gli epistemici vogliono una democrazia la cui bontà sta nelle buone leggi che produce. E invece, la democrazia produce anche decisioni pessime, eppure noi continuiamo a preferirla a sistemi dispotici che promettono e forse anche producono bone decisioni. Perchè scegliamo la democrazia invece del dispotismo illuminato? Se noi ci basiamo su quello che produce, rischiamo davvero di svalutare la democrazia, la quale come regime politico produce molto spesso mediocri o pessime decisioni.

Tra l’altro, è difficile non riscontrare delle somiglianze tra le teorie epistemiche della democrazia e la crescente importanza della tecnocrazia o dei tecnici nei governi democratici contemporanei. Ad esempio, al livello europeo adesso si parla spesso di ‘output democracy’ intendendo con quest’espressione il fatto che la democrazia debba essere un regime in grado di raggiungere risultati tanto legittimi quanto efficienti. Che rapporto c’è tra le teorie epistemiche e questa visione efficientista della democrazia?

Credo che gli epistemici, a differenza degli efficientisti, partano dal concetto di eguaglianza. La democrazia dà la stessa voce a tutti perché c’è una base di uguaglianza di potenzialità intellettuali in tutti. Secondo la visione epistemica, la procedura è già contenuta nel principio di eguaglianza della capacità intellettiva. Per gli efficientisti, invece, la situazione è più estrema e, credo, pericolosa perché trasformano la democrazia in una questione di problem-solving, proprio come accade nella governance. Il ragionamento sembra sia il seguente: dato che le democrazie sono incapaci di prendere con certezza decisioni efficaci o efficienti, occorre restringere il raggio d’azione della scelta politica. Questo è il discorso che emerge per esempio dal libro Republicanism di Philip Pettit, che discuto nel secondo capitolo del mio libro. Secondo Pettit, i parlamenti devono diventare silenti mentre tutto il lavoro deve essere fatto da commissioni di esperti che sanno meglio ragionare imparzialmente perchè non soggetti al verdetto popolare; ai parlamenti si lascia il voto finale si/no. In quest’ottica, l’opinione deve essere superata, non può entrare nel gioco deliberativo se la democrazia deve raggiungere ‘buone’ decisioni. Ma se le decisioni nei luoghi deliberativi elettivi non sono più rilevanti, allora ci dirigiamo verso una forma di deliberazione spoliticizzata. Come si vede, il rischio è l’esautoramento dei corpi elettivi. Ma al di là di ciò, la procedura non ha bisogno di una giustificazione basata sull’eguaglianza delle capacità intellettive per essere legittima: del resto l’idea di universalità del suffragio è una risposta radicale contro il principio della capacità intellettiva. Bobbio ha ben chiarito questo: la democrazia non ha un fine specifico da raggiungere. Se riempi il fine della democrazia con qualcosa, da quel momento tu limiti le possibilità dei cittadini, la loro libertà. La democrazia ci lascia quindi la capacità di sbagliare e rifare decisioni. E’ un sistema aperto di decisione: il regno, appunto, delle decisioni penultime. Tra l’altro, se la ragione dovesse essere il fondamento della sovranità allora dovrebbero votare solo i più sapienti (un’idea permanente nella storia, da Platone fino a Guizot). Invece, è la nostra libertà la ragione della nostra partecipazione. E’ per questo che credo che, sia la democrazia epistemica che quella efficientista siano un ossimoro. Nel dialogo platonico del Protagora c’è un esempio interessante per capire il rapporto tra la democrazia e la competenza tecnica. In questo dialogo, Platone ci spiega che se il popolo vuole costruire una nave si rivolge ovviamente ai tecnici competenti e ai costruttori di navi, non le costruisce da solo. Però è il popolo che decide se quelle navi servono e se devono essere costruite: questo è il loro potere politico, che risiede appunto nel potere eguale di decidere non nel potere di decidere bene o correttamente (per cui si possono delegare competenti o tecnici).

Passiamo a quella che lei considera nel libro la seconda disfigurazione della politica, e cioè il populismo. In che modo esso si appropria del concetto di volontà in una democrazia e lo riformula in senso anti-democratico?

Delle tre disfigurazioni, il populismo è l’unico che agisce in maniera radicale anche sulla trasformazione del concetto di volontà. Per i populisti, l’ideologia del popolo unisce volontà e opinione: l’opinione più omogenea o quella che ha più largo sostegno dovrebbe essere eo ipso la volontà o la legge. Mentre la democrazia epistemica si concentra sull’opinione (per negarla) qua abbiamo a che fare con una critica serrata al concetto di rappresentanza che svuota la volontà di qualsiasi aspetto formale e procedurale per essere espressione dell’opinione popolare. Il populismo usa le procedure solo nella fase della propria affermazione, allo scopo di vincere. In un secondo momento, il leader populista tenta in tutti i modi di realizzare la propria idea facendo ad essa coincidere il potere dello stato. Se nella visione epistemica la democrazia è giudicata dal punto di vista della verità esterna alla procedura, qui è giudicata dal punto di vista dell’aderenza della procedura a quel che il popolo (ovvero il leader) vuole che la verità sia. Un esempio di questa visione viene o è spesso venuto dall’America latina, dove i leader populisti o i caudilli hanno utilizzato il potere dello stato per favorire la propria costituency e quindi togliere le armi all’opposizione. Questo modo di concepire il potere, tuttavia, toglie valore alle procedure democratiche concepire come mezzi al servizio di un’idea di popolo. In questa visione della democrazia, il liberalismo è espunto. Il vero obiettivo polemico del populismo è la democrazia rappresentativa, la competizione e il pluralismo partitico, espressioni del fatto che nella società ci sono interessi diversi e non tutti unificabili sotto un’idea egemonica di popolo.

La sua critica alla deformazione populista della democrazia ha come obiettivo principale il libro di Ernesto Laclau, la ragione populista. Qual è la sua critica principale al libro del filosofo argentino scomparso recentemente?

Laclau è stato forse l’unico pensatore contemporaneo che ha cercato di dare al populismo una statura teorica autonoma; per fare questo ha sostenuto un’identità di populismo, democrazia e politica. Quest’ultima avrebbe a che fare con la costruzione collettiva del sovrano (Laclau non lo chiama sovrano ma popolo). Il popolo di Laclau è tale nel senso romano di plebe, cittadini meno abbienti, coloro che cercano nell’unità sotto un tribuno la loro protezione dai potenti. La politica è costruzione ideologica dell’unità del popolo. Laclau è giungo a questo esito con due mosse teoriche notevoli: ha prima emancipato il popolo dall’identificazione con la massa ignorante e la democrazia oclocratica (nella tradizione di Gustave le Bon o Ortega-i-Gasset); poi, ha emancipato l’azione politica della massa dall’accusa di irrazionalità che è servita a giusitificare la teoria della scelta razionale, cioè la dissoluzione del soggetto collettivo immettendo nella politica il ragionamento strumentale economico individuale. Laclau emancipa la politica dalla razionalità economica ed emancipa la massa dall’irrazionalità rivendicando l’unicità della ragione politica, che è fatta di miti e di retorica ed in questo profondamente razionale allo scopo: uniformare una massa di individui portatori di varie rivendicazioni in un popolo attore collettivo è agire politico. Laclau rivendica l’originalità dell’azione politica e popolare collettiva attraverso un processo egemonico. Questo è indubbiamente un importante contributo. Se non che la politica non è soltanto costruzione dell’egemonia. Oltretutto, come spiego nel libro, il modo in cui Laclau usa l’idea gramsciana di egemonia è discutibile. La teoria di Laclau è inquietante perché l’identificazione tra populismo e politica ci dice che tutto è populismo. Se è così, allora perché parlare di democrazia e di populismo? Secondo me le cose stanno in un modo diverso. Il populismo per essere definito ha bisogno della democrazia, esso non è la democrazia. E’ una radicalizzazione del principio maggioritario che non è abolito ma realizzato e poi usato in maniera così intensa da rendere l’opposizione nana o inutile. Questo utilizzo strumentale del principio maggioritario fa del populismo una creatura parassita della democrazia, che sugge dalla democrazia la linfa e che per questo può corromperla. Il populismo sta al confine estremo della democrazia, oltre il quale ci può essere dittatura.

Tuttavia lei distingue il populismo da certi movimenti popolari come gli Indignados o OccupyWallStreet…

E’ impossibile dare una definizione categorica del populismo. Quel che faccio è identificare alcune categorie che lo contraddistinguono. Lo distinguo prima di tutto dal movimento popolare. Un movimento popolare è democratico e non è la stessa cosa del populismo. Indignados e OccupyWallStreet sono stati movimenti popolari che non hanno voluto e avuto un capo unico e hanno invece contribuito alla dialettica democratica dei regimi rappresentativi, anche se li hanno radicalmente contestati. Al contrario, il populismo è un progetto di governo e di trasformazione della democrazia da parlamentare e partitica a consensuale e mono-archica. In quest’ultimo caso, il rischio è di andar fuori dalla democrazia e avere un altro regime.

Qualcuno potrebbe leggere la sua critica al populismo come un tentativo di mettere sullo stesso piano fenomeni molto diversi come quello quelli del populismi europei di Le Pen o della Lega Nord e i populismi sud-Americani di Chavez e Correa. E’ possibile distinguere politiche populiste ‘buone’ e populismi ‘cattivi’?

Non credo. Il populismo è l’affermazione di un maggioritarismo estremo e in questo senso la distinzione tra populismo di destra e di sinistra non è rilevante; essa è contingente. La forma populista ha delle caratteristiche costanti. Se dovessero prendere in mano il potere, i due populismi farebbero le stesse cose. Il populismo è antiliberale e non sopporta le minoranze politiche. Unisce il popolo contro l’élite e per raggiungere quest’obiettivo la distinzione tra destra e sinistra non ha grande importanza.

Nell’ultima parte del libro, lei discute una terza disfigurazione della democrazia che lei definisce plebiscitarismo. Quali sono le differenze col populismo?

Il plebiscitarismo è imparentato al populismo ma mantiene la distinzione tra procedure e opinione e le distribuisce tra due gruppi diversi: chi opera nelle istituzioni (l’elite) e il pubblico che sta fuori. Nel plebiscitarismo i pochi sono eletti e i molti fanno un’altra cosa, assistono all’esercizio del potere da parte dei primi. C’è una divisione del corpo sovrano in due gruppi, e quindi la funzione del popolo viene ad essere passiva in rapporto a quella svolta dai pochi. Il popolo diventa spettatore o occhio (come lo chiama Jeffrey Edward Green) ma è privato dell’elemento della cittadinanza attiva. Dato che il popolo è svilito a plebiscito, la figura della leadership fa tutto il lavoro e le procedure si risolvono nell’andare a votare, nel sancire il leader, secondo una logica Schumpeteriana, che ben si lega a questa visione della democrazia. E’ chiaro che nel caso del populismo c’è una presenza dirigistica assai forte, come nel caso del plebiscitarismo; ma la differenza è che nel primo l’elemento popolare è più attivo che nel secondo. Nel populismo c’è la massa mobilitata mentre nel plebiscitariamo ci sono soprattutto gli spettatori che guardano la televisione o usano Twitter o seguono il leader nelle sue permanenti esternazioni pubbliche. Nel populismo la voce è centrale mentre nel plebiscitarismo è la vista a farla da padrone. Nel plebiscitarismo non c’è bisogno che il tema del popolo sia centrale perchè ci sia un leader. Come dice Bernard Manin, nella democrazia dell’audience i veri attori sono gli esperti di comunicazione dei partiti che diventano mezzi di costruzione dell’audience e non sono più strumenti di elaborazione politica.

Nel suo libro, lei spiega che il concetto di Cesarismo (cioè il rapporto diretto tra un leader carismatico e il suo popolo) ha varie declinazioni e può essere interpretato sia come una conseguenza del populismo che come una componente del plebiscitarismo. Quali sono gli elementi di specificità del cesarismo populista in rapporto a quello plebiscitario?

In effetti, il concetto di Cesarismo assume un aspetto diverso nel populismo e nel plebiscitarismo. Il leader plebiscitario è un leader carismatico come di insegna Max Weber, e ha bisogno di essere amato dalle masse e di dare loro quella forma che esse non sanno darsi da sole. Il leader del nostro tempo tuttavia non cresce nel parlamenro e nemmeno nel partito, ma nella sfera dell’opinione. Ecco perchè uso l’espressione plebiscitarismo dell’audience. Questo leader non ha più vita privata e paga questo prezzo in cambio del potere. Questo nuovo plebiscitarismo pensa che finalmente il pubblico riesca a controllare il leader senza più doversi affidare a istituzioni non democratiche, come le corti costituzionali o la dovisione dei poteri o il bicamenralismo. Si tratta di visione idealistica del ruolo dei mezzi di comunicazione, che si scontra con l’esperienza recente e recentissima: noi non abbiamo in effetti alcun controllo o potere sul leader, è la sua immagine che controlla noi; egli vuole il nostro consenso e di serve di strategie commerciali o mediatiche per ottenerlo. Quel che noi facciamo è vedere quel che qualcuno ha deciso che dobbiamo vedere. Al contrario, nel populismo il leader cesarista è un attore politico: c’è unione mistica tra popolo e leader in tutti e due i casi, ma viene raggiunta in maniera diversa in ciascun caso. Nel populismo, il leader va in piazza, interagisce col popolo, talvolta si confonde con esso e in mezzo a questo. Nel caso del plebiscitarismo, invece, la costruzione del leader carismatico dei media è un’immagine, una costruzione mediatica dai contorni mitici e sfumati. Il leader rappresenta se stesso: è un esemplare di uno di noi. L’aspetto estetico è essenziale mentre nel populismo c’è un aspetto politico preminente. Credo tuttavia che la deformazione totalitaria sia molto più pericolosa nel caso del plebiscitarismo perché qui il popolo scompare per diventare pubblico. In entrambi, i corpi intermedi sono comuque esautorati. Esempi di leader plebiscitari sono stati Bettino Craxi, Tony Blair e, più recentemente Matteo Renzi. Silvio Berlusconi combinava fattori populisti e plebiscitari, se non altro perchè aveva un apparato ideologico (liberali contro comunisti) del quale si serviva per gestire la dialettica “amici”/”nemici”. Ma queste semplificazioni sono semopre stiracchiate; in realtà tra populismo e plebiscitarianismo c’è osmosi, soprattutto nella società dell’opinione mediatica.

Il dibattito recente sulla rappresentanza, soprattutto nel mondo anglofono, tende a valorizzare sempre di più il ruolo costitutivo ed estetico della rappresentanza come creazione del politico o come interazione dinamica tra pretese rappresentative e un concetto molto ampio di pubblico (penso ad autori come Frank Ankersmit e Michael Saward). Questa tendenza, che ha delle similitudini nel concetto estetico di doxa che lei critica nella deformazione plebiscitaria della democrazia, radicalizza l’idea che la rappresentanza sia una sorta di sovranità riflessiva (quello che lei definisce opinione) e, in certi casi, tende a isolarla dal concetto di volontà da lei descritto, promuovendo forme post-rappresentative e post-sovrane di democrazia. Qual è il suo giudizio sulla qualità democratica di queste forme di rappresentanza estetica?

Le forme di rappresentanza estetica esprimono solo una parte del discorso sulla rappresentanza. La rappresentanza politica è una categoria complessa che ha bisogno di un’autorizzazione formale, della volontà. Di conseguenza, mi sembra che queste forme estetiche di rappresentanza siano imparentate alla sfigurazione plebiscitaria della democrazia la quale, da sola, non qualifica la rappresentanza democratica. Inoltre, mi sembra che esse non abbiano un’accredito normativo democratico perché presumono che la rappresentanza sia un’azione autoreferenziale che si impone acquistando visibilità senza sottostare al controllo dei rappresentati visto che c’è rifiuto dell’indicazione del rappresentante per via di elezioni. Che dunque il loro programma le qualifichi come rappresentative ovvero che la rappresentanza avvenga per auto-legittimazione mi sembra problematico. L’uso della rappresentanza estetica è un modo per legittimare la rappresentanza degli interessi o dei valori e ci ricorda Schmitt, quando nei suoi scritti parlava di rappresentanza dell’autorità ecclesiatica come simbolo di una forma di rappresentanza superiore al consenso dei rappresentati. Giova ricordare che questo tipo di rappresentanza serve a giustificare l’autorità dei rappresentanti più che a dare potere ai rappresentati.

L’impatto della globalizzazione sulle democrazie contemporanee è alla base di una buona parte dei fenomeni di spoliticizzazione e anti-politica descritti nel suo libro. Crede che la crescita dell’interdipendenza globale e della complessità sociale e politica della governance transnazionale stiano avendo un impatto negativo sulle democrazie contemporanee? E come guarda alle diverse teorie che cercano di dare una risposta democratica ‘cosmopolitica’ al deficit democratico globale?

Indubbiamente i processi di globalizzazione stanno avendo un impatto fondamentale sulle trasformazioni della democrazia rappresentativa. Il problema non è la democrazia ma la condizione statale dell’autorità politica. Tuttavia sono molto scettica sulla possibilità di uno stato globale come soluzione a questo problema. Chi è il cittadino di una democrazia globale? Thomas Piketty nel suo ultimo libro parla molto della necessità di una tassazione globale. Il problema è chi decide che ci debba essere una tassazione al livello globale? Chi sono gli attori politici e come li si seglie e controlla?

Un’ultima domanda è sul futuro della democrazia. Dall’ascesa dei populismi (soprattutto alle ultime lezioni europee) al peso crescente della globalizzazione, sembra che le democrazie contemporanee siano sempre più incapaci di dare risposte adeguate alla realtà politica in cui operano. Ci sono secondo lei degli aspetti prioritari su cui dovremmo concentrarci per cercare di rimediare alla crisi delle democrazie?

Credo che la cosa più importante da evitare di fronte allo stato di crisi delle democrazie sia una forma di rassegnazione che può rivelarsi fatale. Certo, è innegabile che gli strumenti che abbiamo al momento sono insufficienti. Ci sono due aspetti che ritengo assolutamente prioritari per cercare di arginare la crisi che contraddistingue le democrazie contemporanee. Bisogna essere più radicali nel creare le condizioni economiche della democrazia: la cittadinanza deve avere delle proprie risorse, delle basi economiche auonome dal mercato privato, per finanziare il potere della volontà e quello dell’opinione (ovvero partiti, campagne elettorali e mezzi di informazione). Devolvere al privato questi mezzi di formazione della scelta politica non è la strada migliore per irrobustire la democrazia. La democrazia ha un costo e costa, e questo non è uno scandalo (è fatta da cittadini ordinari, non da plutocratici o da nobili!). Questa attenzione alle procedure e ai costi per ben attuarle riporta in primo piano il valore delle elezioni e mette in guardia dalla trendenza in atto a restringere il numero e le funzioni degli organi elettivi per designare a comitati di nominati compiti politici.

Alessandro Mulieri è dottorando in filosofia politica presso il Centre for Global Governance Studies e l’Istituto di filosofia politica dell’Università di Lovanio in Belgio. In passato ha studiato filosofia all’Università “La Sapienza” e Relazioni internazionali presso la London School of Economics.

(3 settembre 2014)

1.6.12

Il Codice Grillo

Massimo Gramellini (La Stampa)

Quando saremo al potere, spiega Grillo in un’intervista a «Sette», i politici verranno giudicati da un tribunale di cittadini incensurati estratti a sorte, che li condannerà ai lavori socialmente utili e alla restituzione del malloppo. Vedo già formarsi una ola da Bolzano a Trapani. Sorprende la moderazione del gabibbo barbuto: se avesse proposto di mozzare le mani ai ladri e la lingua agli ospiti dei talk show sarebbe stato portato in trionfo da tutti i sondaggi che chiedono agli italiani se preferiscono l’aumento della benzina o quello dello stipendio. Le persone hanno fame di capri espiatori per calmare l’ansia. Fin troppo facile blandirle con il populismo. Perciò merita rispetto la presa di distanza di Enrico Strabotti Bon, militante del movimento 5 Stelle sezione adulti: «La crisi ha ragioni più complesse. Magari potessimo ridurla a una vicenda di guardie e ladri. Ciò detto, chi ha commesso dei reati non la passerà liscia. Ma guai se a giudicarlo fossero i tribunali del popolo. Erano già poco democratici nella democratica Atene, dominati dall’emotività e dall’odio che si porta dietro altro odio. Giacobini, nazisti, stalinisti, talebani: non c’è epuratore che non li abbia usati per epurare, salvo esserne epurato a sua volta. Prima o poi, Beppe, quel tribunale giudicherebbe anche te. Il peggior Stato di diritto è meglio della migliore giustizia popolare».

Condivido Enrico Strabotti Bon. Non foss’altro perché me lo sono dovuto inventare. Sempre in attesa che un seguace reale di Grillo trovi la forza di ricordargli che non ci siamo liberati di un contaballe per consegnarci a un ayatollah.

9.5.12

Grillo, il guru che tira la volata

 di Fabrizio Garlaschelli  (La Provincia Pavese)

Gran risultato del Movimento 5 stelle.
Sono contento per i "grillini" giovani e impegnati sul territorio. Qualcuno vuole paragonarli ai leghisti dei primi tempi. Direi che sono agli antipodi per preparazione culturale e tipologia politica. Almeno quelli che conosco. Come sempre quando un movimento cresce non mancano nelle sue fila fanatici e sostenitori acritici che prendono per oro colato tutte le stupidate sparate del loro guru. E Grillo è un guru.
Non esistono guru democratici. L'uomo che sta dietro magari lo è, così come può essere umanamente splendido, almeno fin tanto che non si prende totalmente sul serio.
Per Grillo questo è il maggior limite. Ha bisogno di un pubblico che penda dalle sue labbra; è nella sua natura di attore. Ma è anche persona dotata di intuito straordinario nel cogliere il "nuovo" dalle sollecitazioni che riceve. Lo ha fatto con l'ecologia, con l'economia, con la rete e il suo uso, con la politica. Dire che è un qualunquista antipolitico significa non tener conto del suo iter teatral-politico. Anzi, a ben guardare ha recuperato all'interesse per la cosa pubblica una frazione importante di persone che non ne volevano più sapere. Eccessivo, volgare, schematico, superficiale, piace al pubblico proprio per la semplicità immediata con la quale veicola i contenuti, spesso non facili, dei suoi messaggi, allo stesso modo delle sciocchezze demagogiche. Gli intellettuali che sostengono cose simili alle sue sono ovviamente più precisi ed articolati, ma anche infinitamente più prolissi e noiosi. Le loro "corrette" argomentazioni non raggiungono lo scopo di scaldare e tantomeno influenzare un pubblico né grande né piccolo.
Così Grillo è riuscito nell'impresa di costruire un partito ora forse superiore al dieci per cento. Ma non con un elettorato che vota per lui, improponibile leader politico, bensì per una serie di personaggi anonimi, a volte anche abbastanza grigi, però volenterosi, ai quali il "guru" tira la volata finale riempiendo una piazza con i suoi frizzi e lazzi.
Fino ad ora tuttavia la cosiddetta "gente" veniva, rideva, applaudiva e solo in minima parte votava Movimento 5 stelle.
Ci sono voluti quasi vent'anni di porcherie berluscon-leghiste, lo sfascio etico-culturale non solo della destra, ma anche della sinistra, l'informazione televisiva e giornalistica "paludata" priva di credibilità, la diffusione di internet e dei social network, una devastante crisi economica e la spocchia "professorale" antipopolare del governo Monti per ottenere questo risultato.
Ora agli eletti nelle amministrazioni comunali spetta l'onere di far seguire alle parole i fatti, senza trasformarsi nella ennesima speranza delusa. Ma è presto: ben pochi avranno autentiche responsabilità di governo locale. Per ora dovranno far bene l'opposizione che è pur sempre più facile che governare.
Alla prossima tornata elettorale tutto potrebbe essere diverso. Se in qualche modo la situazione dovesse rinormalizzarsi anche il successo elettorale dei "grillini" si ridimensionerebbe. Se le cose peggioreranno, come c'è fortemente da temere, le chance del Movimento 5 stelle aumenteranno.
Ciò che i partiti tradizionali e i loro leader non sembrano aver capito, insieme a mille altre cose, è che non è stato Grillo a vincere facendo leva sul populismo e l'antipolitica. Sono stati loro a perdere continuando ad autoalimentarsi come ceto politico corrotto ed inetto, incuranti del fatto che aumentano coloro che, aperti gli occhi, hanno cominciato a gridare "il re è nudo!".
Anche a Pavia se si fosse votato ora le cose sarebbero andate diversamente.

18.4.11

Francia e Italia i due populismi

di BERNARDO VALLI

Da alcune settimane due populismi si scontrano in Europa offrendo uno spettacolo tutt'altro che edificante. Direi miserabile. L'aggettivo non è troppo forte, perché al centro della contesa ci sono quei profughi, economici o politici, la classificazione è spesso cancellata dal dramma umano, che ogni giorno approdano sulle nostre sponde dopo avere visto affogare non di rado nelle acque del Mediterraneo figli, genitori, amici. Nelle stesse acque nelle quali noi europei cominceremo presto a fare i nostri bagni estivi.

Il presidente del Consiglio ha definito quell'esodo uno "tsunami", cioè una catastrofe naturale, un fenomeno maturato nelle viscere del Mediterraneo e quindi senza volto. Insomma, una sciagura da scongiurare. Francia e Italia si comportano appunto come se quei profughi fossero un'onda di maremoto.
La tenzone tra i due populismi ha assunto toni grotteschi nelle ultime ore a Ventimiglia, al confine tra Francia e Italia, dove di solito transitano fortunati turisti o pendolari del posto tra la nostra Riviera e la Costa Azzurra, e dove hanno fatto irruzione gruppi di quei profughi reduci dalla spesso tragica traversata del Mediterraneo. Il governo italiano li ha dotati di permessi provvisori a suo avviso conformi agli accordi di Schengen. Ma il governo parigino, tramite il prefetto delle Alpi Marittime, ha impedito senza preavviso ai treni provenienti dall'Italia di varcare la frontiera, al fine di impedire il loro ingresso in Francia.

Due comportamenti che offrono, in egual misura, un'immagine non certo
nobile dell'Europa. Non è per motivi umanitari che il governo italiano ha dotato i migranti, per lo più tunisini, di permessi non riconosciuti validi, a torto o a ragione, dai francesi. Si tratta di una evidente, furba mossa per sbarazzarsene. Ed è per un'altrettanto furba mossa che il prefetto delle Alpi Marittime, ubbidendo al suo ministro dell'Interno, ha adottato l'interpretazione parigina degli accordi di Schengen, o ha preso come pretesto la modesta manifestazione franco-italiana in favore dei migranti in corso a Ventimiglia, per respingere i tunisini, molti dei quali hanno parenti in Francia.

Da parte italiana ci si è risentiti anche perché autentici cittadini della Repubblica italiana non hanno potuto varcare il confine, per via dei treni sospesi. Al colmo dell'indignazione, il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha chiesto al nostro ambasciatore di esprimere una ferma protesta al governo francese. Un incidente diplomatico prodotto da due meschine furbizie a confronto, che interviene in un momento di difficili rapporti tra Roma e Parigi, ed anche di isolamento di Roma nell'Unione europea, dove si evita spesso di familiarizzare con l'odierna Italia politica.

Una crescente ondata di populismo accomuna Italia e Francia e al tempo stesso inasprisce il loro dissenso. A Roma il governo dipende da un partito xenofobo, indispensabile alla maggioranza parlamentare, e solerte nell'alimentare i sentimenti contro gli immigrati. Un dirigente della Lega occupa addirittura il ministero dell'Interno.

A Parigi, a un anno dalle elezioni presidenziali, Nicolas Sarkozy conosce i peggiori sondaggi. L'ultimo gli aggiudica il 28 per cento dei consensi, un quoziente che potrebbe annunciare un'impossibile riconferma alla testa della Quinta Repubblica, nel caso Sarkozy intendesse riproporsi. E che, in tal caso, non esclude neppure un'umiliante eliminazione al primo turno. Quest'ultima ipotesi potrebbe avverarsi se la candidata del Front National, Marine Le Pen, andasse al voto decisivo del secondo turno con il campione della sinistra, ancora da designare.
Nicolas Sarkozy cerca dunque di recuperare i voti dell'estrema destra. I quali decisero la sua elezione quattro anni or sono, ma che, stando ai sondaggi, sarebbero stati riassorbiti nel frattempo dal Front National, da quando la figlia di Jean-Marie Le Pen, il fondatore, ha rinnovato, modernizzato, il discorso dell'ormai vecchio padre. A differenza della Lega, xenofoba ma anche anti-nazionale, il Front National è xenofobo e nazionalista. Entrambi i partiti hanno in comune l'avversione per gli immigrati. Ed è insistendo su questo tema, sia pur nei limiti impostigli dalla carica, che Nicolas Sarkozy spera di recuperare i consensi perduti. Il suo discorso ha compiuto una sterzata in direzione dell'estrema destra. Il rifiuto dei profughi dirottati verso la Francia dal governo italiano è l'evidente conseguenza dell'attuale politica di Sarkozy. Non a caso il suo ministro dell'Interno ha appena proposto di ridurre anche il numero degli immigrati legali.

Cosi i due populismi giocano con i migranti come se fossero una calamità, come se fossero oggetti destinati a far perdere voti. La Lega governa a Roma e il Front National minaccia politicamente il presidente a Parigi. Umberto Bossi appoggia la ridicola idea di boicottare champagne e camembert; e il prefetto delle Alpi Marittime, ubbidendo a ordini superiori, ferma i treni italiani alla frontiera.

11.7.10

La Francia contro i suoi re

Nei film più neri di Claude Chabrol, sono personaggi di infima origine - una governante analfabeta, una postina, una spogliarellista, un maestro alla deriva - a scombussolare d’un tratto i finti equilibri dell’alta borghesia precipitandola nell’orrore o nella morte. Nel Buio nella mente, la governante analfabeta Sophie governa perfettamente la villa, ma l’umiliazione l’ha come prosciugata e i suoi sogni li sfama trangugiando cioccolata e Tv. I tenutari della villa sono serviti con la massima meticolosità fino al momento in cui ogni cosa barcolla e si rovescia: il padrone frana nella soggezione; il servo insorge e si fa padrone dell’universo. L’ignorante-analfabeta ha come un occhio in più; il colto e ricco borghese si scopre cieco. Non ha visto che la storia, quando i rapporti di potere s’immiseriscono, sono i domestici a farla.

È quello che sta succedendo in Francia, con lo scandalo Bettencourt. Un maggiordomo trattato senza rispetto registra in segreto le conversazioni private della padrona, e porta alla luce storie abiette di corruzione politica e di evasione fiscale. Una contabile-governante, anch’essa maltrattata e licenziata, decide di rivelare alla polizia e ai giornalisti le bustarelle molto voluminose che Liliane Bettencourt, multimiliardaria ereditiera dell’Oréal, distribuiva a deputati e ministri. La repubblica monarchica trema, i clandestini intrecci tra politica e affari vengono smascherati. Lasciando la magione a Neuilly-sur-Seine, il maggiordomo Pascal riferisce di «un’atmosfera divenuta malsana».

Claire, la contabile, racconta l’arroganza dell’amante di Liliane, François-Marie Banier, e del suo manager finanziario Patrice de Maistre. Come in un classico film noir, i reietti riscrivono la trama.

Un’alta borghesia che si arrocca e si squilibra, uno Stato che domina a tal punto l’economia da servirsene senza scrupolo, un’osmosi tra servizio del pubblico e servizio del privato che caratterizza le élite (il passaggio assicurato da un ambito all’altro si chiama pantouflage), la rivolta infine della gente comune, delle petites gens: sono tutti elementi di una storia molto francese, costellata di ricchezze spudoratamente dissimulate e di conseguenti regicidi. Ma tante sono le somiglianze con quello che accade altrove, in Italia o in Grecia, e ovunque si assiste allo stesso spettacolo: una crisi economica che rende improvvisamente intollerabili la disuguaglianza di ricchezze e quella di fronte alla legge, una classe dirigente che difende i privilegi acquisiti reclamando l’impunità, una stampa e una magistratura che diventano essenziali garanti delle uguaglianze da restaurare e del diritto di sapere. Gérard Davet, su Le Monde, scrive che per i piccoli, gli emarginati, il giornalista è qualcuno che «parla in loro nome».

Yves Mény, che per sette anni è stato presidente dell’Istituto universitario europeo di Firenze e ha scritto libri fondamentali sulla corruzione e il populismo, scorge in quel che sta avvenendo un tratto particolarmente latino, oltre che francese. Tipicamente francese è il cumulo dei mandati: il parlamentare che mantiene un mandato locale è una pratica corrente. Tipicamente francese è anche la vicenda del ministro del Lavoro Eric Woerth: tesoriere del partito quando era ministro del Bilancio e ancor oggi, è sospettato di aver coperto l’evasione fiscale di Liliane Bettencourt e di aver ottenuto dalla padrona dell’Oréal somme illegali per il candidato presidenziale Sarkozy nel 2007. Ma la lunga permanenza in Italia spinge Mény a andare più a fondo, a vedere una più vasta e ramificata cultura dell’illegalità nell’Europa latina, fatta di criminosi conflitti d’interesse, di classi politiche incapaci di correggersi, di scarse difese immunitarie.

Nei paesi anglosassoni la separazione tra politica e affari è forse ancor meno netta, ma proprio per questo si escogitano antidoti che non si trovano in paesi come la Francia o l’Italia. È significativo, ad esempio, che non esista in francese (e nemmeno in italiano) il termine accountability: la cultura del render conto, dunque della legalità, che deve animare chi dirige il paese e senza la quale è impossibile si instauri fiducia fra cittadini e Stato, fra piccoli e grandi, fra meno abbienti e grandi fortune. Mény ricorda il ruolo essenziale che nelle democrazie funzionanti svolgono i due poteri di controllo e vigilanza che sono la stampa e la magistratura, l’opinione pubblica non disinformata e il rispetto non selettivo della legge. Le sentinelle che aiutano a sorvegliare sono chiamate nei paesi anglosassoni i whistleblower, letteralmente coloro che, dall’interno di un’azienda o una struttura di potere, suonano l’allarme in caso di trasgressioni ai vertici. La funzione ha precisi statuti e garanzie in America del Nord.

In tempi di crisi democratica grave la funzione del whistleblower fa riferimento all’opinione pubblica, attraverso i giornali che l’informano e la educano se possibile alla vigilanza. È il motivo per cui è contro la stampa indipendente che si scatena il risentimento di classi politiche o imprenditoriali assetate di impunità e esenzioni: perché il potere che essa impersona, se esercitato con spirito di indipendenza, è del tutto diverso dal potere dei governi, dei politici, dei partiti. Nel mirino del potere politico francese, in queste settimane, è un giornale online, Mediapart, diretto da un giornalista di investigazione che per anni ha lavorato a Le Monde, Edwy Plenel. Plenel già indispose enormemente Mitterrand, a metà degli Anni 80. Per aver indagato sul ruolo del Presidente socialista nello scandalo di Greenpeace (una nave dell’organizzazione diretta a Mururoa venne affondata con la dinamite dai servizi segreti francesi, nel 1985, causando la morte di un fotografo portoghese). Ora il suo giornale online è accusato di fascismo, di populismo, di speculare sulla crisi della democrazia, addirittura di affossarla.

Quel che colpisce è il timore reverenziale che molti illuminati hanno verso le pratiche occulte e la corruzione di una parte del potere francese. Anche qui, come in Italia, virtuoso è chi chiude possibilmente tutti e due gli occhi, chi invoca toni bassi e silenzio, chi preserva equilibri considerati troppo fragili per essere scossi, chi se la prende più con le sentinelle che suonano l’allarme che con i trasgressori. Centristi classici come Michel Rocard a sinistra e Simone Weil a destra hanno scritto un editoriale indignato su Le Monde, il 4 luglio, prendendosela con la stampa che denigra, denuncia, minaccia addirittura la repubblica asservendola e umiliandola. Analisi fini e approfondite le fanno alcuni isolati e la magistratura: è stato il tribunale di Parigi, l’1 luglio, a difendere la pubblicazione su Mediapart delle registrazioni del maggiordomo, statuendo che esistono casi «di interesse pubblico che mettono in primo piano il diritto all’informazione, e in secondo piano il diritto alla privacy».

Yves Mény sostiene che marasmi simili sono possibili perché nell’Europa latina è la cultura cattolica a dominare. La cultura cattolica assolve, stabilisce regole severe, ma non mette in moto né sconvolge la coscienza. Il politico o l’amministratore non possiedono un proprio intimo codice etico: solo il codice penale può fermarli, se la magistratura ha la necessaria indipendenza, e questo diminuisce drasticamente le difese immunitarie dalla malattia della corruzione. Solo verso l’elettore il politico si sente responsabile, ed è il suffragio universale a decidere della buona o cattiva reputazione del leader. È così che l’atmosfera nei palazzi di Francia diventa malsana, indignando i reietti di Chabrol e spingendo cittadini, giornalisti, magistrati a «fare Stato» al posto di chi lo sgoverna.

12.12.08

I fanatici del popolo - da Putin a Berlusconi, il populismo è globale

di Benedetto Vecchi

«La ragione populista» del filosofo marxista Ernesto Laclau e «Populismo globale» del giornalista italiano Guido Caldiron. Due saggi per aiutare a comprendere una forma politica che ha acquisto forza nella crisi della democrazia e nei punti «alti» dello sviluppo capitalista

Il populismo, ovvero il nodo scorsoio della democrazia contemporanea. A scioglierlo ci provano in molti, da chi lo ritiene un residuo del passato che sarà rimosso dopo avere adeguatamente riformato le istituzioni politiche in termini di semplificazione e di centralità del potere esecutivo rispetto a quelli legislativo e giudiziario. Oppure, come manifestazione politica di quei paesi poco avvezzi alla democrazia. Letture tuttavia non convincenti.
In primo luogo, perché il populismo mostra tutta la sua radicalità politica non nei paesi dove lo sviluppo economico è più lento, come avveniva in passato in America Latina o in alcune realtà asiatiche, dove partiti e leader esplicitamente populisti facevano le loro fortune. La fine del Novecento ha infatti visto forze populiste conquistare sempre più consensi, arrivando a condizionare la vita politica se non a governare nazioni come la Francia, l'Italia, l'Olanda, l'Austria, gli Stati Uniti e la Russia di Vladimir Putin.
Dunque, un fenomeno politico che non è certo un'ingombrante eredità gettata con volgarità sul presente. Piuttosto va considerato come la forma politica che si misura con i problemi posti dalla crisi del neoliberismo e della globalizzazione. Insomma, una risposta innovativa ai conflitti sociali nei cosiddetti «punti alti» dello sviluppo capitalismo: è questa, infatti, la tesi di studiosi e leader politici affascinati dal discorso populisti. Per sgomberare il campo da equivoci va subito detto che il termine «innovativo» non esprime qui un giudizio, ma solo la constatazione che i partiti e i leader populisti riescono a elaborare analisi e proposte politiche più efficaci di altre, sfruttando al meglio i media e le forme di mobilitazione - dalla vecchia radio all'anziana televisione, alla caotica Internet, dagli sms al fascinoso volantinaggio - preposte alla formazione dell'opinione pubblica.
Le fragili identità
A confrontarsi con questo rovello sono due recenti libri che, sebbene siano nati in ambiti disciplinari e con prospettive diverse, sono tra loro complementari. Si tratta di Populismo globale (Manifestolibri, pp. 191, euro 18) e La ragione populista (Laterza, pp. 300, euro 20). Il primo è di Guido Caldiron, un giornalista e studioso da sempre attento alle evoluzioni della destra radicale europea. Il secondo è del filosofo argentino Ernesto Laclau, che ha dedicato molte opere alla comprensione di come funziona la democrazia sin da quando è salito in cattedra a Oxford su segnalazione dello storico Eric Hobsbawm dopo aver precipitosamente abbandonato il suo paese perché minacciato di morte dai gruppi paramilitari di estrema destra.
La complementarietà dei due saggi è data dal fatto che là dove finisce Caldoron inizia l'analisi di Laclau. Populismo globale è, infatti, è una documentata analisi sull'ascesa dei partiti e leader populisti, mentre La ragione populista definisce le coordinate filosofiche entro le quali si muove la cultura politica populista. Caldiron ne cerca le radici, Laclau evidenzia come l'albero è nel frattempo cresciuto. Entrambi, però, iscrivono il populismo nella sfera politica, cancellandone le basi materiali. Infatti, né Caldiron, né Laclau mettono mai in relazione il fatto che il populismo cresce laddove è presente una composizione sociale della forza-lavoro estremamente articolata e dove la precarietà è la condizione necessaria alla messa al lavoro del sapere, il linguaggio, la conoscenza, la capacità di sviluppare una «autonoma» cooperazione sociale. In altri termini, il populismo ha fortuna nei punti alti dello sviluppo capitalistico.
Guido Caldiron parte dall'elezione a presidente di Nicolas Sarkozy e dalla vittoria elettorale del Popolo delle libertà di Silvio Berlusconi. Entrambi sono leader populisti, che hanno saputo intercettare gli umori profondi dei rispettivi popoli, articolandoli in un programma politico con al centro la figura dell'individuo proprietario. Inoltre, tanto Sarkozy che Berlusconi hanno saputo creare un clima mediatico che ha posto con forza nell'agenda politica temi e argomenti che componevano il loro programma politico: l'insicurezza sociale, intesa come paura di una messa in discussione del proprio stile di vita; la presenza di nemici interni alla nazione - in Francia la cultura del Sessantotto e la racaille delle periferia, in Italia uno stato-vampiro e i migranti -. Per Caldiron è tuttavia importante comprendere come i temi dell'agenda populista siano stati quelli dei gruppi di estrema destra per i venti anni che hanno preceduto la fine del Novecento.
In nome del futuro
Ciò che colpisce nella ricostruzione di Caldiron dell'ascesa di Nicolas Sarkozy è la traduzione dei temi propri della «destra radicale» in una politica «per bene» fatta dal presidente francese e di come siano stati sapientemente usati all'interno della crisi dei partiti moderati e della destra francese alimentata dalla globalizzazione neoliberista per un ricambio generazionale e culturale di quegli stessi partiti. Con una novità, che rende il populismo contemporaneo radicalmente diverso da quello Novecentesco: le richieste di ordine e disciplina non vengono motivate in nome di un'armonica comunità originaria minacciata dalla modernità, bensì in nome del futuro.
Il popolo evocato da Sarkozy e da Berlusconi ha fatto esperienza della globalizzazione. È il popolo dove i singoli sono rappresentati come tanti imprenditori di se stessi proprietari di un capitale intellettuale e sociale che deve poter essere sfruttato al meglio senza i limiti posti dallo stato sociale. Della triade della rivoluzione francese preferisce infatti la libertà all'eguaglianza e alla fraternità: una libertà, si badi bene, che ha nel il mercato la sua unità di misura. Per questo motivo chi lo vuole rappresentare parla del futuro invece che del passato. A sostegno di questa lettura Caldiron cita il caso di Pim Fortuyn, il leader della destra populista olandese ucciso alcuni anni fa che non ha mai nascosto la sua omosessualità e che ha invocato la tutela dei diritti umani contro gli «indigeni» musulmani presenti o nati in Olanda. In questa particolare accezione, i diritti umani sono il perimetro di una civiltà che non tollera nessuna diversità. Così, l'accesso alla cittadinanza è quindi necessariamente selettivo.
Assistiamo così a un populismo che impugna l'arma dei diritti umani per tenere fuori i nemici dell'Occidente: per i nemici interni, invece, la «tolleranza zero» non è solo una politica dell'ordine pubblico, ma un marchio di fabbrica che non può essere contraffatto. Tesi presenti, ad esempio, nelle prese di posizione di intellettuali come Alain Finkielkraut, Christopher Hitchens, André Glucksmann che, seppur con un passato di sinistra, sono diventati i più strenui difensori della superiorità occidentale. Un ordine del discorso dilagante dopo l'attacco alle Twin Towers, dove la presidenza di George W. Bush ha fatto esplicitamente riferimento allo scontro di civiltà di Samuel Phillips Huntington per legittimare un politica interna decisamente populista.
Se si rimane però all'atlante della galassia populista proposto da Guido Caldiron si rimane colpiti più dalle differenze che dalle ripetizioni che si incontrano mettendo a confronto l'Europa, gli Stati Uniti, la Russia di Putin o l'Iran del presidente Mahmud Ahmadinejad. E rischia di smarrirsi in esso. Ma è proprio questa grande capacità di adattamento a realtà diverse che contraddistingue il populismo contemporaneo da quello del passato.
Il problema è dunque svelare la visione populista del Politico. Per dirla con le parole del filosofo Ernesto Laclau occorre stabilire la sua ontologia, perché il populismo «costruisce» il popolo, attraverso l'evocazione della sua assenza.
Mutanti e flessibili
Il populismo dunque come paradigma del «Politico», ma anche come un modo di organizzare uno Stato che ha preso congedo sia dalla democrazia rappresentativa che dalle alternative ad essa. È infatti uno stato, quello invocato dai populisti contemporanei, che eleva sì un leader al di sopra degli interessi parziali che confliggono nella società, ma stabilisce l'equivalenza, quindi la commensurabilità di un interesse economico, di uno stile di vita con un altro. Non è un caso che Ernesto Laclau utilizzi in maniera innovativa il concetto gramsciano di egemonia per spiegare la costruzione di un significante che abbia la capacità di rappresentare, superandoli, gli antagonismi e le differenze della realtà sociale.
Il popolo è un significante vuoto che va riempito, stabilendo appunto i criteri che stabiliscono la coesistenza e la commensurabilità tra le tante parzialità che compongono la realtà sociale. I populisti sono i traduttori dei diversi idiomi sociali in un linguaggio comune, quello del popolo.
È noto che nelle pratiche politiche populiste c'è il popolo è rappresentato come una «comunità organica di simili» e che occorre cancellare le divisioni introdotte dagli elementi estranei a quella stessa comunità. I populisti, insomma, sono sempre a caccia di nemici interni. Il discorso populista contemporaneo invece non cancella la eterogeneità e le differenze anche di classe, ma le riconduce appunto alla loro parzialità, che possono esistere solo se espresse in un significante universale messo a punto in una data contingenza. In questo testo di Laclau sono forti gli echi degli studi di filosofi come Jacques Ranciere e Alain Badiou quando si sono confrontati con l'impossibilità di pensare la politica al di fuori di una contingenza. Quella che vede la presa di parola di chi è dotato di una facoltà di linguaggio negata dai dominanti, come sostiene Ranciere; o laddove, secondo Badiou quando scrive sulla Comune di Parigi, si interrompe il corso lineare della storia a causa dell'irruzione del conflitto di classe nella scena pubblica. Laclau, invece, ritiene che c'è contingenza quando l'assenza del popolo viene evocata e presentata dal discorso populista. Il populismo è quindi la forma politica che risponde alla crisi della democrazia.
Occorre quindi guardare la «bestia» in volto senza averne paura. Una bestia che non si ritirerà dalla scena pubblica con la crisi del neoliberismo. Il limite dei due libri sta, però, nella rimozione, se non nell'irrilevanza del nesso tra i laboratori della produzione e la dimensione politica. È infatti in quei laboratori che il populismo, in nome dell'individuo proprietario, altro significante universale che attiene alla ragione populista, ha compiuto la prima operazione, traducendo in termini capitalistici le istanze di libertà e di autodeterminazione espresse dalla forza-lavoro. Una traduzione che gli ha dato forza, fino a condizionare l'agenda politica non solo di una nazione, ma di tutto il capitalismo contemporaneo indipendentemente da chi esercita il potere dell'esecutivo.
ilmanifesto.it

30.4.08

Perché l’Occidente non va a sinistra

di Giorgio Ruffolo

Francesco Algarotti, umanista insigne, racconta, in una novella bizzarra di quel fischio che si congelò in inverno per rifischiare allegro in primavera. Più di venti anni fa, suMicromega, ripresi quello scherzo come metafora di una sinistra che mi sembrava congelata augurandomi, ma con qualche dubbio, che riprendesse a fischiare in una nuova primavera politica. Quel rifischio non l’abbiamo mai sentito. Anzi, in un libro intitolato Il mostro mite Raffaele Simone, riferendosi proprio a quel mio articolo, ne riprende il tema, sviluppandolo in una analisi rigorosa e impietosa, nella quale si domanda «perché l’Occidente non va a sinistra».

Per rispondere alla domanda è impossibile evitare quella che viene prima, ovvia e abusata. Ha ancora significato quella distinzione tra destra e sinistra? Io credo di sì (e il miglior modo di rivelarla è proprio quello di porre questa domanda. Si può stare sicuri che chi risponde che quella distinzione non ha significato è di destra). Ma credo anche che abbia mutato significato. Per circa due secoli, dalla rivoluzione francese in poi, la destra è stata identificata con la conservazione, la sinistra con l’innovazione.

Da tempo non è più così. Si sarebbe tentati dal pensare che le parti si siano invertite. La destra è carica di spiriti irruenti, sedotta dall’innovazione, votata alla crescita, incline alla competizione, anelante al successo. La sinistra richiama l’osservanza delle regole, la fedeltà alle istituzioni, l’ordine della convivenza, la moderazione degli "animal spirits" in nome dell’eguaglianza. Insomma, la destra è all’attacco, la sinistra è sulla difensiva.

Di solito l’indebolimento politico della sinistra-poiché di questo si tratta - è attribuito ai suoi errori e ai suoi orrori. Agli orrori del comunismo, certo: mai una rivoluzione emersa come potenza liberatrice si è rovesciata e corrotta nella più tetra e lugubre delle oppressioni. Che qualcuno ne nutra nostalgia è materia non di politica ma di psichiatria.Anche agli errori e agli eccessi di un’invadenza statalistica e sindacale che hanno guastato in parte il successo peraltro grandioso del solo socialismo realizzato: quello delle socialdemocrazie e del welfare state.

Ma né gli orrori né gli errori della sinistra spiegano il vero e proprio "rovesciamento della prassi politica intervenuto nel recente mezzo secolo. La causa principale del quale sta nella scomparsa della "questione sociale" dal centro della scena politica: del conflitto storico tra capitalisti e operai, dovuta a una rivoluzione del modo di produrre e del modo di pensare.

Il formidabile aumento della produttività ha consentito di ridurre la pressione capitalistica sul lavoro spostandola sulle risorse naturali attraverso un gigantesco aumento dei consumi (Reichlin lo ha ben spiegato in un suo recente articolo). La massa omogenea del proletariato industriale si è articolata in un mondo del lavoro dotato di miriadi di competenze specifiche. L’effetto combinato di queste due correnti pesanti ha causato uno spostamento del fulcro dell’economia dal lavoro al consumo e dal lavoro collettivo al lavoro individuale.

Questa torsione del modo di produrre ha generato nelle grandi masse un nuovo modo di pensare. Mentre l’antagonismo dei rapporti di lavoro si riduceva, aumentava l’interesse comune al consumismo. Mentre nel nuovo mondo di un lavoro eterogeneo si attenuava la spinta alla solidarietà, si accentuava l’attrazione verso la cornucopia permissiva traboccante dai mille specchi della pubblicità. Ciò che la neodestra propone-dice in sostanza Simone -è un patto con un diavolo sorridente, con un "mostro mite", che promette di tutto e di più mentre offre un lavoro che può spingersi fino ai limiti del trastullo; come fa Google quando raccomanda ai suoi "ospiti" (come chiamarli altrimenti? lavoratori?) di dedicare almeno un quinto del tempo di lavoro a sane distrazioni. Tocqueville, che aveva previsto proprio tutto, pronosticò l’avvento di un governo «che vuole che i cittadini se la godano, purché non pensino ad altro che a godersela» un governo; che - aggiunge Simone - «assicuri al maggior numero di persone un fascio di esperienze gradevoli e vitalizzanti, che accrescano il loro benessere fisico e psicologico, ma soprattutto le inducano a consumare». Nel suo immaginario non c’è posto né per il padrone delle ferriere né per l’ingegner Taylor col suo cronometro che scandiva le ore piene e i minuti vuoti, maper quel tempo preso dal divertimento che è diventato l’essenza del lavoro, un sempre più prolungato e affollato weekend.

In questa economia del consumo, si forma sì, un (sotto) proletariato, ma ai margini della società, come "rifiuto», «non certo come scuola di solidarietà e di fratellanza, ma come fonte di inquinante turbolenza in quelle discariche che sono diventate le periferie metropolitane. La massa del ceto medio, quello che meglio si definirebbe il ceto di massa, condivide con l’élite plutocratica valori privati: il postulato di superiorità (io sono il primo tu non sei nessuno); il postulato di proprietà (questo è mio e nessuno melo tocca); il postulato di licenza (io faccio quello che voglio e come voglio); il postulato di non intrusione dell’altro (non ti immischiare negli affari miei); il postulato che tutti li riassume, di superiorità del privato sul pubblico (fino all’abuso del pubblico come cosa privata). Non può stupire allora che al centro della scena politica sia subentrata alla questione sociale la questione fiscale: il conflitto tra Stato e contribuenti che pretendono servizi pubblici sempre più costosi (perché a differenza di quelli privati non possono essere fronteggiati con aumenti significativi della produttività) ma non tollerano che siano finanziati "mettendo le mani nelle loro tasche".

Questo privatismo è l’opposto dell’individualismo. Mentre quello è espressione di personalità forti, caratterizzate, aperte alle relazioni con gli altri; questo, incerto e timoroso di contatti interpersonali (come chi evita persino le strette di mano) si esprime politicamente non attraverso la discussione, che aborre, ma in quell’attruppamento infatuato attorno a capi carismatici in cui si riconosce la forma moderna del populismo.

Populismo e privatismo si fondono perfettamente nell’ideologia apolitica della neodestra. Sono l’espressione di una formidabile tendenza alla disgregazione sociale che qualcuno (Bauman) traduce nella metafora della "liquefazione". Marx denunciò per primo la tendenza dissolvente insita nel capitalismo: «Tutto ciò che è solido si disperde nell’aria». Questo è appunto uno dei rischi supremi del nostro tempo: quello di una società polverizzata esposta ai venti delle mobilitazioni irrazionali. L’altro, all’altra estremità di una società privatistica e consumistica, è la distruzione del capitale naturale provocata da una crescita economica illimitata e dissennata.

A questi due supremi rischi cui il mite mostro della nuova destra espone l’umanità del nostro tempo, la sinistra non sa opporre che una sterile contestazione o una mimesi compiacente: un pensiero debole. Fino a quando non saprà costruire in un pensiero forte le fondamenta istituzionali di un nuovo ordine mondiale che sia in grado di reggere e regolare la poderosa complessità della globalizzazione, il campo sarà pericolosamente aperto ai demagoghi del mite inganno.

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