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22.5.13

Crisi, 8,6 mln di italiani in gravi difficoltà. Nel 2011 erano la metà

  Ign

E' la fotografia dell'Italia di oggi, scattata dall'Istat nel Rapporto annuale 2013, e che vede più che raddoppiata in un anno (dal 2011 al 2012) la quota di persone "gravemente deprivate": dal 6,9% al 14,3%, mentre negli ultimi due anni il 25,2% della popolazione ha sperimentato almeno una volta la condizione di grave deprivazione materiale (il 6,2% in tutti e due gli anni, il 19% in uno solo dei due anni).
Per restare nell'anno del raddoppio, il 2012, in termini assoluti si tratta di 8.608.000 persone. Per "grave deprivazione", spiega l'Istat, si intende una condizione di poverta' materiale con la mancanza di quattro o piu' indicatori su un elenco di nove, e i 4 principali registrati nel nostro paese assomigliano a condizioni da paese in guerra: "la mancanza di possibilita' di pagare il riscaldamento, non potersi assicurare pasti proteici adeguati ogni due giorni, niente vacanze, non avere a disposizione 800 euro per gli imprevisti". Se si considerano solo tre di questi elementi si passa alla categoria dei deprivati, quasi il 25% (che però comprende, avverte l'Istituto, anche i gravemente deprivati). FAMIGLIE - La crisi colpisce le famiglie e stravolge le abitudini di vita. Il potere d'acquisto delle famiglie e' diminuito nel 2012 del 4,8%, certifica l'Istat nel suo rapporto annuale. Si tratta, evidenzia, di "una caduta di intensita' eccezionale che giunge dopo un quadriennio caratterizzato da un continuo declino. A questo andamento hanno contribuito soprattutto la forte riduzione del reddito da attivita' imprenditoriale e l'inasprimento del prelievo fiscale". Per far fronte al calo del reddito disponibile, le famiglie hanno ridotto dell'1,6% la spesa corrente per consumi: cio' corrisponde a una flessione del 4,3% dei volumi acquistati, la piu' forte dall'inizio degli anni Novanta. Parallelamente, e' diminuita la propensione al risparmio, che si attesta ormai su livelli sensibilmente inferiori rispetto a quella delle famiglie tedesche e francesi, piu' vicina alla propensione al risparmio del Regno Unito, tradizionalmente la piu' bassa d'Europa. Nel 2012 aumenta al 62,3% il numero di famiglie che hanno adottato strategie di riduzione della quantita' e/o qualita' dei prodotti alimentari acquistati (quasi nove punti percentuali in piu' rispetto all'anno precedente). Le tipologie familiari che nel 2012 hanno modificato maggiormente i comportamenti di consumo alimentare in senso restrittivo sono le coppie con figli, le famiglie di monogenitori e le famiglie con membri aggregati (piu' del 64% di tali famiglie). Nel 12,3% dei casi le famiglie scelgono per gli acquisti alimentari gli hard discount, soprattutto al Nord. Nel Mezzogiorno sale al 73% la quota di famiglie che riduce la quantita' e/o qualita' degli acquisti alimentari dal 65,2% del 2011. Al Nord tale strategia coinvolge il 55,5% delle famiglie (con un incremento di quasi 10 punti percentuali), al Centro il 61,8%. LAVORO - Le opportunita' di ottenere o conservare un impiego per i giovani si sono significativamente ridotte. Tra il 2008 e il 2012, rileva l'Istat nel rapporto annuale, gli occupati 15-29 enni sono diminuiti di 727 mila unita' (di cui 132 mila unita' in meno nell'ultimo anno) e il tasso di occupazione dei 15-29enni e' sceso di circa 7 punti percentuali (-1,2 punti nell'ultimo anno) raggiungendo il 32,5%. Nello stesso periodo, il tasso di occupazione dei 30-49enni si e' ridotto di 3,1 punti percentuali (-0,8 punti percentuali nel 2012) mentre e' aumentato tra i 50-64enni, soprattutto per le donne (+4,0 punti percentuali in media, +5,6 se donne; nel 2012 rispettivamente +1,7 e +2,4 punti percentuali). Nel 2012 il tasso di occupazione e' cosi' pari al 72,7% per i 30-49enni, e al 51,3% per i 50-64enni. Il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 29 anni tra il 2011 e il 2012 e' aumentato di quasi 5 punti percentuali, dal 20,5 al 25,2% (dal 31,4 al 37,3% nel Mezzogiorno); dal 2008 l'incremento e' di dieci punti. Sono stati relativamente piu' colpiti i giovani con titolo di studio piu' basso, in modo particolare quanti hanno al massimo la licenza media (+5,2 punti). Il numero di studenti e' rimasto sostanzialmente stabile attorno ai 4 milioni (il 41,5% dei 15-29enni; 3 milioni 849 mila nel 2008). L'Italia ha la quota piu' alta d'Europa (23,9%) di giovani 15-29enni che non lavorano ne' frequentano corsi di istruzione o formazione (i cosiddetti Neet, Not in Education, Employment or Training). Si tratta di due milioni 250 mila giovani: il 40% e' alla ricerca attiva di lavoro (49% tra gli uomini, 33,1% tra le donne), circa un terzo appartiene alle forze di lavoro potenziali, nel restante 29,4% sono inattivi che non cercano lavoro e non sono disponibili a lavorare. Il numero di Neet tra il 2011 e il 2012 e' aumentato del 4,4% (+21,1% dal 2008, pari a 391mila giovani), per effetto della crescita della componente dei disoccupati (+23,4%, equivalente a 172 mila unità in piu'). IMPRESE - Le imprese giocano in difesa e subiscono la crisi. Le strategie adottate negli ultimi anni, registra l'Istat nel suo rapporto annuale, sono prevalentemente di tipo difensivo: nel 2011 circa il 64% delle piccole aziende e il 69,4 delle grandi ha cercato di mantenere le proprie quote di mercato. Oltre la meta' delle medie e grandi imprese si e' spinta verso nuovi mercati e circa il 50% ha puntato sull'aumento della gamma dei prodotti; queste strategie sono state adottate rispettivamente dal 35 e dal 20% delle piccole aziende. Il sistema produttivo italiano e' caratterizzato da intense relazioni tra imprese; ha stretto accordi di commessa oltre il 40% delle piccole imprese e il 65% delle medie e grandi (piu' inserite, queste ultime, nelle catene del valore nazionali e internazionali), mentre i legami di subfornitura riguardano circa un terzo delle piccole e il 55% delle grandi imprese. Circa il 25% di queste ultime, infine, ricorre ad accordi di tipo formale quali consorzi o joint ventures. Le imprese a conduzione familiare con meno di 10 addetti presentano in generale un profilo strategico elementare: oltre un terzo si attesta su scelte di tipo esclusivamente difensivo (mantenimento della quota di mercato o ridimensionamento dell'attivita'), e un altro 30% si limita a una sola strategia tra quelle piu' ''complesse'' (innovazione, aumento della gamma di prodotti, accesso a nuovi mercati, intensificazione delle relazioni con altre imprese).

22.2.12

Un esame di noi stessi

di Rossana Rossanda (Il Manifesto)

Che al governo una voce come la nostra non interessi è comprensibile, ma perché non interessa più ai nostri lettori? La difficoltà di fotografare la nuova topografia del sociale, le difficili condizioni di lavoro interne. Eppure è un giornale in cui, ogni giorno, si può trovare qualcosa di interessante.
Della libertà di stampa al governo Monti non potrebbe importar di meno. Da buon liberista è convinto che un giornale è una merce come un'altra; se vende abbastanza ai lettori e agli inserzionisti di pubblicità, viva, se no muoia.

Lo strangolamento è stato bene illustrato l'altro ieri da Valentino Parlato. Ed era visibile dai nostri bilanci. La nostra asfissia è della stessa natura di quella che si tenta di applicare ai beni comuni non meno urgenti. A noi sembra importante anche la presenza di una voce fuori dal coro come la nostra, perché in un paese che ha mandato tre volte Silvio Berlusconi al governo, qualcosa non funziona.

Né funziona che tanti amici si rallegrino che al posto d'un faccendiere impresentabile sia venuto un onesto e distinto liberista. Onesto personalmente, s'intende. L'onestà sociale non si sa più bene che cosa sia, e non importa più alla stampa salvo che a noi. Che siamo non solo un pezzo della sinistra, ma addirittura comunisti. Anzi, più che comunisti, nel senso che il comunismo dei "socialismi reali" non ci andava né su né giù. Per questo fummo esclusi dal Pci, ma per non essersi posti le nostre domande sui socialismi reali i partiti comunisti non esistono praticamente più.

Che al governo una voce come la nostra non interessi è comprensibile: del manifesto è rimasta l'immagine di un quotidiano di sinistra, anzi di estrema sinistra. Ora è facile giurare sulla libertà di stampa finché questa non è dalla parte di chi ti attacca. E in Italia chi attacca il governo? E noi dove siamo? Come Parlato ricorda, il manifesto vende sempre meno da otto anni a questa parte.

Il calo si è accelerato negli ultimi due. La media in cui ci eravamo tenuti nei nostri primi trenta anni è stata, poco più su poco più giù, di trentamila copie, non molto alta, eravamo un giornale di nicchia. Ma solida e rispettata nicchia. Ora si è circa la metà.

Dovremmo chiederci perché. Era nostra abitudine fare un punto almeno un paio di volte all'anno. Ma negli ultimi tempi la direzione non ha più convocato un'assemblea che faccia il punto sullo stato del mondo e dell'Italia e sul nostro orientamento in esso. Né la redazione, che può esigerlo, sembra averne sentito il bisogno. Neanche un attimo prima di arrivare a quella forma di liquidazione, non proprio un fallimento ma quasi, cui siamo costretti.

Non è stata una buona scelta. Non è infatti per nulla ovvio che cosa sia oggi un giornale di sinistra, tanto meno uno che, sempre secondo Parlato, dovrebbe ancora definirsi comunista. Nel senso che dicevamo sopra, un comunismo che poco ha a che vedere con i "socialismi reali", ma che realizzi un cambiamento del vivere e del produrre e che facendolo realizzi un più di libertà politica. Lo abbiamo detto in questi anni ancora? Si poteva dirlo? Si poteva crederlo? Questa è la domanda cui abbiamo smesso di rispondere cessando fra noi persino di farcela.

Io tendo a credere che da questa reticenza venga il dimezzamento dei nostri lettori. Ma è una domanda cui non è semplice rispondere. Non è facile essere comunisti oggi, a più di trenta anni dal 1989. E appunto sarebbe nostro compito chiarire che cosa intenderemmo nel dirci comunisti ancora, o perché non si possa dirlo più.

Io credo che, almeno nei tempi brevi, non si possa dirlo più. E non perché il sistema mondializzato sia diventato più umano, condiviso e condivisibile, meno feroce, più pacifico perché libero e un po' meno inegualitario, cosa che non vuol dire conformizzato. Non abbiamo mancato di scrivere che dal 1971 non sono soltanto passati molti anni, ma sono cambiate molte cose. Quasi tutte. Ma non ne abbiamo tratto ed esplicitato le conseguenze. In questo la crisi della sinistra non è diversa dalla nostra, almeno - sinistra essendo ormai parola assai vaga - di quella parte della sinistra che si proponeva un cambiamento del modo di produzione. Si può essere anticapitalisti oggi?

Il manifesto è nato quando una parte del mondo, sotto l'egemonia degli Stati Uniti, era capitalista e imperialista, e una parte che aveva già abolito la proprietà privata del capitale si diceva socialista ed era sotto l'egemonia dell'Urss. Il mondo si ridefiniva fra due campi e mezzo: perché restava una parte sospesa in un "postcolonialismo", vago come tutti i post, che chiamavamo paesi terzi. Oggi non è più così; gli Stati Uniti non sono più la indiscussa prima potenza capitalista, e non è sicuro che il loro fine si possa definire, come prima, imperialista. L'Unione Sovietica non esiste più. La Cina ha un governo che si dice comunista ma un sistema produttivo capitalista spinto. Cuba non sembra più affatto socialista. Il terzo mondo ha percorso, tra stati e sotto l'infuenza di potenze diverse, un itinerario mai visto prima.

Allo stesso tempo l'Europa ha formato una grande area a moneta unica e a direzione liberista che da anni è traversata da una crisi, economica e politica, più acerba di quella degli Stati Uniti da cui aveva preso radice. Insoma, è cambiato tutto. È cambiato il capitalismo? Possiamo dire di sì, nel senso che ha articolato le sue forme e non ha più uno stato che ne sia indiscutibilmente la leadership. Dobbiamo dire di no, nel senso che ha mondializzato, appunto articolandolo, il suo modo di produzione. Possiamo, davanti a questo mutamento di scena, conservare gli strumenti di analisi e di proposta che avevamo nel 1971? Non credo. Andrebbero almeno verificati.

Anche l'Italia è cambiata. Nel senso che forse nel paese dove il movimento del '68 è stato più lungo e più esteso a vari strati sociali, non solo operai e studenti, ha anche - ha ragione Mario Tronti - più destrutturato le forme classiche del socialismo e della democrazia di quante forme nuove abbia prodotto. Ha investito nuove figure sociali e anche qualcosa di assai più che una forma sociale, le donne e i femminismi. Questa molteplicità di oggetti ha avuto in comune il rigetto delle forme di potere cui era, visibilmente o invisibilmente, sottomessa, nello stesso tempo dividendosi acerbamente. Risultato, all'ampiezza del rigetto ha risposto una reazione opposta, un individualismo piatto, un rifiuto di ogni cambiamento di società, di ogni collettività che non sia locale o comunitaria. La incomunicabilità delle differenze ha prodotto una crisi della politica, il cui esito è stato il berlusconismo e il crescere del populismo.

Ma di questo neanche noi abbiamo dato una mappa e una topografia approfondita e comune. Abbiamo denunciato i limiti del keynesismo postbellico con l'intento di andare oltre, ma di fatto abbiamo lasciato spazio a spinte liberiste. Meno stato più mercato, è uno slogan che piaceva anche a sinistra. Per un paio di decenni abbiamo messo da parte il rapporto di lavoro, analizzando le nuove soggettività e le molte contraddizioni che ne erano fuori, finendo col dichiarare lo sbiadimento se non addirittura l'irrilevanza della contraddizione fra lavoro e capitale. Fino allo scoppio della crisi e dell'offensiva padronale alla Fiat abbiamo dato poca attenzione alla struttura sociale, come se fosse un problema puramente sindacale.

Non siamo stati convinti, e quindi non siamo stati capaci di convincere, che - come ci ricorda il segretario della Fiom - il modo di produzione non investe soltanto la fabbrica ma tutta la società. Il lavoro? Roba del secolo scorso. L'operaio? Non c'è più. Il sindacato? Vecchiume. Del resto non gorgheggiavano ogni giorno i padroni che il lavoro costituiva orami una parte minima del processo di produzione?

Oggi i padroni dicono tutto il contrario, strillano che per essere competitivi nella mondializzazione bisogna ridurre i salari italiani a quelli dell'Indonesia o della Cina, un terzo, un quarto del livello che i lavoratori erano riusciti a spuntare da noi. Così siamo arrivati, come il resto del mondo occidentale, a una stretta in cui i redditi si sono divaricati al massimo, il dieci per cento della popolazione guadagna quanto il novanta per cento, e di questo dieci, l'un per centro guadagna più di tutti gli altri. Nella stretta si dibattono anche le nuove soggettività.

In questo ribollire di bisogni e nella loro incapacità di trovare un dialogo, il manifesto non è riuscito a suscitare più interesse ma meno. Eppure non c'è giorno che esso non proponga un pezzo interessante e che sarebbe impossibile trovare altrove, un'interpretazione di una notizia che l'altra stampa offusca. Forse che quel che scriviamo non si capisce, non è detto bene? Non è chiaro? Non è rapido e divertente? Qualcosa non ha funzionato neanche da noi. Siamo stanchi, perché - per favore non lo si dimentichi - coloro che ogni giorno hanno confezionato questo foglio e lo hanno spedito in giro non ne possono più di un successo che lentamente viene meno e perdipiù di essere pagati meno che in qualsiasi altro giornale, e a singhiozzo, a volte aspettando il salario per mesi. Affidarsi per anni agli introiti del marito, della moglie, dei genitori, a un altro lavoretto è facile da dire, non facile da vivere.

Io insisto perché nel chiedere solidarietà facciamo anche un esame di noi stessi. O pensiamo che la storia sia finita e che "io speriamo che me la cavo" sia divenato il solo slogan veramente popolare?