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13.11.18

Tim Marshall e la fenomenologia del filo spinato

Intervista. Parla il giornalista britannico autore di «I muri che dividono il mondo», pubblicato da Garzanti. «Un terzo degli stati nazionali hanno costruito recinzioni lungo i confini; metà di quelle erette a partire dalla Seconda guerra mondiale è stata creata tra il 2000 e oggi»


Guido Caldiron (il manifesto)

«Come ogni altro muro, anch’esso era ambiguo, bifronte. Quel che stava al suo interno e quel che stava al suo esterno dipendevano dal lato da cui lo si osservava». Non è forse un caso se Tim Marshall ricorre alle parole di Ursula Le Guin, la scrittrice di fantasy e fantascienza scomparsa quest’anno, creatrice di mondi immaginari che riflettono tutte le contraddizioni del reale, per definire il significato più profondo di quella che si va delineando come una sorta di «età dei muri».

Veterano del giornalismo inglese, a lungo corrispondente della Bbc dalle zone di guerra dei Balcani e del Medioriente, con I muri che dividono il mondo (Garzanti, pp. 272, euro 19), Marshall completa la sua trilogia – nel nostro paese è già stato pubblicato Le 10 mappe che spiegano il mondo) – che indaga il ruolo degli elementi naturali, dei simboli e delle identità collettive nel definire le coordinate del mondo contemporaneo, offrendo delle valide «istruzioni per l’uso» ad una realtà sempre più complessa.

Marshall, che ha presentato in questi giorni il suo libro nel nostro paese, spiega infatti come «negli ultimi vent’anni sono stati eretti in tutto il mondo muri e recinti per migliaia di chilometri. Almeno 75 paesi, più di un terzo degli stati nazionali del mondo, hanno costruito barriere lungo i propri confini; metà di quelle erette a partire dalla Seconda guerra mondiale è stata creata tra il 2000 e oggi». Dall’Europa agli Stati uniti, passando per l’Africa e il mondo arabo, ripercorrendo l’attualità del fenomeno come le tracce della sua storia pregressa, il reporter fotografa attraverso il crinale delle nuove barriere il volto sfuggente e contraddittorio del presente.

Con la caduta del muro di Berlino si è pensato si aprisse una nuova stagione della storia contrassegnata dalla libera circolazione degli individui. La globalizzazione ha fatto il resto, al punto che nel 2005 il premio Pulitzer Thomas Friedman ha scritto un celebre saggio intitolato «Il mondo è piatto». Da queste promesse di libertà ci siamo però destati con i vari Trump, Orbán e Salvini. Cosa è andato storto?
In realtà credo che quella promessa abbia sempre contenuto una certa dose di ambiguità: cercava di celare la natura binaria del mondo, il permanere di profonde divisioni all’interno di ciascuna società, quale che fosse l’estensione dei muri che stavano venendo giù o il superficiale annuncio di uguaglianza con cui si presentava la mondializzazione dei mercati. Inoltre, non si è tenuto conto fino in fondo del fatto che i muri, penso in primo luogo proprio a quello di Berlino, «congelano» le comunità che racchiudono o separano, i cui umori più profondi tenderanno poi ad emergere. Basti guardare il modo in cui il razzismo è emerso nella ex Germania Est, dove non si era neppure mai parlato di «cultura della differenza». Su tutto questo si è poi abbattuta la crisi economica e sociale più devastante dal 1929. Popolazioni impaurite e indebolite hanno cercato rifugio nella propria identità e i «venditori di muri» si sono trasformati negli uomini del momento.

Trump è forse la figura che più ha puntato sulla «politica del muro» e sul significato pervasivo di questo simbolo. Lo slogan «Rendiamo di nuovo grande l’America» si è concretizzato nella promessa di una barriera con il Messico: il suo «muro» serve a ridefinire l’identità americana?
Come spiega il geografo dell’Università delle Hawaii, Reece Jones, nel suo libro Violent Borders, «i muri non funzionano quasi mai, ma sono potenti simboli di azione contro problemi percepiti». Trump ha utilizzato il simbolo del muro per indicare a quella parte dei suoi concittadini preoccupati per la crisi economica come per la crescita del ruolo delle minoranze nella società, l’orizzonte di un nuovo nazionalismo, evocato dallo slogan «America First». Così, il muro, è proposto come un mezzo per preservare il concetto stesso di nazione, la sua «santità» così come il mito vuole sia stata tramandata dai Padri pellegrini che affidarono l’America a Dio. Così, Trump ha messo in moto una potente macchina mitologica, capace di proiettarsi ben oltre i fatti concreti.
Il giornalista britannico Tim Marshall

A proposito di un’altra delle vicende chiave di questi anni, la Brexit, lei cita il Vallo di Adriano, costruito da Cesare per separare la Britannia romana dalle bellicose tribù del Nord, come metafora di quanto è accaduto con il voto del 2016.
In effetti, la tentazione di evocare quella barriera di pietra i cui resti sono ancora oggi visibili nel Northumberland, era troppo forte. Quel «muro» contribuì a dar forma a ciò che sarebbe diventato in seguito il Regno Unito. Al di sotto del vallo l’ambiente divenne sempre più romanizzato, mentre sopra, in quelli che sono oggi il Galles e la Scozia, rimasero forti le tracce della cultura celtica. E quest’ultimo elemento indica anche un altro aspetto che accompagna spesso la costruzione di un «muro», vale a dire le divisioni che produce, o che cerca al contrario di sanare, non oltre la sua cinta, ma all’interno della comunità che lo ha edificato. Proprio il voto in favore della Brexit ha espresso tutta la complessità della situazione, facendo emergere in tanti «muri invisibili» che caratterizzano le nostre società. David Goodhart, un altro autore che cito nel libro, ha sottolineato come alla base del successo del referendum contro la Ue vi sia stata la divisione tra coloro che definisce come «anywhere» e «somewhere», vale a dire, rispettivamente, chi vede il mondo in una prospettiva globale e chi, invece, in quella locale. In qualche modo si tratta di una contrapposizione che sta emergendo in tutto l’Occidente: da un lato chi occupa una posizione sociale più agiata o si trova a vivere una dimensione cosmopolita, dall’altro chi sconta sulla propria pelle le conseguenze più negative della globalizzazione, perché ha perso il lavoro o fatica a trovare un ruolo nelle nuove professioni che richiedono maggiore formazione e cerca rifugio in ciò che conosce, o pensa di conoscere, come la propria identità, le proprie radici. Razzismo, sciovinismo e chiusura identitaria finiscono così per mescolarsi ad una domanda di maggiore tutela che ha una base concreta. Quanto al risultato, è sotto gli occhi di tutti: molti di coloro che hanno votato per la Brexit si sono già pentiti, visto che nelle loro vite non è cambiato assolutamente nulla, mentre per il paese sono iniziati nuovi problemi.

Nel libro si parla di «muri visibili e invisibili» anche a proposito del conflitto tra palestinesi e israeliani. Oltre alla «barriera» costruita da Israele, altri «muri» stanno crescendo laggiù?
All’interno della società israeliana sono emerse via via una serie di divisioni. Dal confronto tra i cittadini ebrei e quelli arabi, a quello tra gli ebrei di origine ashkenazita e sefardita che ha caratterizzato la storia del paese fin dalla sua fondazione. Però, negli ultimi anni è emerso soprattutto un vero e proprio «muro» culturale e politico tra laici e religiosi che sta scivolando verso una forma di scontro quotidiano, talvolta anche violento, che sta modificando il volto stesso di Israele. Non solo. La crescita del ruolo politico dei religiosi, e la loro crescente alleanza con i gruppi nazionalisti – non a caso gli studiosi parlano al riguardo di «destra nazional-religiosa» – peserà sempre più anche sulla già fragile ipotesi di una soluzione equa del conflitto con i palestinesi. Questo perché per coloro che considerano sacra la terra che oggi è contesa tra le due comunità, qualunque concessione o divisione del territorio è percepita come un tradimento nei confronti dei propri valori o, ancor di più, come un’autentica rinuncia alla fede. Qualcosa di inammissibile.

Buona parte dei nuovi muri sono pensati per «tenere fuori» i migranti. Ma dato che le migrazioni sono fenomeni epocali e inarrestabili, che futuro per l’umanità annunciano tutte queste barriere?
Un rischio e una possibilità. Cominciamo da quest’ultima. Nelle società industrializzate che continueranno ad avere bisogno di immigrati si dovrà aprire necessariamente un dibattito salutare su come ridefinire la propria identità collettiva a partire da questo elemento. Il rischio, al contrario, è che «la politica dei muri» sovrasti ogni confronto razionale e ci faccia precipitare in un orizzonte ancora più cupo di quello attuale: quello nel quale ogni paese si contrappone all’altro, fino alle estreme conseguenze.

9.11.09

C'era una volta il comunismo reale

di Rina Gagliardi

"Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta". Così Walter Benjamin in uno dei suoi libri più celebri, Infanzia berlinese, scritto nel 1932, quando il grande scrittore era tornato a vivere nella città dov'era nato e cresciuto. Si era alla vigilia dell'avvento del nazismo, e le paure del piccolo ebreo che, nella Germania guglielmina di fine ottocento, si aggira inquieto e malinconico nella sua prima esplorazione esistenziale ci appaiono, a tutt'oggi, singolarmente presaghe del futuro tragico che attendeva la capitale tedesca.

Sì, perché Berlino è una città tragica - tragica e allegrissima come il '900 di cui è stata l'autentica capitale morale. Un'isola. Un microcosmo del tutto singolare. Un luogo, perciò, destinato ad esercitare sul mondo un impatto simbolico del tutto speciale. Per questo, quando Walter Ulbricht ed Erich Honecker cominciarono ad erigere, il 3 agosto 1961, il famigerato "muro antifascista" (secondo la sua dizione ufficiale), il mondo intero ebbe un sussulto. Quella gigantistica costruzione militare, alta tre metri e sessanta, larga cinquanta, lunga quarantacinque chilometri che spaccava la città e le sottraeva la Porta di Brandemburgo, suo cuore centro, andava ben oltre un atto di guerra tipico dell'epoca della guerra fredda. Chiudeva con la forza ogni speranza. Sanciva una volontà distruttiva (autodistruttiva, sadomasochista) nei confronti del popolo tedesco - e in fondo europeo.

Il muro, in realtà, non incontrò vere opposizioni nei governi occidentali: l'idea di Giulio Andreotti («E' meglio che la Germania resti divisa») era in fondo largamente condivisa. E, ad onta delle declamazioni, andava bene anche il Muro, che era la garanzia pesante che la riunificazione tedesca non si sarebbe mai fatta. Il Muro era il messaggio più chiaro che la Germania, infettata dalla lue nazista e macchiatasi della colpa epocale della shoah, doveva essere punita per sempre. E l'epicentro di questa punizione non poteva essere che Berlino.

***

Se non si tiene il debito conto di queste (o altre consimili o diverse) premesse, non si capisce lo choc prodotto dagli eventi di quella notte - la notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, quando a migliaia e migliaia i berlinesi dell'est si riversarono ad ovest a folleggiare e mangiare banane, frutto per tanti anni per loro introvabile. La fine del Muro non fu improvvisa: l'avevano preannunciata, a partire dall'estate, tanto la politica quanto la piazza. In settembre, il governo di Budapest aveva (unilateralmente) deciso di aprire le sue frontiere con l'Austria ai tedeschi dell'Est.

E la rivolta era cominciata - dapprima con epicentro a Lipsia, dove era fortissima la Chiesa evangelica, e poi via via in decine di altre città. All'inizio, Honecker reagisce con l'unico strumento che conosce, repressione e Stasi, chiusura delle frontiere.

Ma il 6 ottobre, giornata in cui si celebra il quarantesimo anniversario della Ddr, la visita di Gorbaciov a Berlino segna la svolta forse decisiva - "la storia non fa sconti ai ritardati" dirà il leader sovietico, una frase che è stata oggetto, più o meno, di un giallo (non è detto che l'abbia detta, l'ha corretta, l'ha scritta il suo portavoce…). Da quel momento in poi, tutto si sussegue a ritmo vertiginoso: la sostituzione del triste Erich Honecker col riformatore Egon Krenz (un "riformatore" giunto, però, davvero fuori tempo massimo), la crescita del movimento di protesta, la nascita di "Neues Forum", fino al 4 novembre, quando sull'Alexanderplatx si radunano oltre mezzo milione di persone. Le frontiere della Ddr con la Cecoslovacchia erano state a fortiori aperte, la libertà di circolazione è quasi conquistata - eppure, il Muro era ancora lì a significare che non era ancora stato compiuto il passo fondamentale.

Così si arriva al giorno più importante, il 9 novembre 1989. E' mattino, quando il Politburo della Sed approva una legge che abolisce, in sostanza, tutte le restrizioni fin lì in vigore sulla libertà di movimento, circolazione ed espatrio. Ed è il pomeriggio avanzato quando viene convocata una conferenza stampa - in diretta televisiva internazionale - nella quale si illustra la svolta. Quando un giornalista italiano, Riccardo Ehrman, fa una domanda logica - «quando entreranno in vigore queste nuove disposizioni?» - il portavoce della Sed, l'imbarazzato Gunther Schabowski, risponde d'impulso: «da subito!». Gli scappa, quel von jetzt, dai precordi, dall'inconscio, proprio come se l'uomo non avesse minimamente calcolato le conseguenze di quello che tutti considerarono un annuncio storico. Si sa, la storia passa talora dalle banalità della cronaca.

E fu così che Berlino visse la sua nottata storica. E così il "socialismo reale" (non il comunismo) finiva. Senza sangue, senza violenza, senza rimpianti, cadevano ad uno ad uno i regimi di Bulgaria, Cecoslovacchia, Romania - Polonia e Ungheria avevano fatto un percorso a sé. Due anni dopo, sarebbe toccato alla Madrepatria: scompariva l'Unione sovietica, la bandiera rossa veniva ammainata dal Cremlino.

"Non abita più lì", fu il titolo (malinconico ma non rassegnato) che Luigi Pintor propose al manifesto. Non c'è dubbio: la storia, lungi dall'essere finita (come avrebbe poi detto l'incauto Fujihama), si era rimessa in moto. Ma quel che era mutato era proprio l'ordine del mondo: quello che per quasi cinquant'anni si era retto sulla spartizione di Yalta e la competizione tra est e ovest. E l'Ovest, l'occidente, il "mondo atlantico" aveva vinto la guerra. Anche su questo non c'erano dubbi.

***

Sul perché le cose siano andate così, si discute - e si continuerà a discutere - da molti anni. Ma forse un altro anniversario ci aiuta a collocare gli eventi di vent'anni fa nella loro giusta prospettiva storica: quello in cui, quarant'anni fa (più uno), era stata repressa dai carri armati sovietici la "primavera di Praga". L'ultima possibilità di autoriforma, e di riforma democratica, del socialismo orientale veniva così umiliata - finiva un sogno, chissà, e iniziava un'agonia lunga vent'anni. Quei regimi avevano smarrito ogni "forza propulsiva", ogni vero consenso, ogni possibilità di sviluppo economico - la lunga, nefanda stagione brezneviana fece allora aggio sulla guerra (gli SS-20 schierati alle frontiere) e sul deliberato saccheggio di quello che restava della ricchezza dell'Urss. Non c'erano più gli orrori dello stalinismo di Stalin, da Berlino a Mosca, solo uno stalinismo burocratico, asfittico, oppressivo, che alimentava società stagnanti, infelici, passivizzate. Non c'era più neppure la "competizione pacifica" con l'Occidente, che nel frattempo aveva scoperto le due armi davvero vincenti, la rivoluzione conservatrice del neoliberismo e la rivoluzione tecnologica.

Quando Mikhail Gorbaciov arrivò al potere, si rese conto - presumibilmente si era reso conto da tempo - che la situazione era disperata: scelse, come estremo tentativo, non la riforma economica mercatistica che molta parte dell'intelligentsja gli prescriveva, ma una riforma profonda della politica - la celebre perestrojka, la partecipazione, le elezioni libere, insomma la nascita di quella società civile che nell'Urss socialista non c'era mai stata.

Fu sconfitto, Gorbaciov - diventato nel frattempo molto più popolare all'estero che in patria - e fece sicuramente molti errori. Ma, a suo merito indiscusso, resta il carattere pacifico, nonviolento, del sommovimento che pose fine al "campo socialista". Forse il leader sovietico si illuse che, lasciando gli ex-satelliti europei al loro libero destino, avrebbe potuto salvarsi l'Unione sovietica. Forse, non potè fare altrimenti.

Ma fu lui a impedire a Honecker e alla Stasi di trasformare la rivolta dei tedeschi dell'Est in una carneficina, o in un bagno di sangue analogo a quello del '53. Fu lui a tentare di ridare credito a parole come "disarmo", "dialogo", "cooperazione pacifica" tra mondi diversi. In fondo, Gorbaciov, ultime erede della storia del '900, non avrebbe potuto essere, in nessun caso, il costruttore di un nuovo secolo, o di una nuova storia.



***

Resta, tutta addosso a noi, la storia dei vent'anni che ci stanno alle spalle. Una sequenza di sconfitte, drammaticamente concatenate l'una all'altra, che hanno finito col coinvolgere non tanto il "comunismo", ma l'esistenza stessa della sinistra. Un paradosso dal quale non riusciamo ad uscire: il crollo di quel Muro è stato un momento di liberazione, per i tedeschi e per tutti noi, ma la libertà e la liberazione, dopo, non sono arrivate.

Si è scoperto che quei sistemi in via di decomposizione, quei regimi divenuti così fragili da cadere con la velocità di un castello di carte, quel falso socialismo di burocrati profittatori e inetti, in realtà "trattenevano" l'Occidente (il capitalismo) dal dispiegare le loro peggiori tendenze. Si è ri-scoperto che il capitalismo, come sistema economico unico, non tiene in alcuna considerazione né la libertà né la vita né, tanto meno, l'eguaglianza tra le persone vice, all'opposto, di guerra permanente, patrioct act, restrizione dei diritti, abnorme diseguaglianza.

Appunto, come scrisse Franco Fortini in una bella canzone, «ricomincia qui\ quel che è stato vero un anno, un giorno\ altri nel mondo si vorranno bene \ altri lavoreranno senza pene \ altri vivranno in libertà».