di Rina Gagliardi
"Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta". Così Walter Benjamin in uno dei suoi libri più celebri, Infanzia berlinese, scritto nel 1932, quando il grande scrittore era tornato a vivere nella città dov'era nato e cresciuto. Si era alla vigilia dell'avvento del nazismo, e le paure del piccolo ebreo che, nella Germania guglielmina di fine ottocento, si aggira inquieto e malinconico nella sua prima esplorazione esistenziale ci appaiono, a tutt'oggi, singolarmente presaghe del futuro tragico che attendeva la capitale tedesca.
Sì, perché Berlino è una città tragica - tragica e allegrissima come il '900 di cui è stata l'autentica capitale morale. Un'isola. Un microcosmo del tutto singolare. Un luogo, perciò, destinato ad esercitare sul mondo un impatto simbolico del tutto speciale. Per questo, quando Walter Ulbricht ed Erich Honecker cominciarono ad erigere, il 3 agosto 1961, il famigerato "muro antifascista" (secondo la sua dizione ufficiale), il mondo intero ebbe un sussulto. Quella gigantistica costruzione militare, alta tre metri e sessanta, larga cinquanta, lunga quarantacinque chilometri che spaccava la città e le sottraeva la Porta di Brandemburgo, suo cuore centro, andava ben oltre un atto di guerra tipico dell'epoca della guerra fredda. Chiudeva con la forza ogni speranza. Sanciva una volontà distruttiva (autodistruttiva, sadomasochista) nei confronti del popolo tedesco - e in fondo europeo.
Il muro, in realtà, non incontrò vere opposizioni nei governi occidentali: l'idea di Giulio Andreotti («E' meglio che la Germania resti divisa») era in fondo largamente condivisa. E, ad onta delle declamazioni, andava bene anche il Muro, che era la garanzia pesante che la riunificazione tedesca non si sarebbe mai fatta. Il Muro era il messaggio più chiaro che la Germania, infettata dalla lue nazista e macchiatasi della colpa epocale della shoah, doveva essere punita per sempre. E l'epicentro di questa punizione non poteva essere che Berlino.
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Se non si tiene il debito conto di queste (o altre consimili o diverse) premesse, non si capisce lo choc prodotto dagli eventi di quella notte - la notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, quando a migliaia e migliaia i berlinesi dell'est si riversarono ad ovest a folleggiare e mangiare banane, frutto per tanti anni per loro introvabile. La fine del Muro non fu improvvisa: l'avevano preannunciata, a partire dall'estate, tanto la politica quanto la piazza. In settembre, il governo di Budapest aveva (unilateralmente) deciso di aprire le sue frontiere con l'Austria ai tedeschi dell'Est.
E la rivolta era cominciata - dapprima con epicentro a Lipsia, dove era fortissima la Chiesa evangelica, e poi via via in decine di altre città. All'inizio, Honecker reagisce con l'unico strumento che conosce, repressione e Stasi, chiusura delle frontiere.
Ma il 6 ottobre, giornata in cui si celebra il quarantesimo anniversario della Ddr, la visita di Gorbaciov a Berlino segna la svolta forse decisiva - "la storia non fa sconti ai ritardati" dirà il leader sovietico, una frase che è stata oggetto, più o meno, di un giallo (non è detto che l'abbia detta, l'ha corretta, l'ha scritta il suo portavoce…). Da quel momento in poi, tutto si sussegue a ritmo vertiginoso: la sostituzione del triste Erich Honecker col riformatore Egon Krenz (un "riformatore" giunto, però, davvero fuori tempo massimo), la crescita del movimento di protesta, la nascita di "Neues Forum", fino al 4 novembre, quando sull'Alexanderplatx si radunano oltre mezzo milione di persone. Le frontiere della Ddr con la Cecoslovacchia erano state a fortiori aperte, la libertà di circolazione è quasi conquistata - eppure, il Muro era ancora lì a significare che non era ancora stato compiuto il passo fondamentale.
Così si arriva al giorno più importante, il 9 novembre 1989. E' mattino, quando il Politburo della Sed approva una legge che abolisce, in sostanza, tutte le restrizioni fin lì in vigore sulla libertà di movimento, circolazione ed espatrio. Ed è il pomeriggio avanzato quando viene convocata una conferenza stampa - in diretta televisiva internazionale - nella quale si illustra la svolta. Quando un giornalista italiano, Riccardo Ehrman, fa una domanda logica - «quando entreranno in vigore queste nuove disposizioni?» - il portavoce della Sed, l'imbarazzato Gunther Schabowski, risponde d'impulso: «da subito!». Gli scappa, quel von jetzt, dai precordi, dall'inconscio, proprio come se l'uomo non avesse minimamente calcolato le conseguenze di quello che tutti considerarono un annuncio storico. Si sa, la storia passa talora dalle banalità della cronaca.
E fu così che Berlino visse la sua nottata storica. E così il "socialismo reale" (non il comunismo) finiva. Senza sangue, senza violenza, senza rimpianti, cadevano ad uno ad uno i regimi di Bulgaria, Cecoslovacchia, Romania - Polonia e Ungheria avevano fatto un percorso a sé. Due anni dopo, sarebbe toccato alla Madrepatria: scompariva l'Unione sovietica, la bandiera rossa veniva ammainata dal Cremlino.
"Non abita più lì", fu il titolo (malinconico ma non rassegnato) che Luigi Pintor propose al manifesto. Non c'è dubbio: la storia, lungi dall'essere finita (come avrebbe poi detto l'incauto Fujihama), si era rimessa in moto. Ma quel che era mutato era proprio l'ordine del mondo: quello che per quasi cinquant'anni si era retto sulla spartizione di Yalta e la competizione tra est e ovest. E l'Ovest, l'occidente, il "mondo atlantico" aveva vinto la guerra. Anche su questo non c'erano dubbi.
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Sul perché le cose siano andate così, si discute - e si continuerà a discutere - da molti anni. Ma forse un altro anniversario ci aiuta a collocare gli eventi di vent'anni fa nella loro giusta prospettiva storica: quello in cui, quarant'anni fa (più uno), era stata repressa dai carri armati sovietici la "primavera di Praga". L'ultima possibilità di autoriforma, e di riforma democratica, del socialismo orientale veniva così umiliata - finiva un sogno, chissà, e iniziava un'agonia lunga vent'anni. Quei regimi avevano smarrito ogni "forza propulsiva", ogni vero consenso, ogni possibilità di sviluppo economico - la lunga, nefanda stagione brezneviana fece allora aggio sulla guerra (gli SS-20 schierati alle frontiere) e sul deliberato saccheggio di quello che restava della ricchezza dell'Urss. Non c'erano più gli orrori dello stalinismo di Stalin, da Berlino a Mosca, solo uno stalinismo burocratico, asfittico, oppressivo, che alimentava società stagnanti, infelici, passivizzate. Non c'era più neppure la "competizione pacifica" con l'Occidente, che nel frattempo aveva scoperto le due armi davvero vincenti, la rivoluzione conservatrice del neoliberismo e la rivoluzione tecnologica.
Quando Mikhail Gorbaciov arrivò al potere, si rese conto - presumibilmente si era reso conto da tempo - che la situazione era disperata: scelse, come estremo tentativo, non la riforma economica mercatistica che molta parte dell'intelligentsja gli prescriveva, ma una riforma profonda della politica - la celebre perestrojka, la partecipazione, le elezioni libere, insomma la nascita di quella società civile che nell'Urss socialista non c'era mai stata.
Fu sconfitto, Gorbaciov - diventato nel frattempo molto più popolare all'estero che in patria - e fece sicuramente molti errori. Ma, a suo merito indiscusso, resta il carattere pacifico, nonviolento, del sommovimento che pose fine al "campo socialista". Forse il leader sovietico si illuse che, lasciando gli ex-satelliti europei al loro libero destino, avrebbe potuto salvarsi l'Unione sovietica. Forse, non potè fare altrimenti.
Ma fu lui a impedire a Honecker e alla Stasi di trasformare la rivolta dei tedeschi dell'Est in una carneficina, o in un bagno di sangue analogo a quello del '53. Fu lui a tentare di ridare credito a parole come "disarmo", "dialogo", "cooperazione pacifica" tra mondi diversi. In fondo, Gorbaciov, ultime erede della storia del '900, non avrebbe potuto essere, in nessun caso, il costruttore di un nuovo secolo, o di una nuova storia.
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Resta, tutta addosso a noi, la storia dei vent'anni che ci stanno alle spalle. Una sequenza di sconfitte, drammaticamente concatenate l'una all'altra, che hanno finito col coinvolgere non tanto il "comunismo", ma l'esistenza stessa della sinistra. Un paradosso dal quale non riusciamo ad uscire: il crollo di quel Muro è stato un momento di liberazione, per i tedeschi e per tutti noi, ma la libertà e la liberazione, dopo, non sono arrivate.
Si è scoperto che quei sistemi in via di decomposizione, quei regimi divenuti così fragili da cadere con la velocità di un castello di carte, quel falso socialismo di burocrati profittatori e inetti, in realtà "trattenevano" l'Occidente (il capitalismo) dal dispiegare le loro peggiori tendenze. Si è ri-scoperto che il capitalismo, come sistema economico unico, non tiene in alcuna considerazione né la libertà né la vita né, tanto meno, l'eguaglianza tra le persone vice, all'opposto, di guerra permanente, patrioct act, restrizione dei diritti, abnorme diseguaglianza.
Appunto, come scrisse Franco Fortini in una bella canzone, «ricomincia qui\ quel che è stato vero un anno, un giorno\ altri nel mondo si vorranno bene \ altri lavoreranno senza pene \ altri vivranno in libertà».
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