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1.1.14

Ricerca italiana tra le più citate. Ma fanno notizia solo le classifiche negative

CLASSIFICHE INTERNAZIONALI

Ricerca italiana tra le più citate. Ma fanno notizia solo le classifiche negative


Questa è una notizia, apparsa sulla rivista Nature, che non è passata sui giornali italiani. La riporto per intero:
Gli Stati Uniti stanno scivolando verso il basso nella classifica della qualità della ricerca, misurata attraverso l’impatto citazionale relativo dei suoi articoli [scientifici]. Questo è quanto viene mostrato da uno studio commissionato dal governo britannico. In particolare, gli analisti della casa editrice Elsevier mostrano che gli Stati Uniti sono stati superati nella classifica (normalizzata per disciplina) dal Regno Unito nel 2006 e dall’Italia nel 2012, anche se gli Stati Uniti rimangono ben avanti in termini di  quota mondiale del top 1% degli articoli più citati.
In pratica significa che il surrogato della misura della qualità della ricerca, rappresentato dal numero di volte che un articolo scientifico è stato citato, per l’Italia ha superato l’analogo indicatore per gli Stati Uniti – fermo restando che quest’ultimi sono avanti quando si considera solo l’1% degli articoli più citati.
Inoltre dallo stesso studio si trova anche che l’efficienza della ricerca italiana è ottima: ad esempio il numero di citazioni ottenute per unità di spesa in ricerca e sviluppo è secondo solo al Regno Unito e pari a quello Canadese, dunque maggiore di Francia, Germania, Usa, ecc. Certamente questo studio si riferisce solo a quei campi che vengono censiti dalle banche dati bibliometriche come Scopus: ma questi includono tutte le discipline tecnico-scientifiche e bio-mediche, dunque si tratta di un dato assolutamente rilevante.
Insomma questo dovrebbe essere un risultato riportato con una certa visibilità: finalmente un settore in cui primeggiamo, addirittura se rapportati agli Usa, oltre che essere sempre avanti nelle classifiche dei paesi più corrotti, ecc. E invece nessuno ne parla: perché? Perché invece appena esce una nuova classifica delle università, in cui notoriamente gli atenei italiani non occupano le prime posizioni, se ne parla su tutti i giornali, il ministro di turno promette interventi drastici per riportare in vita la ricerca e l’accademica italiana, ogni volta additati per la sentina dei vizi nazionali?
In realtà dovrebbe accadere il contrario. Infatti, le classifiche basate sulle citazioni di articoli scientifici riportano un dato piuttosto affidabile poiché confrontano, per macro-insiemi di ricercatori, un indicatore semplice da misurare, in determinate banche dati, e relativamente rilevante. Considerando che inoltre la spesa complessiva per l’istruzione superiore in Italia è un terzo di quella degli Usa (metà della Francia, Germania, ecc.) bisognerebbe riconoscerel’efficienza del sistema, nonostante che i docenti di ruolo siano i più anziani dei paesi sviluppati, che gruppi di pressione possano agire con la complicità della politica e che fenomeni di malcostume siano piuttosto frequenti nella gestione dei ruoli di potere accademico.

Invece le classifiche delle università confrontano pere con mele: sono stilate in basi a criteri piuttosto arbitrari, non hanno consistenza scientifica poiché la posizione è calcolata in base ad un mix di parametri del tutto questionabili (dalla produzione scientifica, al numero di studenti per docenti) e soprattutto non tengono conto di un non marginale dettaglio. Per capire quale basti ricordare che nel 2012 le spese operative della sola università di Harvard, frequentata da qualche decina di miglia di studenti, solitamente ai primi posti di queste classifiche, equivalgono al poco meno della metà di tutto il fondo di finanziamento ordinario dell’intera università italiana: il problema non è che Harvard sia prima, il problema sarebbe che non lo fosse!

10.12.13

I principi della Nuova Università contro la ricerca e il pensiero critico

Sebastiano Maffettone (corriere.it)

Due giovani professori sono stati sospesi dall’insegnamento. D’altra parte, che cosa si poteva fare? Erano stati così ingenui da farsi sorprendere mentre si scambiavano fotocopie di articoli scientifici tra una lezione e l’altra. Il loro comportamento era ovviamente intollerabile perché contrastava con i principi su cui si basa la Nuova Università. Le prescrizioni che ne derivano—diciamoci la verità—sono inequivocabili. Dovrebbe essere oramai chiaro a tutti che la Nuova Università non è un luogo di ricerca e studio. Questi sono lussi che non interessano davvero nessuno. Piuttosto la Nuova Università si occupa di cose serie e importanti. Come compilare documenti, infiniti documenti, indire riunioni, tantissime riunioni. Tutto in sostanza, tranne che ricerca e studio. Non è precisamente proibito studiare, a essere sinceri, ma risulta evidente che la cosa deve restare in ambito privato, soprattutto senza esporre agli effetti negativi della ricerca gli studenti. Si teme, infatti, che sparute minoranze di studenti possano essere incuriosite dai libri e addirittura interessate alla riflessione critica, oggetti e attività ritenute inammissibili nella Nuova Università, corrompendo loro stessi e gli altri. Se studiare, leggere, pensare, discutere criticamente sono scoraggiati nella Nuova Università, non è in realtà vero che la ricerca sia eliminata del tutto. La ricerca, come ben sappiamo, non si pratica nella Nuova Università e i libri tradizionali sono banditi. Tuttavia si valuta la ricerca per ore e ore al giorno. Sotto l’egida di un organo denominato fantasiosamente «Anvur», la ricerca viene costantemente monitorata.

La Nuova Università tiene molto a queste procedure. Il loro consuntivo compare in un documento di grande rilievo, chiamato «Ava», che impone ai dipartimenti di autovalutarsi periodicamente e di comunicare l’esito agli organi supremi. Ma c’è di più. I risultati della ricerca sono registrati tramite uno strano strumento detto «Vqr». Tutti sanno che, nella Nuova Università, è più facile scrivere un articolo scientifico che registrarlo nel Vqr, e anche per questo le migliori energie degli Atenei sono destinate a favorire la seconda operazione. Tutti i risultati della ricerca sono poi tenuti in grande considerazione dall’organo ministeriale chiamato «Cineca», e diventano centrali per le pluriennali procedure di abilitazione che dovrebbero fornire le liste dei docenti idonei. In questa prospettiva, rimane una perplessità diffusa: come è possibile che la ricerca venga considerata tanto rilevante per le abilitazioni quando è normalmente ostacolata? Non conosco nessuno che sia stato in grado di rispondere a questa domanda, se non facendo appello all’importanza di pratiche rituali e magiche. La Nuova Università, però, non si arresta per così poco, e mantiene in forma docenti e amministrativi facendoli partecipare a un minimo di cinque riunioni al giorno.

I membri della Nuova Università non si interrogano su queste pratiche in pubblico. Troppa curiosità potrebbe svantaggiarli. Molti, però, nel segreto della coscienza hanno dei dubbi. Mi rivolgo a costoro, per cercare di dare una possibile interpretazione dei principi su cui si basa la Nuova Università, in modo che non credano alla loro pura irrazionalità. Questi principi, come ho detto, tendono a ostacolare lo studio e il pensiero. La ratio che li sottende non è però così misteriosa. Il potere burocratico-politico considera l’attività dell’intellettuale critico inutile se non pericolosa. Soprattutto, ritiene inconcepibile pagare qualcuno per svolgerla. I principi della Nuova Università, dove si valuta tutto senza mai pensare a che cosa serva, sono destinati precisamente a scoraggiare gli intellettuali per tendenza: sia loro ben chiaro che la Nuova Università non è luogo per loro. Ma sono destinati soprattutto a dare un senso al pagamento degli stipendi di quei professori che ancora si ritengono intellettuali critici. Il loro stipendio è commisurato alla quantità di documenti che compilano e al numero di riunioni cui partecipano. E che non si illudano soprattutto che alla Nuova Università serva gente che ama la cultura scientifica e umanistica per se stessa.

Si narra che l’idea di Nuova Università sia stata concepita da economisti fondamentalisti del mercato, ma—come succede nelle vicende umane—il messaggio dei primi economisti si è col tempo perduto nei meandri ministeriali. Ora come ora, assomiglia più all’Unione Sovietica che ai sogni di Friedman o Hayek. Contrariamente al socialismo reale, però, la Nuova Università appare inattaccabile: tutto misura e niente significato; tanta efficienza senza sapere perché. Nel frattempo, il pensiero critico langue e viene respinto ai margini. Solo per dovere di cronaca, riporto il fatto che si fantastica di giovani che discutono animatamente di filosofia, matematica e arte nelle periferie e nelle campagne. Cose d’altri tempi, dirà qualcuno. Può essere. Ma intanto, mentre studio e ricerca da noi sono all’indice e non si investe nella cultura, in altri Paesi si fa l’opposto. In altri Paesi, a cominciare dalla Germania, si ritiene che il sistema educazionale sia il migliore antidoto alla crisi e il motore per lo sviluppo futuro. Sarà proprio un caso che questi Paesi funzionano meglio del nostro?