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13.1.14

Abbagli individuali e frodi volontarie

Vincenzo Barone (L'indice)
Più di mezzo secolo fa, il biologo e divulgatore francese Jean Rostand pubblicava un breve saggio intitolato Science fausse et fausses sciences (Gallimard, 1958) che aveva come oggetto “i vari modi in cui la verità scientifica può essere adulterata dagli ‘stregoni’ di ogni specie, dai fanatici di tutte le ideologie, e persino, inconsapevolmente, da qualche vero scienziato”. La “scienza falsa” è, nella terminologia di Rostand, quell’insieme di fenomeni illusori che alcuni scienziati, autoingannandosi, ritengono talvolta di osservare (l’esempio originale era quello dei raggi N di Blondlot, ma oggi possiamo far rientrare in questa categoria anche la memoria dell’acqua e la fusione fredda); le “false scienze” sono invece le credenze e le discipline genuinamente pseudoscientifiche, come la genetica di Lysenko o, a un livello più popolare, la rabdomanzia e le teorie della percezione extrasensoriale. Rostand vedeva in “un’igiene preventiva del giudizio” il modo più efficace di combattere le false scienze: “Insegnare ai giovani lo spirito critico, premunirli contro le menzogne della parola e della stampa, creare un terreno intellettuale in cui la credulità non possa attecchire, insegnare loro che cos’è coincidenza, probabilità, ragionamento giustificativo, logica affettiva, resistenza incosciente al vero, far loro comprendere che cos’è un fatto e che cos’è una prova”.
Dai tempi in cui Rostand denunciava gli attacchi preterintenzionali o dolosi alla verità scientifica, la scienza ha fatto passi da gigante, ma con essa è progredita anche la galassia della “parascienza”. È questo territorio variegato, fatto di teorie assurde, di leggende, di presunte scoperte, di risultati truffaldini, che il chimico e divulgatore Silvano Fuso esplora in un libro, La falsa scienza, che ricorda nel titolo il pamphlet di Rostand, ma si presenta come un repertorio sistematico e ragionato delle tante forme di “scienza malata”. Le sei parti in cui è suddiviso il libro illustrano altrettanti modi in cui la scienza può degenerare, o l’idea di scienza può essere declinata illegittimamente: abbagli individuali e collettivi, frodi volontarie, invenzioni folli, scoperte “metafisiche”, teorie rivoluzionarie, medicine e miracoli.
Fuso adotta l’espediente narrativo di fingere all’inizio di ogni capitolo che la pseudoteoria o la pseudoscoperta di cui si accinge a parlare siano corrette, e ne descrive, con esiti talvolta molto divertenti, le conseguenze. Che cosa succederebbe se la fusione fredda fosse un fenomeno reale, se gli animali telepatici di Rupert Sheldrake esistessero davvero, se il cronovisore di padre Ernetti potesse essere realizzato, se il raggio della morte attribuito a Nikola Tesla (uno degli scienziati che più alimentano le fantasie di mattoidi e ciarlatani) fosse nell’arsenale di qualche superpotenza?
Luigi Di BellaLuigi Di BellaIl gioco è particolarmente illuminante, perché le false scoperte non riguardano mai questioni di poco conto, ma sono sempre rivoluzionarie. Peccato, però, che di queste rivoluzioni non si veda in giro alcuna traccia. E qui entrano in scena altri due aspetti tipici della pseudoscienza: il mito del “genio incompreso” (il ricercatore solitario, spesso autodidatta, che nel chiuso della sua stanza scopre la teoria del tutto, o inventa la macchina del moto perpetuo) e la teoria del complotto (è, naturalmente, la scienza “ufficiale” a soffocare le straordinarie idee degli scienziati “eretici”). Molti dei casi trattati da Fuso inducono al sorriso, e sono preoccupanti solo perché segnalano un totale fraintendimento delle regole e delle procedure della scienza. Ma ce ne sono altri che destano allarme per le loro conseguenze etiche e sociali: si tratta, da un lato, dei casi di frodi scientifiche, sempre più frequenti vista la crescente competitività in certi settori della ricerca, come le biotecnologie e le nanoscienze; dall’altro, dei casi di terapie “non convenzionali” (ma sarebbe meglio dire infondate), che alimentano purtroppo le illusioni di persone in grave stato di difficoltà. Si pensi, a questo proposito, alla cura anticancro di Luigi Di Bella o, caso troppo recente per poter essere registrato dal libro di Fuso, al famigerato metodo Stamina dello psicologo Davide Vannoni: un protocollo oscuro, non sostenuto da alcuna sperimentazione controllata né da pubblicazioni scientifiche, oggetto di una domanda di brevetto corredata di figure tratte da ricerche altrui, e tuttavia improvvidamente magnificato da certi mezzi di comunicazione.
Il libro di Fuso si conclude con l’invito a un sano scetticismo, inteso non come incredulità aprioristica, ma come la giusta pretesa di avere prove adeguate prima di accettare un’asserzione. “Si tratta – osserva l’autore – di un atteggiamento mentale non solo perfettamente razionale, ma anche doveroso nella scienza e in qualsiasi altro ambito”. Da dove, se non da qui, dovrebbe prendere avvio l’educazione del cittadino nella società della conoscenza.

5.6.09

Piccoli pensieri

Un tempo si pensava che la mente dei bambini avesse capacità limitate. Ma ora scopriamo che è più creativa e aperta di quella degli adulti

jonah lehrer, the boston globe, stati uniti

Cosa si prova a essere un bambino nei primi mesi di vita? Qualche secolo fa questa domanda sarebbe sembrata assurda: dietro quell’aspetto così dolce, avrebbero risposto gli scienziati dell’epoca, c’è solo una mente vuota. In quella fase della vita, infatti, mancano quasi tutte le capacità che definiscono la mente umana, come la parola e la possibilità di ragionare. Cartesio sosteneva che il bambino piccolo è tutto concentrato sulle sensazioni, irrimediabilmente intrappolato nel lusso confuso dell’hic et nunc. Secondo questa visione, un neonato è solo un grumo di bisogni, un fagotto di rilessi che sa solo mangiare e piangere. Pensare come un bambino piccolo, insomma, significa non pensare. La scienza moderna è quasi sempre stata d’accordo con questa teoria. Per decenni gli studiosi hanno descritto tutte le cose che un bambino piccolo non può fare a causa del suo cervello poco sviluppato: non può concentrarsi su un’attività, non può rimandare le gratificazioni e non può nemmeno esprimere i suoi desideri. Di recente, però, gli scienziati hanno cominciato a mettere in discussione le loro certezze. Usando tecniche e strumenti di ricerca innovativi, hanno scoperto che la mente dei bambini piccoli in realtà è molto attiva e riesce ad acquisire un’incredibile quantità di informazioni in un tempo relativamente breve. Diversamente dalla mente adulta, che si concentra su una limitata fetta di realtà, quella del bambino può assorbire una gamma di sensazioni molto più ampia. In un certo senso, i bambini sono più consapevoli del mondo di noi adulti. Questa ipercoscienza comporta diversi vantaggi. Innanzitutto, permette ai bambini di capire come funziona il mondo a un ritmo incredibilmente veloce. Anche se alla nascita sono totalmente impotenti, nel giro di pochi anni i bambini imparano tutto, dalla lingua alle attività motorie complesse come camminare. Secondo questa nuova teoria, le caratteristiche mentali dei bambini un tempo considerate carenze di sviluppo (come l’incapacità di concentrare l’attenzione), in realtà favoriscono l’apprendimento. Gli studiosi sono arrivati alla conclusione che, in alcuni casi, agli adulti farebbe bene regredire a uno stato mentale infantile. Nonostante i suoi vantaggi, infatti, la maturità può inibire la creatività e spingere le persone a concentrarsi sulle cose sbagliate. Quando dobbiamo selezionare dei dati all’interno di una serie di informazioni apparentemente irrilevanti, o creare qualcosa di completamente nuovo, faremmo meglio a pensare come bambini piccoli. “Abbiamo sempre avuto un’idea fuorviante della mente dei bambini”, sostiene Alison Gopnik, una psicologa dell’università della California, autrice del libro The philosophical baby. “Nei primi anni di vita”, spiega, “il cervello è perfettamente strutturato per il compito che deve svolgere: imparare come funziona il mondo. In alcuni casi un cervello completamente sviluppato può perfino essere d’ostacolo”.
Un cervello più flessibile
Una delle implicazioni più sorprendenti di queste nuove ricerche riguarda la coscienza del bambino. Gli scienziati hanno sempre dato per scontato che i bambini fossero molto meno coscienti degli adulti. Secondo Gopnik, invece, sotto molti aspetti è vero il contrario. L’esperienza del bambino è come quella di un adulto che vede un film molto avvincente o che visita una città straniera, dove anche le cose più comuni sembrano nuove ed eccitanti. “Per un bambino”, spiega Gopnik, “ogni giorno è come andare a Disneyland per la prima volta. Provate a fare una passeggiata con un bambino di due anni. Vi renderete subito conto che vede cose che voi neanche notate”. C’è qualcosa di paradossale nel tentativo di studiare la vita interiore del bambino. Tanto per cominciare, non possiamo fargli domande. I bambini piccoli non possono descrivere le loro sensazioni e le loro emozioni né sono in grado di esprimere il piacere che provano quando gli viene dato un ciuccio o un peluche. Agli occhi di uno scienziato, la mente infantile è impenetrabile come una scatola nera. Negli ultimi anni, però, i ricercatori hanno trovato nuovi metodi per entrare nella testa dei bambini. Hanno misurato la densità del tessuto cerebrale, analizzato lo sviluppo delle connessioni neurali e studiato i movimenti degli occhi. Confrontando l’anatomia del loro cervello con quella di un adulto, gli scienziati possono formulare delle ipotesi sull’esperienza nel mondo infantile. Queste nuove tecniche di ricerca hanno permesso di scoprire cose sorprendenti. È emerso, per esempio, che il cervello di un bambino piccolo contiene in realtà più cellule cerebrali, o neuroni, di quello adulto. Nel momento stesso in cui apriamo gli occhi, i nostri neuroni avviano un processo di “sfoltimento”. Cominciano, cioè, a eliminare le connessioni neurali apparentemente inutili. Inoltre nei bambini le varie parti della corteccia cerebrale, che è il centro delle sensazioni e del pensiero superiore, sono collegate meglio rispetto a quelle della corteccia adulta. Queste differenze anatomiche non sono solo un segno di immaturità. Sono uno strumento importante che permette ai bambini di assimilare facilmente una grande quantità di informazioni. Anche se rende il cervello più efficiente, il processo di sfoltimento può ridurre la nostra capacità di pensare e di apprendere, perché siamo meno capaci di adattarci a nuove situazioni e di assorbire nuove informazioni. È come se ci fosse una sorta di compensazione tra la flessibilità della mente e la sua efficienza. Questo spiega in parte perché un bambino piccolo può imparare tre lingue contemporaneamente ma non è capace di allacciarsi le scarpe. Il cervello dei bambini nei primi anni di vita non è solo più denso e flessibile. È anche costruito in modo diverso: ha molti meno neurotrasmettitori inibitori, le sostanze chimiche che impediscono ai neuroni di attivarsi. Questo fa pensare che la mente del bambino, rispetto a quella dell’adulto, sia più affollata di pensieri fugaci e di sensazioni casuali. Mentre gli adulti bloccano automaticamente le informazioni irrilevanti, come il ronzio di un condizionatore d’aria o una conversazione tra estranei al tavolo vicino, i bambini assimilano tutto. Assorbono la realtà senza filtri. Si spiega così la profonda differenza nel modo in cui gli adulti e i bambini osservano il mondo. Se negli adulti l’attenzione funziona come un riflettore, un raggio direzionale che illumina un particolare aspetto della realtà, nei bambini piccoli somiglia più a una lanterna, che getta una luce diffusa su tutto quello che li circonda. “C’è chi dice che gli adulti sono più capaci di prestare attenzione rispetto ai bambini”, scrive Gopnik. “Ma non è esatto: sono solo più bravi a concentrarsi su un unico aspetto, escludendo il resto”. Pensiamo, per esempio, a cosa succede quando si mostra a dei bambini in età prescolare l’immagine di una persona (per comodità la chiameremo Jane) che guarda una fotografia di famiglia. Se si chiede ai bambini cosa sta guardando Jane, risponderanno subito che guarda le persone nella fotografia. Ma non si fermeranno qui: diranno anche che sta guardando la cornice, il muro dietro la fotografia e la sedia che intravede con la coda dell’occhio. In altre parole, i bambini saranno convinti che Jane presti attenzione a tutto quello che può vedere.
Il gioco delle due carte
Anche se non permette di rimanere concentrati su un’unica attività (i bambini in età prescolare si distraggono facilmente), questa forma di attenzione meno focalizzata presenta dei vantaggi. Per esempio, favorisce una migliore capacità di memoria, soprattutto quando si tratta di ricordare informazioni che in un dato momento sembravano secondarie. John Hagen, uno psicologo dell’università del Michigan, ha progettato un test per capire il rapporto tra concentrazione e memoria. A un bambino vengono mostrate due carte alla volta. Gli viene chiesto di memorizzare la carta di destra e di ignorare quella di sinistra. I bambini più grandi e gli adulti svolgono più facilmente questo compito, perché sono in grado di orientare l’attenzione. I bambini piccoli, invece, ricordano spesso la carta di sinistra: la loro lanterna, infatti, illumina più elementi possibili. Grazie a queste scoperte sulle capacità cognitive infantili e sul modo particolare in cui i bambini prestano attenzione, gli scienziati hanno formulato nuove ipotesi sul funzionamento della mente adulta. Oltre a rimuovere fatti e percezioni irrilevanti, a quanto pare la capacità di orientare l’attenzione può anche frenare l’immaginazione. A volte la mente funziona meglio quando smettiamo di controllarla. Le differenze tra l’attenzione dei bambini e quella degli adulti dipendono principalmente dalla corteccia prefrontale, la regione del cervello situata dietro gli occhi. Questa zona è responsabile di una vasta gamma di capacità cognitive, dall’attenzione orientata al pensiero astratto. Nei bambini non è ancora totalmente sviluppata (spesso lo sviluppo si completa solo con l’adolescenza). Gli scienziati hanno sempre sostenuto che all’origine dei cosiddetti comportamenti infantili c’è proprio la mancanza di una corteccia prefrontale pienamente operativa. Ma ora cominciano a rendersi conto che, in alcuni casi, per un adulto è meglio che quella zona del cervello allenti il controllo.
I vantaggi dell’immaturità
I ricercatori della Johns Hopkins university ne hanno avuto la conferma studiando l’attività cerebrale di alcuni musicisti jazz. Mentre suonavano una speciale tastiera, all’interno di un apparecchio per la risonanza magnetica, gli artisti mostravano un’attività ridotta della corteccia prefrontale durante la fase di improvvisazione: solo disattivando quella zona del cervello riuscivano a inventare nuove melodie. Gli scienziati paragonano questo stato di rilassatezza mentale alla fase Rem del sonno, alla meditazione e ad altre attività creative, come la composizione di poesie. Ma somiglia molto anche al modo di pensare dei bambini piccoli. Non a caso Baudelaire diceva che “il genio è l’infanzia ritrovata quando vogliamo”. L’immaturità del cervello dei bambini comporta anche un altro vantaggio: la capacità di assorbimento. Visionando le scansioni cerebrali di adulti che guardavano un film di Clint Eastwood, Rafael Malach, dell’università ebraica di Gerusalemme, ha notato uno strano schema di attività: la regione prefrontale era bloccata, mentre le zone posteriori del cervello associate alla percezione visiva erano attive. Come osserva Gopnik, questo stato mentale – la sensazione di essere completamente presi da qualcosa – ci ricorda quello che provavamo da bambini: “L’esperienza è così vivida che perdiamo la consapevolezza di noi stessi”. Ma non è solo il cinema a riportarci allo stato mentale infantile. Secondo Gopnik ci sono altre esperienze, dalla meditazione zen alla contemplazione, che possono produrre stati di coscienza così intensi da offuscare completamente l’io: “È l’estasi di cui scrivevano i poeti romantici”. Blake lo chiamava “vedere un mondo in un granello di sabbia”. Se non potessimo mai tornare a questa coscienza infantile, avremmo difficoltà a svolgere i compiti in cui bisogna lasciarsi andare e abbandonarsi completamente a quello che si sta facendo: per esempio girare un risotto o risolvere un cruciverba. Quei momenti sono spesso definiti attività di “lusso”. Il maestro zen Shunryu Suzuki, invece, definiva questo stato “mente di principiante”, perché permette agli adulti di pensare come bambini, di essere aperti a tutte le possibilità e liberi da preconcetti. Gopnik lo ha sperimentato personalmente: “Uno scienziato ha bisogno di pensare in entrambi i modi”, spiega. “Nella maggior parte dei casi ha bisogno di concentrarsi per analizzare i dati. Ma per essere creativo deve avere la mente libera. Quando il suo modo di pensare non funziona, deve trovarne uno nuovo”. In quei momenti, dice, dobbiamo ritrovare l’innocenza dei bambini, allentare le redini dell’attenzione e guardare con occhi nuovi il mondo che stiamo ancora cercando di capire.
© 2009 by Jonah Lehrer. Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara.
(jonah lehrer collabora con il Boston Globe, Wired, Seed, Nature e il New Yorker. Ha scritto Proust era un neuroscienziato (Codice 2008). Il suo prossimo libro, Come decidiamo, sarà pubblicato da Codice a giugno. Il suo sito è Jonahlehrer.com)

Intelligenza sorprendente
A due anni e mezzo i bambini hanno già dei princìpi morali, ma sono anche in grado di modificarli.
Intervista con la psicologa americana Alison Gopnik (evan lerner, seed magazine, stati uniti )

Che utilità può avere, per noi adulti, una maggiore comprensione di quello che succede nella mente dei bambini?
Una delle cose che abbiamo scoperto è che l’immaginazione, spesso considerata una prerogativa della mente adulta, è presente già nei bambini piccoli, in dall’età di 18 mesi. Ed è strettamente collegata alla loro necessità di capire come funziona il mondo. Non sviluppiamo la capacità di immaginare solo per il nostro piacere. È una facoltà innata, legata al modo in cui affrontiamo la struttura causale del mondo reale. Abbiamo creato un modello computazionale di sviluppo usando quelle che gli informatici chiamano reti bayesiane. Questo modello dimostra sistematicamente che la comprensione del processo causale permette di immaginare nuove possibilità. Se il cervello dei bambini funziona in questo modo, vuol dire che l’immaginazione e l’apprendimento procedono di pari passo.
Secondo lei le teorie della mente del bambino proposte da Freud e Piaget sono sbagliate. Cosa sappiamo oggi che loro non sapevano?
Sia Piaget sia Freud pensavano che il motivo per cui i bambini inventano giochi così fantasiosi è che non sanno distinguere la fantasia dalla realtà. Ma molte delle ricerche più recenti dimostrano esattamente il contrario. I bambini distinguono benissimo tra fantasia e realtà, ma sono interessati a esplorarle entrambe.
Come facciamo a interrogare la mente di persone che non sanno ancora comunicare?
I bambini non sono molto bravi a dire spontaneamente quello che pensano. Agli adulti possiamo proporre un questionario e studiare le loro risposte. Ai neonati e ai bambini piccoli, ovviamente, no. Così, invece di ascoltare quello che dicono, dobbiamo osservare quello che fanno. Questo metodo funziona se si usano domande molto precise, che prevedono risposte semplici. Invece di chiedere a un bambino di spiegare come funziona una macchina giocattolo, gli chiediamo: “Pensi che sia questo blocco a farla muovere? Oppure quest’altro?”. In questo modo è possibile dimostrare che i bambini riescono a elaborare informazioni statistiche molto complesse. Nel caso della macchina, per esempio, sono in grado di valutare le probabilità condizionate, cioè il rapporto tra alcuni blocchi e l’accensione o lo spegnimento della macchina. Se adesso provassi a descriverle la sequenza degli eventi che si verificano in uno di questi esperimenti, probabilmente farei qualche errore e alla fine lei non riuscirebbe a ricordarla tutta: è una cosa abbastanza complicata anche per un adulto. Ma quando si presenta a un bambino questa complessa serie di relazioni e gli si chiede di mettere in moto o di fermare la macchina, lui fa la cosa giusta. Anche se coscientemente non sa come funzionano le probabilità condizionate, inconsciamente tiene conto delle informazioni. E lo fa esattamente come i sofisticati programmi di apprendimento delle reti bayesiane.
Che succede nel caso di inferenze causali meno oggettive, per esempio quelle legate alla moralità?
Le rispondo con uno dei miei esperimenti preferiti. È abbastanza diffuso nella comunità scientifica, anche se in pochi ne hanno capito l’importanza. Permette di dimostrare che i bambini, a due anni e mezzo, riescono già a capire la differenza tra princìpi morali e princìpi convenzionali. In pratica gli si fanno delle domande su cosa considerano giusto. Per esempio, è giusto picchiare un compagno d’asilo se tutti dicono che si può fare? Oppure non appendere il cappotto nello spogliatoio se tutti dicono che non bisogna appenderlo? I bambini rispondono tutti che picchiare qualcuno è sbagliato, mentre la risposta sul cappotto può cambiare a seconda dell’asilo nido che frequentano. A due anni sembrano già rendersi conto della differenza tra il tipo di moralità che nasce dal rispetto per gli altri e quello che nasce da regole convenzionali. Capiscono che entrambe le cose sono importanti, ma in modo diverso. È una cosa incredibile.
Che implicazioni ha tutto questo per la filosofia?
In un certo senso, bisogna tornare indietro al diciottesimo secolo. David Hume, per esempio, pensava che la sua scienza fosse teoretica: secondo lui, le scoperte scientifiche non erano separate da quelle filosofiche. I filosofi moderni dicono spesso che possiamo rispondere alle “grandi domande” guardando alla scienza. Ma la scienza, soprattutto la psicologia evolutiva, ci può dire molto anche sulla filosofia. Ci può dire qual è il nostro punto di partenza, che cosa impariamo, e quali sono gli aspetti fondamentali della natura umana. Alcuni filosofi sono molto vicini alla teoria della psicologia evoluzionista: per loro tutto è innato e geneticamente determinato. Ma una delle scoperte più importanti, nel campo della psicologia dell’età evolutiva, è che esiste anche una grande capacità di cambiamento. E ora cominciamo a capire come avviene quel cambiamento a livello neurologico e computazionale. Lo stesso discorso vale per il nostro sviluppo morale. Finora gli psicologi morali ci hanno sempre detto che abbiamo un istinto morale innato, una specie di grammatica morale inconscia. Studiando i bambini, però, si scopre che alcune di queste intuizioni morali sono innate, ma possono anche essere modificate. Per certi versi, penso che la capacità di cambiare sia una delle facoltà più peculiari dell’uomo. Siamo in grado di dire: “Il modo in cui mi sono comportato finora non funziona, quindi è sbagliato”. E questo ci permette di cambiare e di migliorare i princìpi morali da cui siamo partiti.

Internazionale 798, 5 giugno 2009