4.5.14

Lombardia, gli intrecci tra i Mantovani e la Regione

Rsa e coop accreditate col Pirellone. Aria di conflitto di interessi per la Fondazione creata dall'assessore.

di Alessio Frigerio

La Fondazione Mantovani «nasce nel 1996 per volontà del fondatore Mario Mantovani, in memoria della sorella Ezia. La sua attività si caratterizza sin da subito grazie a un forte impegno a favore degli anziani e si concretizza nella progettazione, costruzione e gestione di Rsa», cioè residenze sanitarie assistenziali.
QUATTRO CASE DI CURA IN GESTIONE. Ne gestisce quattro, di queste case di cura, la Fondazione creata da Mario Mantovani, assessore Pdl alla Sanità della Regione Lombardia, nonché vicepresidente della Giunta guidata dal leghista Roberto Maroni.
Precisamente una Rsa a Milano Affori, una a Cologno Monzese, un’altra a Cormano e una San Vittore Olona. Nel 2012, ci informa la Fondazione Mantovani, «viene avviata una Rsd per disabili ad Arconate, una comunità provvista anche di minialloggi semi indipendenti».

Tutte le residenze della Fondazione sono accreditate con la Regione Lombardia

Piccolo dettaglio non trascurabile: tutte le residenze sanitarie della Fondazione Mantovani sono accreditate con la Regione Lombardia, di cui Mantovani è assessore.
Certo, lui personalmente non se ne occupa più da un pezzo. Ma chi è il coordinatore della Casa Famiglia di Affori, gestita sempre dalla Fondazione Mantovani? Alessandro Mantovani. E chi è il responsabile della Casa Famiglia Monsignor Carlo Testa di Cologno Monzese? Matteo Mantovani. Tutto in casa e famiglia, sì, famiglia Mantovani.
LA GESTIONE FAMILIARE DI SOLIDITAS. Lo stesso vale per Sodalitas, una cooperativa che costruisce case di riposo per anziani in Lombardia. L’assessore ne è stato direttore generale e consigliere, ma ora non più, per ovvi motivi. Ma chi c’è nel consiglio direttivo della cooperativa? Marinella Restelli, moglie del vicepresidente Mantovani, nonché Vittoria Mantovani, sorella.
La cooperativa Soliditas va a gonfie vele. Il totale dell'attivo è di 14,5 milioni di euro, il patrimonio netto di 1,5 milioni. E nel 2011 ha prodotto ricavi per 18,4 milioni con un utile di 687 mila euro (fonte Il Mondo).
ARIA DI CONFLITTO DI INTERESSI. E qui l’odore di conflitto di interessi per Mario Mantovani si fa ancora più forte. Sodalitas infatti può contare su rimborsi della Regione Lombardia che si aggirano sui 6 milioni l'anno. Con 33 dipendenti, la cooperativa è attiva tramite centri di assistenza ad Arconate, Belluria, Busto Garolfo, Busnate, Bussero, Busnago, Igea Marina e Olgiate Molgora.
Anche per la parte debitoria la coop delle Mantovani - moglie e sorella - dovrà bussare alla Regione del Mantovani marito e fratello. Nel bilancio ci sono infatti 1,5 milioni di esposizione verso il Fondo ricostituzione infrastrutture sociali Lombardia (Frisi), uno strumento finanziario regionale integrato istituito dal Pirellone e diretto a sostenere l'ammodernamento delle infrastrutture sociali. In sostanza la Regione versa crediti che poi vengono rimborsati in 10 anni, senza interessi.

Ogni anno alla Fondazione Mantovani vanno 12,5 mln di rimborsi regionali

Ma c’è anche un’altra cooperativa che lavora nel settore sanitario, a stretto contatto - finanziario - con la Regione Lombardia. Si chiama Nova Sodalitas. E qui, nel consiglio, troviamo la zia Lucrezia e Michele Franceschina presente anche nel consiglio di amministrazione di Sodalitas.
GESTITI 830 POSTI LETTO. Nel complesso quindi le strutture del settore sanitario riconducibili alla famiglia Mantonvani gestiscono 830 posti letto tutti accreditati nella graduatoria della Regione, oltre a 13 centri diurni per disabili gestiti per conto dell'Asl di Milano.
La Regione dell’assessore Mantovani ha anche accreditato l'agenzia formativa di Sodalitas, rimborsando parzialmente i corsi di aggiornamento del personale che lavora nelle strutture. In un anno alla Fondazione Mantovani vanno rimborsi regionali per circa 12,5 milioni di euro (calcolo fatto dal Pd lombardo, dunque di parte).
LA PROMESSA DELL'ASSESSORE. Cosa risponde Mantovani? «Si tratta di disinformazione, perché sono mie esperienze lontane, del passato, iniziative assunte come imprenditore e che purtroppo ho lasciato da lungo tempo. La mia famiglia? Il conflitto di interessi verrà scongiurato in tutti i modi. Nei consigli di amministrazione non ci sarà nessun mio familiare, le visure più aggiornate ve lo diranno meglio». Cioè usciranno dai consigli mogli, sorelle, nipoti e zii? Quando? E chi subentrerà al loro posto? Attendiamo risposte dal gentile assessore alla Sanità.

1.5.14

Troppa informazione – Un saggio sull’opera di David Foster Wallace


nazioneindiana 17 ottobre 2012
 
(Poco più di quattro anni fa veniva a mancare lo scrittore David Foster Wallace. Gli animatori dell’Archivio David Foster Wallace Italia hanno pensato bene di rendergli omaggio traducendo il saggio che J.J. Sullivan ha scritto e pubblicato nel maggio 2011 su GQ USA. Ringraziando Andrea Firrincieli e Roberto Natalini sia per la traduzione sia per la generosità, lo ripubblichiamo qui.)
Tommaso Pincio “Ritratto di David Foster Wallace”, 2011, olio su tavola, cm. 65 x 60
Quando David Foster Wallace, scrittore simbolo della sua generazione, si è tolto la vita nel 2008, ha lasciato dietro di sé un romanzo incompiuto, Il Re Pallido, che potrà servire alternativamente a completare il corpus trascendente delle sue opere oppure a porre un inquietante punto interrogativo sulla fine della sua carriera. John Jeremiah Sullivan si immerge nel nuovo libro e considera quello che ci ha lasciato.
di John Jeremiah Sullivan
Una delle poche bugie che riusciamo a rintracciare nei libri di David Foster Wallace si trova nel pezzo su Michael Joyce, oscuro prodigio del tennis degli anni ‘90, incluso nella sua prima raccolta di saggi, Una cosa divertente che non farò mai più. A parte alcune pagine dei suoi romanzi, è la cosa migliore che Wallace abbia scritto sul tennis – migliore persino del pezzo giustamente lodato, ma spropositatamente famoso, su Roger Federer [1] - proprio perché Joyce era un operaio del tennis, uno sconosciuto, per Wallace era come una tela bianca. Wallace non aveva praticamente nulla su cui lavorare per quel pezzo [2]: un tortuoso accesso ai gironi di qualificazione di un torneo canadese, qualche ora passata a guardare attraverso la rete metallica un soggetto che era allo stesso tempo troppo gentile per essere divertente e non particolarmente articolato. Di fronte a quello che per molti scrittori sarebbe stata una disastrosa mancanza di materiale, Wallace scatenò tutti i suoi stupefacenti poteri d’osservazione sul tennis nel suo complesso, pescando in parte dalla sua personale conoscenza del gioco, ma soprattutto grazie alla sua genuina abilità di considerare una situazione, facendola ruotare mentalmente tra le sue dita come un gioiello di dubbia integrità. Scrive: “Tutti hanno l’aspetto infelice e introverso di persone che passano enormi quantità di tempo sugli aerei e ad aspettare con le mani in mano nelle hall degli alberghi, l’aria di persone che devono crearsi intorno un guscio di privacy usando soltanto la loro espressione.” Ascolta il “pang autorevole” delle corde della racchetta tese per il torneo e osserva i raccattapalle “riconfigurarsi in maniera complessa”. Passa il tempo nei campi dove i giocatori fanno pratica e si riscaldano, i loro corpi “si muovono con la compatta disinvoltura che ho imparato a riconoscere nei professionisti quando si allenano: danno l’idea di un motore potentissimo tenuto a bassi giri.”
La bugia arriva all’inizio del pezzo, quando Wallace sottolinea l’ironia potenziale di ciò che si prepara a fare, e cioè scrivere di persone di cui non abbiamo mai sentito parlare, che sono culturalmente marginali, ma comunque tra i migliori al mondo in un dato campo. Wallace dice: “Vi invito ora a immaginare cosa si proverebbe a essere fra i cento migliori al mondo in qualcosa. Qualunque cosa. Io ho provato a immaginarmelo; è difficile”. Quello che è strano è che questo pezzo è scritto nel 1996 – quando Wallace aveva già  completato il suo secondo romanzo che avrebbe influito sull’intero genere narrativo, Infinite Jest, così come i racconti, alcuni già considerati dei classici, della raccolta La Ragazza dai capelli strani. È difficile credere che non sapesse di essere tra i cento migliori in qualcosa, e precisamente nello scrivere narrativa, e che c’erano già persone serie e competenti disposte ad includerlo in una cerchia ancora più ristretta. Forse dobbiamo supporre che, essendo umano, qualche volta ne fosse consapevole e qualche volta avesse paura che non fosse vero. Ad ogni modo, questa falsa modestia – chiederci di accettare l’idea che lui non pensasse mai di essere così bravo e abbia proposto l’esperimento in maniera ingenua – non può che sembrarci strana. E forse era una cosa voluta. Non ci sono molte cose che accadono per caso negli affari di Wallace; il suo tratto profondamente ossessivo non lo permetteva. È possibile che ci sia qualcosa di stratificato in questo modo di usare lo sport come metafora per la scrittura – più strati di quanto già non ce ne si aspetti? È di per sé curioso che Wallace scelga un giocatore, tra i tanti, che si chiama Joyce, la cui irlandesità “etnica” Wallace enfatizza abbondantemente, alludendo quindi a un artista la cui propria fissazione sulla maestria tecnica lo aveva reso una sorta di mostruoso, splendente ma poco salutare, problema umano della letteratura. Di sicuro Wallace faceva dei giochi testuali a quel livello.
Ecco una cosa difficile da immaginare: essere uno scrittore così creativo che, quando muori, il linguaggio ne rimane impoverito. Questo è ciò che ha compiuto il suicidio di Wallace, due anni e mezzo fa. Non è stata solo una cosa triste, è stato un colpo durissimo.
° ° ° ° °
È difficile fare il classico paragrafetto biografico su Wallace per lettori che, in questo scenario mediatico soprassaturo, non sapessero chi è stato o perché fosse importante, perché ti torna continuamente in mente il suo racconto La morte non è la fine, in cui faceva la parodia del modo in cui si scrivono i paragrafi biografici sugli scrittori, con la lista delle loro onorificenze e quant’altro, lista che diventa sempre più inesplicabilmente ridicola quando si elencano i nomi dei premi vinti, e capisci come Wallace stia scavando dentro la solita stupidità auto-incensante del mondo letterario americano: “una Lannan Foundation Fellowship, [...] un Mildred and Harold Strauss Living Award dell’American Academy e dell’Institute of Arts and Letters… un poeta che due diverse generazioni hanno acclamato come la voce della propria generazione.” Lo stesso Wallace aveva ottenuto molti dei premi di quella lista, come il ‘Genius Grant’ della prestigiona Fondazione MacArthur. Tre romanzi, tre raccolte di racconti, due libri di saggi, la cattedra Roy E. Disney di scrittura creativa al Pomona College.
Quando dicono che Wallace era uno scrittore generazionale, che “parlava per una generazione”, c’è un modo in cui questo è quasi scientificamente vero. Tutto quello che sappiamo su come la letteratura viene prodotta suggerisce che c’è un legame tra il talento individuale e la società che lo produce, l’organismo sociale. Le culture generano geni come un alveare trova una nuova ape regina quando la vecchia muore, ed è facile ora vedere Wallace come uno di questi geni. Ho il ricordo, abbastanza netto da sapere che non è solo il senno di poi, di averne sentito parlare e poi di aver letto per la prima volta Infinite Jest quando avevo 20 anni, e la sensazione immediata: eccolo. Uno di noi sta provando a fare questo. Il “questo” stava per tutto questo, ossia il provare a catturare la sensazione di vivere in una superpotenza frammentata alla fine del ventesimo secolo. È arrivato qualcuno con un intelletto potenzialmente abbastanza forte per rispecchiare questo spettacolo e con una serietà morale abbastanza profonda da voler essere in prima linea. Non si può dire che nessuno dei suoi contemporanei – anche quelli che in quanto ad abilità potevano competere con lui – abbia rischiato un fallimento così grande quanto Wallace.
Gente che non ha mai letto una parola di quello che ha scritto riconosce il suo stile, i cosiddetti vezzi, un mucchio di giochi tipografici presi dal romanzo comico del diciottesimo secolo e ricontestualizzati: le note e le parentetiche scettiche, proposizioni che compulsivamente tornano sui loro passi, ammettendo la loro stessa debolezza. È vero anche che corrispondevano alle idiosincrasie del suo modo di parlare e pensare. (E lo sappiamo bene ora che tutti quei video su YouTube delle sue letture e interviste ci sono diventati familiari – anche un po’ stranamente: per qualcuno che chiaramente si contorceva come un insetto in trappola se posto sotto attenta osservazione, Wallace si sottometteva e si assoggettava a molte di queste situazioni. Aveva molte più foto pubblicitarie di altri sui colleghi. Non si può dire che non fosse una persona combattuta.)
Il punto è che il suo stile ha fatto molto di più che limitarsi a riflettere la sua forma mentis; era una espressione di una sensibilità insolitamente coerente. Wallace era un implacabile revisore e avrebbe potuto semplificare tutti quei paragrafi sintatticamente barocchi. Ma non credeva che il mondo funzionasse in quel modo. La verità, o la ricerca della verità, non gli sembrava fatta così. Era auto-critica – o meglio, un’auto-interrogazione – alla ricerca dei propri diversivi. Da questo punto di vista, è interessante notare che il New Yorker, che ha pubblicato alcuni dei suoi migliori pezzi di narrativa, non abbia mai pubblicato i suoi saggi. Non è un disonore per Wallace o per il New Yorker, è solo un fatto tecnicamente interessante: non avrebbe saputo cambiare la sua voce per adattarsi allo stile tipico della testata. Lo “stile sobrio” si basa sul cancellare la propria presenza come scrittore e invocare una sorta di invisibile autorità narrativa, con l’idea che la personalità e la mente dell’autore sono manifeste in ogni riga, senza il cattivo gusto di dire al lettore quello che sta succedendo. Ma l’incessante strategia del parlare in prima persona di Wallace non deriva dal narcisismo, assolutamente no – era invece un segno di testardaggine filosofica. (Suo padre, filosofo di professione, aveva studiato con l’ultimo assistente di Wittgenstein; lo stesso Wallace da studente aveva offerto un effettivo contributo intervenendo nel dibattito sul libero arbitrio – di recente pubblicato come Fate, Time and Language). Il suo punto di vista sullo stile sobrio era che il suo scopo, alla fin fine, fosse solo quello di vendere qualcosa al lettore. Non in senso volgare, ma in quello retorico. La caratteristica moderazione della rivista, per quanto possa piacere, è una sorta di cuneo fascista che cerca di farti dimenticare i suoi problemi, le mezze verità, le decisioni arbitrarie, e di farti digerire un inesistente sigillo di autorevolezza. Wallace non avrebbe mai potuto escludere se stesso o i suoi articoli dall’insieme delle cose soggette ad un esame scrupoloso.
L’unica volta che l’ho incontrato, ad un rinfresco prima di una lettura, riuscii solo a biascicare qualche frase convenzionale del tipo “ammiro il suo lavoro” etc. Ma l’impressione visiva mi ha segnato fortemente, perché in quella atmosfera da cocktail party (Tom Wolfe era a tre metri da noi, nel suo vestito bianco), Wallace sembrava la persona più fisicamente a disagio che abbia mai visto. Se vi è mai capitato, ad un certo momento nella vostra vita, di essere intrappolato in una stanza di una casa di montagna con un animale selvaggio, un procione o una lince, ecco a cosa somigliava Wallace, pietrificato in quel modo. Aveva un sorriso sul viso come se stesse aspettando che qualcuno gli stesse per dare un pugno. Allo stesso tempo era educato e faceva spallucce quando ti parlava. Tutti erano vestiti elegantemente tranne Wallace, che portava una sorta di camicia da contadino russo ed era nella fase “ho i capelli lunghi come una signora, ma anche la barba”. Gli dava un’aria da barbone, uno che aveva visto una tavola piena di cibo e avesse deciso di unirsi alla festa. Tuttavia quando salì sul palco alla fine, insieme a George Plimpton e Seymour Hersh tra gli altri, non solo fece la sua parte, ma riuscì anche ad incantare il pubblico e più di una volta dovette interrompersi per far calmare le risate, pronunciando quelle vocali così rotondamente nasali.
Il suo stile era regionale in molti sensi – ad esempio nella scrupolosità dell’uso della lingua. Solo nel Midwest perdono tempo nella grammatica in una chiacchierata tra amici; da nessun’altra parte, quando chiedi “Posso avere un the freddo?” ti rispondono “Non saprei… puoi?” E Wallace si considerava in qualche modo uno scrittore regionale – altrimenti non avrebbe permesso a Marion Ettlinger, la fotografa per eccellenza degli scrittori arci-famosi, di scattare quella foto di lui con il trench che sorride in maniera ironica accanto ad un campo di grano ondeggiante. Come disse nel saggio che lesse quella sera, sapeva di provenire da un paesaggio “la cui vuotezza è al tempo stesso fisica e spirituale.” Il vero “massimalismo” del suo stile, che i detrattori trovavano auto-indulgente, sembrava suggerire un ambiente con molto spazio da riempire. In uno dei suoi primi saggi – sul giocare a tennis nella zona dei tornado – mitizza il suo rapporto con le pianure:
Amavo la precisa relazione delle linee rette più di ogni altro ragazzino con cui sia cresciuto. Penso che sia perché loro erano nativi del luogo, mentre io mi ci ero trasferito quando ero piccolissimo da Ithaca, che era dove mio padre aveva ottenuto il Dottorato. Perciò, quello che avevo conosciuto, seppure nella maniera orizzontale e semiconsapevole di quando si è bambini, era qualcosa di diverso: le alte colline e i tortuosi sensi unici dell’interno dello stato di New York. Sono abbastanza sicuro che conservai quella poltiglia amorfa di curve e dossi in controluce laggiù in qualche anfratto lucertolesco del mio cervello, perché i [...] bambini con cui giocavo e facevo la lotta, ragazzini che non conoscevano e non avevano conosciuto niente di diverso, non vedevano nulla di assoluto o nuovi-mondesco nella disposizione planare dell’area cittadina [...]
Nuovi-mondesco: era come se Wallace diventasse informale quando abbandonava il rigore e traeva delle conclusioni che non erano propriamente difendibili – un modo per averti dalla sua parte.
Probabilmente si tratta dell’unico scrittore notoriamente “difficile” che non abbia quasi mai scritto una pagina che non fosse piacevole, o almeno interessante, da leggere. Ma era il tema della solitudine, un tipo particolare di solitudine postmoderna, satura di informazioni, che, più di tutto, attirava folle ai suoi reading che per dimensione e livello di eccitazione erano più simili a ciò che si può vedere ai concerti di una nuova band in un negozietto di dischi. Molti dei lettori di Wallace (cosa che ora è facile da vedere visto che ognuno di loro ha scritto un messaggio di apprezzamento da qualche parte su internet) credevano che stesse parlando a loro nei suoi testi – che fosse una delle poche persone al mondo che potesse aiutarli a navigare in una nuova spiritualità selvaggia, in cui ogni possibile sorgente di consolazione è stata annullata. E Wallace stava parlando a loro; la sua innata consapevolezza gli impediva di sottrarsi interamente al suo ruolo di saggio. In questo senso possiamo capire le sue frequenti affermazioni, stranamente alla Pollyanna, sul presunto potere della narrativa contro il solipsismo, e cioè che solo nella letteratura sappiamo con certezza di avere “una profonda conversazione piena di significato con un’altra coscienza.”
Wallace sapeva che questo era un luogo comune. (Come dimostra il fatto che venne ripresa come una cosa da dire su di lui, negli articoli scritti dopo la sua morte.) La narrativa può solo sostituire il caos di un testo al caos di un discorso. Sostituisce gli specchi della stanza con altri specchi. Non voleva essere soltanto una cavolata, però; in più gli dava qualcosa da dire nelle interviste. Nei suoi libri, un’idea così leggera non sarebbe mai sopravvissuta alle tempeste fulminanti della sua analisi panottica. È proprio come in Caro vecchio neon, la storia di un ragazzo dell’elite dorata che si uccide, ricordata dal suo compagno di classe, David Wallace, che è “pienamente cosciente che il cliché secondo cui non si può mai veramente sapere quello che avviene nella testa di qualcun altro è vecchio e insulso, ma al tempo stesso cercava molto coscientemente di impedire a quella consapevolezza di farsi gioco di quel tentativo o di spedire tutta quella linea di pensiero in quella spirale ripiegata su se stessa che non ti permette di andare da nessuna parte.”
° ° ° ° °
Si sente che in qualche modo Wallace non riusciva a risparmiarsi nessuna di queste spirali tortuose. Anche se tendeva a tenerlo per sé quando era in vita – sappiamo che aveva sofferto di depressione clinica e disturbi d’ansia da quando era adolescente e che aveva combattuto coraggiosamente per tutto quel tempo contro la chimica del suo cervello. Con la sua morte abbiamo perso uno scrittore che ha tenuto la scena della letteratura americana in uno stato di flusso energizzante, perché lui si metteva sempre in gioco e, tecnicamente parlando, si era dimostrato capace di quasi qualsiasi cosa. L’ultima raccolta di racconti pubblicata da lui in vita, Oblio, non a torto è considerato il suo libro più cupo e meno divertente, ma contiene storie che mostravano una nuova maestria e concisione, compreso il capolavoro in un paragrafo di Incarnazioni dei bambini bruciati. La nozione che Wallace non avesse altri capolavori dentro di sé sembrava insensata, come la predizione un cambiamento nelle leggi della natura.
Ci aiuta sapere tutto ciò, o sapere ad ogni modo che c’è un popolo di persone che prova la stessa cosa, se vogliamo capire il frastuono che si è creato intorno a Il Re Pallido, il romanzo che Wallace ha lasciato incompiuto, e che ora è stato pubblicato da Little, Brown. Voci di un romanzo incompiuto avevano incominciato a girare subito dopo la sua morte, e possiamo anche dire che negli ultimi anni i lettori fedeli erano rimasti aggrappati a questa promessa di un nuovo libro, quasi come un modo per difendersi dalla realtà e dalla violenza di quello che era accaduto. Un po’ del dolore collettivo per l’uomo si era sublimato nell’eccitazione per il nuovo libro. Mi sono sorpreso anche io, mentre finivo la mia copia per la recensione, di sentirmi mancare il fiato al pensiero – a lungo rimandato – che non ci sarebbero stati più nuovi libri di Wallace. Di sicuro ci offriranno ancora un bel mezzo scaffale di volumi: le sue lettere, la roba non raccolta in precedenza, “il meglio di”, la raccolta delle opere. Ci può stare.
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Il Re Pallido è diverso. Questo libro ce lo ha lasciato – le persone più vicine a lui sono d’accordo nel dire che voleva che lo vedessimo. Non si tratta quindi, in altre parole, del classico caso di Gran Romanzo Postumo, in cui dei professori vanno a stanare un manoscritto che l’autore probabilmente non voleva che leggessimo. Sembra che Wallace abbia lasciato questo libro dicendo qualcosa del tipo “fatene ciò che volete”. A quanto pare uno dei suoi ultimi gesti in vita è stato di ordinare le pagine già pronte da leggere e metterle in un posto dove la moglie, l’artista Karen Green, le avrebbe trovate. Dai suoi appunti si è risaliti a dei capitoli parziali, che il suo editor storico Michael Pietsch ha messo insieme creando una specie di bozza di romanzo come doveva apparire nella testa di Wallace – più rifinito in alcune parti, meno in altre. Pensate ad un murale finito a metà. Il Re Pallido (titolo che potrebbe riferirsi ad un’espressione popolare del diciannovesimo secolo, “il re pallido dei terrori” ad indicare la paura malinconica della morte) tratta la storia di un gruppo di persone che lavora in un palazzo dell’Agenzia delle Entrate nell’Illinois. Alcuni dei personaggi si relazionano tra loro in diversi modi, mai banalmente consequenziali. Due di loro si chiamano David Wallace. E questa è la trama. Non va mai avanti [3]. Non inizia praticamente mai.
Non c’è da vergognarsi se vi viene il sospetto che un libro su un gruppo di persone a caso che lavorano per il governo possa sembrare una cosa insopportabilmente noiosa. La ragione per cui non lo è però ha che fare con la parola su – non è il termine esatto, né la giusta preposizione. Wallace non scrive sui suoi personaggi; non lo ha fatto per quasi mai. Lui ci scrive dentro. Le cose che riesce a fare su un campo da tennis o in una crociera, o a una convention sulla pornografia, lo hanno reso una fonte di ispirazione e allo stesso tempo di invidia folle per il genere di persone che, come me, ha imparato a fare ”scrittura per riviste” alla sua ombra (era il genere di scrittore che anche quando non cercavi di copiare il suo stile ti faceva pensare a come non stavi cercando di copiarlo) – a Wallace piaceva fare così, nei romanzi, con le vite interiori dei suoi personaggi.
Immaginate di entrare in un posto, diciamo un’immensa copisteria di un grande magazzino. È mattina presto e siete il primo cliente. Vi fermate sotto le luci accese fosforescenti e lasciate che le porte si chiudano scivolando alle vostre spalle, osservate i commessi nella loro divisa con la camicia blu, le bocche aperte, che girano per il negozio ancora assonnati. Prendeteli come un’immagine unificata, con una vaga superficie impenetrabile di noia e insoddisfazione di cui siete contenti di non far parte, e partite per il vostro obiettivo, fare delle fotocopie o quello che sia. Ecco il momento in cui Wallace preme il pulsante di Pausa, quel breve istante in cui voi accendete la disattenzione, e vi concentrate in voi stessi. Lui porta indietro quel momento, e preme Play di nuovo. Adesso è diverso. Vi trovate in una stanza con un gruppo di esseri umani. Ognuno di loro è come voi, è stato ferito ed è guarito in modo strano. Ognuno di loro, anche il più superficiale, ha un romanzo dentro sé. Ognuno di loro è amato da Dio, o merita di esserlo. Hanno tutti qualcosa a che fare con te: quando lasci che la membrana della consapevolezza diventi porosa, l’osmosi è possibile, sapete che è vero, abbiamo tutti a che fare l’uno con l’altro, siamo parte di una narrazione – ma quale? Wallace vuole assolutamente scoprirlo. E capiva che il mondo moderno ci bombardava con scenari come quello della copisteria, in cui è molto facile scordarsi di questa domanda. Ci sentiamo “soli nella folla”, scrive in uno dei suoi racconti, ma non “ci fermiamo a pensare a cosa abbia dato vita a quella folla,” con il risultato che “siamo, sempre, volti in mezzo a una folla”.
Ecco cosa adoro in Wallace, questi dettagli osservati così bene, microdescrizioni di stati d’animo di intere ramificazioni del super-sistema sociale, frasi che mi fanno sentire come: “Se non lo capisci vuol dire che vivi in un altro mondo”. Era la cosa più simile ad un angelo custode che abbiamo mai avuto. Ci sono paragrafi in Infinite Jest in cui riesce ad intrappolare certe cose, qualità sfuggenti di nostri “momenti”, cose che non siamo sicuri che gli altri sentano, ma abbiamo il sospetto che forse sia così. Leggere quei passaggi è come guardare lo svilupparsi dell’inconscio collettivo su una lastra a raggi-X:
Con il braccio fuori dal finestrino come un tassista, Gately sfreccia nel territorio della Boston University. Nel territorio degli zainetti personalizzati e delle tute sportive firmate. Ragazzini senza barba con gli zaini e i capelli ritti e duri sulla testa e fronti spianate. Fronti completamente prive di rughe e di pensieri, come la crema di formaggio o le lenzuola stirate. [...] Gately ha le rughe sulla fronte da quando aveva dodici anni. [...] Sembra che le ragazze della Boston University non abbiano mangiato che prodotti caseari in tutta la loro vita. Queste ragazze fanno l’aerobica step. Hanno capelli lunghi puliti e spazzolati e belli. Non hanno nessun tipo di dipendenza. La strana sensazione di disperazione nel cuore del desiderio.
Il Re Pallido ha molto in comune con Infinite Jest, che pure si occupa di un gruppo di persone, unificate in maniera circostanziale – in questo caso i residenti di una casa di recupero per tossicodipendenti, o gli studenti di una accademia di tennis – si immerge nelle loro vite, creando alla fine una sorta di ruota di storie interconnesse tra loro. Ma Il Re Pallido non ricorda esattamente Infinite Jest, non ce lo fa tornare in mente, diciamo. Leggendolo si sente quanto Wallace era cambiato come scrittore, si era compresso ed era sprofondato dentro di sé. Ci sono diversi personaggi, e alcuni che possono essere definiti come personaggi principali. Come Claude Sylvanshine. Un veggente dei dati. Sa cose sulla gente, ma queste conoscenza si manifesta come piccole esplosioni di informazioni disconnesse, che non riesce a fermare. (Wallace presta parti di se a diversi personaggi, e talvolta i loro tratti si confondono). Troviamo Lane Dean Jr., che è stato un cattolico fervente ai tempi delle superiori. E Meredith Rand, la bella dell’ufficio – il resoconto passo-dopo-passo di cosa succede in una tavolata di uomini e donne (in questo caso in un bar dove i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate si ritrovano dopo il lavoro) quando arriva una persona estremamente attraente è allo stesso tempo doloroso e dotato di humor nero, un esempio di quello che cercavo di descrivere come il suo potere di osservazione, e di come doveva essere scoraggiante il trovarsi chiuso nella testa di Wallace, non nel senso della malattia, ma della sua chiarezza:
Basti dire che Meredith Rand mette i [...] maschi in imbarazzo. O si innervosiscono piombando in un silenzio impacciato, come se partecipassero a un gioco in cui la posta è diventata improvvisamente altissima, oppure si scioglie loro la lingua e vogliono dominare la conversazione e si mettono a raccontare un mucchio di barzellette, e in generale sembrano volutamente privi di imbarazzo, mentre prima che Meredith Rand arrivasse, prendesse una sedia e si unisse a loro, volontà e imbarazzo erano totalmente estranei al gruppo. Le liquidatrici, da parte loro, reagiscono a questi cambiamenti in una varietà di modi: alcune si ritraggono rimpicciolendo visibilmente (come Enid Welch e Rachel Robbie Towne), altre osservano l’effetto che Meredith produce sugli uomini con una specie di cupo divertimento, altre ancora sprizzano antipatia e diventano inclini a sospiri ostili se non addirittura a fughe plateali. [...] Alcuni liquidatori, al secondo bicchiere, danno spettacolo per Meredith Rand, anche se il succo dello spettacolo sta in una complessa ostentazione del fatto che non stanno dando spettacolo per Meredith Rand, anzi, non si sono quasi nemmeno accorti che è a quel tavolo. Bob McKenzie, in particolare, per poco non dà i numeri, rivolge quasi ogni commento o battuta alla persona che sta a destra o a sinistra di Meredith Rand [...]
Immaginate di essere capaci di queste dissezioni, con quella risoluzione dei dettagli – come primati, se preferite – e, il che è peggio, non essere capaci di smettere. Bisognerebbe avere delle enormi quantità di empatia per riuscire a fare in modo che il mondo non si trasformi in un continuo assalto dai grotteschi toni swiftiani. Wallace non provava a rifuggirne – lo coltivava, come la sua arte richiedeva. C’è da ricordare i rischi psichici dello scrivere ai livelli che lui cercava. Come tutte le persone perbene, sono tra quelli che vogliono resistere alle tentazioni di definire il suo suicidio un gesto romantico, ma resta la sensazione che gli artisti siano esposti ai torrenti del tempo in un modo che non può che causare danni, e non c’è nulla di sbagliato nel definirlo come nobile, se fatto al servizio di qualcosa di bello. Wallace ha pagato per aver viaggiato così in profondità in se stesso, per non aver mai distolto gli occhi fino a quando era necessario per scrivere passaggi come quelli che abbiamo citato, per aver trovato gli altri interessanti tanto da dedicargli l’attenzione che serve per riuscire a scrivere scene come quelle. Ecco la ragione per cui la maggior parte di noi non riesce a scrivere un grande romanzo e neanche uno decente. Bisogna lasciare entrare una gran quantità di consapevolezza altrui nella nostra. È un male per il proprio equilibrio.
La scelta di Wallace dell’Agenzia delle Entrate come ambientazione ha senso se consideriamo che stava cercando di fare qualcosa di teologico con questo romanzo, e il ”servizio”, come lo chiamano gli impiegati, offre delle opportune sfumature gesuitiche. Usa l’Agenzia delle Entrate come Borges usava la biblioteca e Kafka i palazzi della legge: come un’analogia del mondo. Insinua un legame tra lo spostamento sotterraneo della politica dell’Agenzia delle Entrate che si trasforma da un’agenzia che ha il compito di raccogliere le tasse (cioè mettere in atto la legge) ad un ente che cerca di massimizzare il profitto, o come Wallace spiega in una nota a margine lasciata sul manoscritto, “Il vero problema è se l’Agenzia delle Entrate debba essenzialmente essere un’entità aziendale o morale”. Attraverso sottili ammiccamenti (tirando in ballo oscure cause civili), Wallace collega la nozione che l’Agenzia delle Entrate stia diventando un’azienda, all’idea, introdotta nella vita americana alla fine del diciannovesimo secolo, che agli occhi della legge, una grande azienda sia la stessa cosa che un individuo, con gli stessi diritti. Wallace non è arrivato a completare tutta l’opera, ma ci basta per capire che una versione completa de Il re pallido avrebbe operato in una logica simbolica in cui, se Agenzia delle Entrate=grande azienda, e grande azienda=individuo, allora Agenzia delle Entrate=individuo. L’agenzia sarebbe diventata una metafora per tutta l’anima politica americana.
Il romanzo ripete certe mosse, zoomando nell’infanzia o gioventù di certi personaggi, che incontriamo da adulti in altre parti del libro, nell’orbita dell’ufficio dell’Agenzia delle Entrate. La complessità dei personaggi si sviluppa in giustapposizione con questi scorci delle loro versioni giovanili. Wallace sta cercando di farci capire che siamo tutti complicati, che quando le persone ci sembrano stupide e sciocche, siamo noi che non stiamo facendo abbastanza attenzione, è la nostra innata testarda tendenza a vedere le altre persone come personaggi minori o maggiori nella nostra storia.
È facile farlo sembrare un libro pesante, ma invece spesso è divertente, e non sempre in maniera educata. Incontriamo il super ottimista Leonard Stecyk, con un “sorriso così largo da apparire quasi doloroso”, una versione di qualcuno che ognuno di noi conosce o forse anche è in qualche misura. Da bambino era così altruista che tutti quelli che incontrava non potevano che odiarlo. ’Un’insegnante nella cui aula il bambino propone un progetto di riorganizzazione per i ganci appendiabiti e gli armadietti delle scarpe che tappezzano una parete [...] finisce col brandire le forbici smussate minacciando di uccidere prima il bambino e poi se stessa.” (Non vi rovinerò una bella scena dicendovi cosa l’insegnante di tecnica alle superiori pensa di lui.)
Tristemente, è attraverso questo aspetto del libro – il salto avanti e indietro tra il passato recente (all’Agenzia delle Entrate) e il passato più lontano (gli anni formativi dei personaggi) – che arriviamo a capire cosa l’editore intenda per romanzo ”incompiuto”. Lo schema non funziona. Anzi è quasi assente. Wallace ha faticato per comporre i temi di queste vite in maniera sinfonica, ma non c’è riuscito o, per dirla tutta, non c’è nemmeno arrivato vicino.
Eppure anche in questo stato frammentario, Il re pallido contiene quello che di sicuro è la migliore narrativa di quest’anno. È arduo descrivere la perfezione di alcuni di questi pezzi, tra cui il capitolo (pubblicato sul New Yorker) in cui Lane Dean Jr. cerca di capire se ama o meno la sua fidanzata del college, Sheri, che aspetta un figlio da lui. Se le dice che la ama, lei lo terrà, e passeranno il resto della vita assieme (come poi succede). Nessuno dei due ha però la minima idea di cosa sia l’amore o come interpretare l’uso di questa parola da parte dell’altro: si stanno basando su di una cattiva traduzione. Ma quello che diranno in questo momento determinerà le loro vite. Wallace tratta questa scena d’amore adolescenziale con enorme serietà e fedeltà alla consapevolezza emotiva, tanto da darle una grandezza degna di Madame Bovary. Piccoli dettagli descrittivi che gli sono congeniali sono disseminati ovunque – ad esempio che le figure nel foglio laminato con le istruzioni di sicurezza dell’aereo hanno “braccia incrociate in maniera funeraria”, o che dal finestrino dell’aereo il traffico sembra scorrere “con un pathos futile e senza senso di cui non ci si accorge da terra”. Questi non sono passaggi vistosi. Sono solo descrizioni stranamente precise delle cose che facciamo o vediamo. Entriamo dentro e riconosciamo l’ambiente degli uffici moderni: “La scrivania praticamente un’astrazione. Il sussurro di una climatizzazione priva di fonte”. Gli amici che si sono lasciati nelle cittadine vengono immaginati “vendersi assicurazioni tra di loro, bere liquori del supermercato, guardare la televisione, aspettare la formalità del primo infarto.” Michael Pietsch, l’editor del libro, mi ha indicato un capitolo surreale sul finale, dove Lane Dean Jr., ormai adulto e impiegato dell’Agenzia delle Entrate, ha una conversazione con uno degli spiriti di agenti morti che girano per gli uffici. Pietsch definisce questo passaggio “pienamente fiorente”, e “densamente intricato e fitto come niente di quello che aveva scritto prima”. Un tour de force in miniatura, nemmeno venti pagine, tutto dialoghi, che ricorda in alcune parti il capitolo “Nighttown” dell’Ulisse. Quando ho chiesto a Pietsch come si immaginava che Il re pallido sarebbe stato completato, mi ha risposto “Un libro in cui anche altri capitoli sarebbero stato così ricchi e fitti come questo”, ossia un libro che ci mancherà in maniera fervida.
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Le pagine più interessanti ne Il Re Pallido – che dominano in modo interessante il romanzo – hanno a che fare con l’infanzia della giovane Toni Ware, un personaggio che appare raramente nelle parti del romanzo sull’Agenzia delle Entrate. Resta nella periferia; Wallace non era ancora arrivato a lei. Ma i capitoli sui suoi ricordi di come era cresciuta in uno spettrale parco per roulotte, con una madre malata di mente che portava a casa una serie di fidanzati molesti, sono dei pezzi di prosa formidabili. In più, non somigliano a niente di ciò che Wallace aveva scritto prima. Non trovando parole migliori, potremmo dire che sono privi di coscienza di sé. Wallace si lascia scrivere nel modo in cui i grandi scrittori fanno, nel momento in cui le storie non hanno tempo per i tuoi stessi sofismi interiori. Se è vero, come è stato detto, che Wallace non riusciva con Il Re Pallido a trovare un altro livello per andare oltre Infinite Jest, forse lo trova almeno in questo pagine.
Viaggiarono ancora una volta di notte. Sotto una luna che sorgeva rotonda davanti a loro. Quello che veniva definito il sedile posteriore del furgone era una stretta mensola sulla quale la ragazzina poteva dormire se metteva le gambe nel vuoto dietro i veri sedili posteriori i cui poggiatesta possedevano il lucore opaco dei capelli sporchi. Il disordine e la puzza di lievito indicavano che in quel furgone qualcuno ci abitava o ci aveva abitato; il furgone e il suo uomo avevano lo stesso odore. La ragazzina con la maglietta di cotone e i jeans sbiaditi alle ginocchia. La concezione che la madre aveva dei maschi era che li usava come una fattucchiera gli animali, quale segno e oggetto dei suoi poteri soprannaturali. La parola che usava per loro, a cui la ragazzina non obiettava, era: “familiari”. Mori con le basette che succhiavano fiammiferi di legno e schiacciavano lattine con le mani. Di cui le falde dei cappelli avevano righe di sudore come anelli degli alberi. I cui occhi ti strisciavano addosso nello specchietto retrovisore. Uomini che era inconcepibile fossero mai stati a loro volta bambini o avessero guardato nudi dal basso in alto qualcuno di cui si fidavano, con un giocattolo. Ai quali la madre parlava come fossero dei poppanti facendosi trattare come una bambola senza testa: bistrattare.
A volte, anche nel mezzo della bellezza o del terrore, c’è un’ondata di parodia o di pastiche nelle sezioni con Toni Ware. Wallace sembra prendere in giro il peggior Cormac McCarthy, l’incorreggibile McCarthy che, quando vuole scrivere “funghi velenosi” scrive “funghi con strombature dentellate e membranose sotto cui i rospi pare facciano la siesta.” Wallace fa ricordare a Toni Ware i ragazzi che “portavano grossi cappelli spiegazzati e lacci di cuoio al collo e certi sfoggiavano turchesi sulla persona, e uno l’aveva aiutata a svuotare il serbatoio sanitario della roulotte pretendendo poi in cambio un rapporto orale.” Questa strana incertezza di tono è accresciuta quando il passato atroce di Toni ricorre successivamente nel libro, ma questa volta con il tono di un altro personaggio, che inizia con “La mamma di Toni era un po’ fuori di testa…blah, blah”, come se la storia di ognuno di noi non fosse che una questione di tecnica. Tuttavia questo passaggio a prima vista frivolo, successivamente scivola di nuovo nello stesso stile in terza persona, e ci riporta alla pagina più memorabile del libro, la scena della morte della mamma di Toni. Come se Wallace non riuscisse a resistere a questa nuova voce. Forse possiamo concludere che la sua era una ricerca di qualcosa di più soddisfacentemente convenzionale, di più adulto, nel suo lavoro, e che questi capitoli siano solo lampi entusiasmanti di un nuovo Wallace, tragicamente mai nato…
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Aspettate un attimo – stiamo parlando di David Foster Wallace. Le cose non possono essere così semplici, e tanto meno così melense. Ovviamente subito dopo l’ultima frase del capitolo su Toni Ware, come per punirci per il fatto che ci sia piaciuto più del resto del libro, Wallace fa una cosa che può essere descritta come un vero e proprio schiaffo sul torace. Dopo averci servito una dose di virtù vecchio stampo, pagine e pagine di scrittura di tipo classico, entra nel capitolo più arci-meta, più fitto di note, ammiccante e consapevole di esserlo, intelligente che la metà bastava, ubriacante con trucchetti da post-modernismo che abbia mai scritto. È qualcosa di perverso, come se Wallace ci ascoltasse, nella sua testa, scrivere la stessa lettera che lui ha scritto a Eggers per L’opera struggente di un formidabile genio e che Eggers ha messo nel retro di copertina come citazione e che dicevano, in parte, “Ho ammirato i molti inebrianti pezzi comici post-moderni,” ma “le parti in cui ti sei lasciato andare e hai costruito dei madrigali dolorosi [...] sono le parti più artistiche del libro.” Riesce a sentire che gli diciamo qualcosa del genere, subito dopo che il pezzo su Toni Ware ci ha distrutto, e lui ci risponde, molto enfaticamente, “Scusami ma questo problema del testo è proprio parte di quello che sto cercando di dire. Senza di questo starei suonando musica da camera.”
Saranno i critici del futuro a dibattere sui meriti estetici di questa decisione. Wallace di certe non era per niente tranquillo su questo punto. Spesso mentre leggevo Il Re Pallido mi sono tornati in mente dei pensieri riferiti al saggio che ha scritto su Dostoevskij:
[Questa nuova] biografia ci spinge a domandarci come mai sembriamo richiedere alla nostra arte di tenere una distanza ironica da profonde convinzioni o domande disperate, costringendo cosí gli scrittori contemporanei a ridicolizzarle o a cercare di farle passare camuffandole con qualche trucco formale come citazioni intertestuali o giustapposizioni incongrue, relegando le cose veramente pressanti fra asterischi, come parte di qualche artificio polivalente di defamiliarizzazione o qualche altra cagata del genere. La povertà tematica della nostra letteratura si spiega ovviamente in parte con il nostro secolo e la nostra situazione.
È quasi come se stesse descrivendo Il Re Pallido. Come se avesse dentro la testa un critico ostile che odia il suo lavoro. Tutti gli scrittori hanno queste voci, ma in Wallace erano praticamente personalità aggiunte. Nel capitolo-trabocchetto ci viene detto che il romanzo che stiamo leggendo è in realtà un “libro di memorie in prima persona”, la vera storia di un uomo che si chiama David Foster Wallace. E c’è anche un altro personaggio nel libro che si chiama David F. Wallace. Come anche uno che si chiama David Cusck, che condivide tante cose, biograficamente, con il vero David Foster Wallace.
Non si tratta semplicemente di trucchi da giocoliere. E non è nemmeno una questione di cosa intendesse veramente Wallace, visto che non sappiamo cosa intendeva. Michael Pietsch ha fatto un lavoro egregio come editore – da lettori gli dobbiamo molto – ma non c’era molto da editare. Sarebbe disonesto dire altrimenti. La prosa non arriva mai a possedere quello che Poe chiamava “unità di impressione” nel modo in cui Infinite Jest, nonostante la struttura a matassa, ci riusciva, o ci riusciva a tratti. In più c’è la questione della pubblicazione postuma. Ti priva di quella sensazione di piacere, che si ha mentre si legge, di essere in dialogo con le decisioni dell’autore, dando i propri giudizi e allo stesso tempo provando l’eccitazione di esserne testimone, che è parte dell’emozione creata dai libri. Qui non sai quali sono queste decisioni. Ogni parola che leggi e che non ti piace pensi “Beh, l’avrebbe cambiata.” Mentre tutto quello che funziona, quello diventa il vero Wallace. Ma anche le scelte principali, come cosa usare come finale del romanzo, sono state fatte, per necessità, non da Wallace, ma da Pietsch. “Non c’era un sommario o una sequenza dei capitoli”, mi ha detto, “e nemmeno un’indicazione di cosa doveva essere il capitolo iniziale e finale.” A questo punto la questione se questo sia o meno “un romanzo di Wallace” rimane irrisolvibile.
Se volessimo un altro finale, potremmo dire una cosa: Il Re Pallido, per come lo conosciamo, è vero rispetto a Wallace almeno per un aspetto importante. Era egli stesso incompiuto e irrisolto. C’è una bella poesia di Stevie Smith che si chiama “Era sposato?” in cui sostiene che gli uomini siano più eroici degli dei. Le difficoltà degli uomini sono più grandi, dice, “perché sono così contrastati.”. Wallace era così contrastato. Era ambivalente e in conflitto, tra le altre cose, con i diversi modi di scrivere il suo romanzo. Non era sicuro di quale preferiva, o come potessero andare bene insieme. E cosa sarebbe successo se quello a cui dava più valore non sarebbe stato quello che gli veniva più congeniale?
Mettere da parte queste contraddizioni avrebbe significato abbandonare la fonte della sua forza. Queste contraddizioni lo hanno salvato dal suo moralismo. Era uno scrittore che, in lotta per sollevarsi dal rumore del suo tempo, restava disperatamente parte di esso, sensibile alle sue voci anche mentre cercava di controllarle. La sua realtà, come scrisse una volta, era stata “MTVizzata”. Ecco perché, meglio di tutti, sembra parlare dall’interno di un tornado. (Un simbolo che lo ha inseguito in tutta la sua opera, e che ricompare ne Il Re Pallido). Ed è questa qualità, di essere diviso all’interno, che rischia di essere appiattita e cancellata via dalla sua storia dall’idolatria post-mortem, che lo vuole un distributore di saggezza. Dobbiamo proteggerci da questo. Perderemmo il Wallace più essenziale, quello che ammicca di continuo, riconsidera, spera di non aver detto quello che ha appena detto. Quelli erano i momenti in cui la sua voce era più autenticamente parte del nostro tempo, e sono la ragione per cui la gente un giorno sarà capace di leggerlo e sentire cosa significava essere vivi oggi.
L’opera di Wallace sarà considerata un grande fallimento, e non nel senso peggiorativo, ma nel senso speciale che usava Faulkner quando diceva dei romanzieri americani “Giudico la nostra opera sulla base del nostro splendido fallimento nel fare l’impossibile”. Wallace ha fallito in maniera stupenda. Non c’è nessun mistero sul perché gli venisse così difficile finire questo romanzo. Gli scorci che vediamo di quello che voleva che fosse – un vasto modello di qualcosa di piatto e schiacciante, dentro cui una costellazione di anime individuali avrebbe splenduto nella sua luminosità, e le connessioni che ci tengono tutti insieme in questo mondo si sarebbero anche loro accese, come filamenti – questo avrebbe dovuto essere un romanzo di un livello straordinario, e crediamo che lo scrittore nel pieno delle sue forze sarebbe stato abbastanza forte per riuscirci. Ma non sempre ha avuto la forza necessaria.

John Jeremiah Sullivan collabora da molto tempo con la rivista GQ, e recentemente anche con The New York Times Magazine e The Paris Review. È stato premiato due volte con il National Magazine Award. È autore di due libri, Blood Horses (FSG, 2004) e la raccolta di saggi Pulphead (FSG, 2011).

[1] Questa nota a piè di pagina non è soltanto un tributo, ma un annesso reale e difendibile a questo pezzo: avrei dovuto scrivere io il pezzo su Federer per Play, la rivista sportiva pubblicata per troppi pochi anni dal New York Times. Come Wallace, avevo giocato a tennis a scuola e continuavo a seguire questo sport. Era stato facile rispondere quando Play mi chiamò per dirmi che avevano accesso a Federer a Wimbledon. Tuttavia GQ non mi permise di farlo. A quanto pare avevo firmato qualcosa che il mio agente descrisse come un “contratto,” che mi impediva di scrivere per altre testate. In più, per correttezza nei confronti di GQ, da qualche mese non rendevo molto, avevo mandato all’aria un paio di pezzi e non potevo certo mettermi a discutere. Alla fine della discussione con quello che sarebbe stato il mio editor, e dopo avergli detto che non se ne faceva nulla, fui io a suggerirgli di contattare Wallace, che per me era come dire “perché non chiami la Casa Bianca?” L’editor si trovò molto in imbarazzo. Disse “Beh, a dire il vero abbiamo chiamato prima lui. E non poteva farlo”. In ogni modo, Wallace doveva aver cambiato idea. Diversi mesi dopo, c’era il suo saggio sul mio tavolo di cucina. Leggendolo provai sentimenti complessi. Ad un certo livello era gratificante vedere che aveva usato una chiave di lettura che anch’io avevo vagamente pensato di trattare, e cioè che la grandezza di Federer si trovava nel modo in cui sviluppava il suo gioco elegante a tutto campo dall’interno della spietata velocità e brutalità del gioco di potenza dalla linea di fondo. Ma Wallace lo aveva spiegato con un’accuratezza e una naturalezza che sapevo di non poter raggiungere o nemmeno considerare come possibile. In questa umiliazione c’era una certa strana intimità. Riuscii a sentire, per un breve e confuso istante, esattamente come il cervello di Wallace avrebbe trattato un soggetto che io avevo avuto nel mio, come nel vuoto, prima di sapere che lo avrebbe trattato lui. Ad ogni modo, questo è il mio contributo all’opera di Wallace, il suo ultimo pezzo per una rivista. Non voglio far sentire in colpa il lettore che starà pensando che il mondo delle lettere abbia solo guadagnato da questa sostituzione. Sto solo dicendo che è stato un piacere.
[2] Spesso Wallace preferiva queste situazioni. Ricordiamoci che si fece invitare sul set di un film di David Lynch rassicurando lo staff che non aveva nessuna voglia di intervistare il regista. All’inizio del 2008, GQ gli chiese di scrivere sui discorsi di Obama, o più in generale, sulla retorica politica in America. Ancora una volta era un’idea evanescente che gli veniva presentata, ma Wallace vide delle potenzialità, e noi cominciammo a chiedere informazioni allo staff di Obama che organizzava la campagna, e facemmo anche qualche prenotazione per lui perché andasse a Denver durante la convention. La nostra idea era di piazzarlo il più vicino possibile a coloro che scrivevano i discorsi (e quindi il più vicino possibile ad Obama stesso). Ma Wallace rispose, molto educatamente, che non era questo che lo interessava. Avrebbe voluto essere messo assieme con qualcuna delle “api operaie” del team che preparava i discorsi – per scoprire come il linguaggio fosse usato da, come la definì, “la nona persona in panchina”. E forse era per una questione di carattere che Wallace si trovava meglio a fare il reporter stando lontano dalle luci della ribalta.
[3] In verità qualcosa cambia. Ci sono momenti da paura, e ci sono sdoppiamenti. Appaiono dei fantasmi. Uno dei personaggi si scopre essere un veggente. Una nota alla fine del libro suggerisce che un team di agenti-X, in qualche modo, tutti dotati di qualità inusuali, si stia venendo a formare sotto la guida di un piccolo gruppo di supervisori. La storia è ambientata in un mondo in cui Bush, e non Reagan, è stato eletto nel 1980 (Reagan era il suo vice). Ma queste intrusioni di misticismo non creano problemi nella trama realistica del romanzo.

Governare la complessità (informazionale)

 da gbonaiuti (27 aprile 2012)
La bella recensione di Luca De Biase sull’ultimo libro di Howard Rheingold (Net Smart. How to Thrive Online) dedicato alla sfida che i nuovi media ci pongono, inizia con una considerazione indiscutibile: “Sul finire del Quattrocento, il sapere si tramandava con i manoscritti e in Europa ce n’erano 30mila. L’invenzione di Johannes Gutenberg scatenò un cambiamento radicale: in soli 50 anni dall’introduzione della stampa a caratteri mobili, in Europa circolavano più di 10 milioni di libri. E mentre qualcuno lamentava l’eccessiva e ingestibile quantità di informazioni anche di basso valore che erano state messe in circolazione con l’avvento della nuova tecnologia, la conoscenza scritta uscì dal territorio controllato dalle vecchie élite culturali. [...] Progressivamente l’Europa si dotò degli strumenti per gestire la conoscenza e organizzò un sistema educativo totalmente rinnovato. Ci vollero secoli. Oggi non abbiamo altrettanto tempo.
Rheingold affronta il problema di come fare uso degli strumenti online senza essere sovraccaricati da troppa informazione, ma qualcosa della sua ricetta potrebbe non persuadere del tutto. Il problema della complessità informazionale dell’epoca che stiamo vivendo (il diluvio informazionale, come lo ha definito Pierre Lévy riprendendo Royan Scott) rappresenta una vera e propria sfida per il nostro sistema cognitivo. La facilità con cui oggi è possibile produrre e distribuire informazioni nei diversi tipi (evidenze scientifiche, fatti, idee o semplici opinioni) e nei diversi formati (da quelli più tradizionali come il libro, la rivista o la televisione a quelli elettronici) rendono di fatto impossibile, per l’individuo – ma anche per un gruppo – il gestirle nella loro totalità. Lévy suggerisce l’esigenza di imparare a costruire un rapporto con la conoscenza completamente nuovo. Un rapporto in cui, abbandonata “la nostalgia di una cultura ben costituita, organica, totale” si possa finalmente arrivare ad una conoscenza in cui è necessario accettare i limiti del parziale e del provvisorio e dove solo l’intelligenza collettiva, ovvero il lavoro congiunto dell’individuo e del suo (piccolo) gruppo, possono contribuire a trovare i riferimenti, ad orientare a dare visibilità e trasparenza ad alcune conoscenze disponibili.
Il problema non è così semplice. Facebook, Tweeter ed altri strumenti sociali ci mostrano come il gruppo possa anche annodarsi attorno a discussioni futili, a rilanci estemporanei di frammenti di notizie, al dibattito autoreferenziale. Persino i “social reader“, gli strumenti che alcuni quotidiani hanno adottato per aiutare i propri lettori a contrastare il problema della moltiplicazione delle sorgenti (e della quantità) di notizie, non sembra possano aiutarci. La cura suggerita da Lévy, che sembra concretizzarsi bene in questi strumenti (che quotidiani come Washington Post, Wall Street Journal, Guardian e il Corriere della Sera hanno prontamente allestito), purtroppo non è in grado di combattere il virus della dispersività. Entri per leggere una notizia, magari hai una domanda ben precisa in testa a cui vuoi dare una risposta, e finisci impigliato nella rete dei rimandi e delle curiosità segnalate dagli amici. Se è vero che il leggere un articolo con sistemi di questo tipo crea dei sistemi di fruizione personali (la pagina si compone a partire dai propri interessi) il tirare in ballo gli amici (che sono lì, anche in tempo reale) e le comunità delle quali facciamo parte porta ad inseguire, potenzialmente senza sosta, le letture, i commenti e gli interessi degli altri.
Qualcuno (più di uno, per la verità) ha iniziato ad accusare la rete di contribuire non solo alla dispersione, ma anche ad una fruizione sempre più fugace ed effimera e quindi a forme diverso di conoscere rispetto a quelle del passato recente. Nicholas Carr (Internet ci rende stupidi?, Raffaello Cortina 2011) non sembra avere dubbi nel ritenere che i rischi siano maggiori dei benefici. La sua posizione è chiara: mentre il libro incoraggia il pensiero profondo e creativo, Internet favorisce l’assaggio rapido e distratto di piccoli frammenti di informazione. La posizione, in Italia, è stata da tempo discussa e sostenuta dal linguista Raffaele Simone (La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, 2000; La mente al punto. Dialogo sul tempo e il pensiero, Laterza, 2002). Le tecnologie elettroniche starebbero trasformando (in peggio) l’uomo riportando in auge modalità conoscitive antiche, pre-alfabetiche, il cui effetto più evidente sarebbe rappresentato dall’incapacità di organizzare ed articolare in maniera logica e consequenziale (che è il tipico apporto dato dalla cultura alfabetica). A parte le ragioni degli opposti schieramenti che vedono da una parte i detrattori delle nuove tecnologie e dall’altra i loro apologeti impegnati a sottolineare i vantaggi del pensiero olistico, reticolare e sincronico che deriverebbe, invece, dall’uso intensivo della rete (per una risposta a Simone si veda ad esempio Domenico Parisi) resta il dato oggettivo che:
  1. governare la crescente ed inesauribile quantità di risorse a disposizione è impresa tutt’altro che banale e;
  2. anche il solo passare rapidamente in rassegna i titoli di una tale quantità di risorse richiede tempo ed alimenta il senso di smarrimento e frustrazione.
Lo stesso Lévy sottolinea “vi dicono: potrete avere accesso a tutte le informazioni, alla totalità delle informazioni, ma è proprio il contrario: adesso sapete che non avrete mai accesso alla totalità“.
Quello che è certo, al di là della ragione e del torto delle diverse posizioni, ovvero di chi ritiene che i rischi siano maggiori delle potenzialità (o viceversa), è che non è possibile tornare indietro. Il progresso tecnologico non si ferma. Possiamo solo cercare di capire meglio e, conseguentemente, cercare di regolare i tempi e i modi di utilizzo, accettando la sfida. Imparare (e per quanti hanno compiti educativi, anche insegnare) ad utilizzare al meglio gli strumenti ovvero, riprendendo Rheingold, imparare a governare la complessità: «Se le persone non conoscono come funzionano i media sono travolte da torrenti di disinformazione, pubblicità, messaggi indesiderati, pornografia, rumore, sciocchezze di ogni genere». Per evitare che le informazioni ci sommergano e ci manipolino è cioè necessario «conoscere come funziona la nostra relazione con i media: come si conquista l’attenzione, come si invita alla partecipazione, come si sviluppa la collaborazione, come si legge criticamente l’informazione, come si usano attivamente gli strumenti della rete».
De Biase riprende ed approfondisce nel suo blog alcune delle soluzioni proposte da Rheingold come quella del dotarsi di “crap detector” (sensore di boiate) o del “fact checking” (verifica dei fatti), ovvero di strumenti intellettuali necessari per controllare la veridicità delle informazioni e dei fatti che vengono proposti dai media. La partita, in buona sostanza, si giocherebbe soprattutto qui: sulla capacità di vagliare e analizzare criticamente l’affidabilità dell’informazione. I criteri da seguire (o, conseguentemente, le capacità da sviluppare) sono molte, ma il compito – se fosse solo questo – non sarebbe impossibile. La capacità di guardare criticamente alle informazioni è una delle competenze chiave a cui anche l’insegnamento scolastico mira (o dovrebbe mirare).
C’è qualcosa di altro che varrebbe la pena di tenere in considerazione oltre all’indubbia esigenza di sviluppare la capacità valutare criticamente i materiali individuati grazie alla rete. Ed è, appunto, il problema della loro quantità e, ovvero come avvertiva Umberto Eco in anni non sospetti: “troppa informazione equivale a nessuna informazione”.
Facciamo un esempio. Anche rimanendo nel “ristretto” ambito delle fonti affidabili, ad esempio le riviste scientifiche (ISI o equivalenti), e restringendo ulteriormente il campo alle riviste di un determinato settore scientifico (ad esempio quello dell’insegnamento e apprendimento o, più specifico ancora, dell’educational technology), quante sono le fonti a livello mondiale e quante sono le persone che quotidianamente producono nuovi contributi? Centinaia? Migliaia? E quante nuove iniziative, grazie anche a movimenti come quello dell’Open Access, nascono all’interno di Università, centri di ricerca o semplici gruppi di lavoro? La facilità con cui è possibile aprire un blog (molti ricercatori hanno ormai il loro), creare un Open Access Journal o dare vita a spazi di raccolta online di contenuti digitali più che attendibili, spiazza il lettore sempre più sottoposto alla difficile scelta tra il seguire solo qualcosa (ad esempio dopo aver individuato tre o quattro riviste consultare solo quelle) o il disperdersi in una ingestibile quantità di contributi. Nel primo caso il rischio è quello di perdere qualcosa. Ci potrebbe essere una scoperta rilevante che qualcuno ha fatto da qualche parte nel mondo o, più semplicemente, evidenze utili per una argomentazione attenta. Limitarsi a consultare solo alcune fonti, fossero anche le più blasonate, sottopone al rischio di parzialità. Nel secondo caso, invece, il rischio è quello dell’inondazione di dati e ricerche che si incrociano, si ripetono, si contraddicono. In altre parole qui, è in gioco la possibilità di arrivare ad una sintesi.
Senza contare che oggi il 90% di quanto viene prodotto negli ambienti online decade solo dopo pochi giorni dopo alla sua pubblicazione. Le notizie sono fluide, gli autori dei blog rivedono, riscrivono, rispondono, rettificano.
Probabilmente potranno dare una mano sofisticati aggregatori, strumenti capaci di sostenere e implementare in maniera semi-automatica i processi di gestione della conoscenza personale (il così detto PKM – personal knowledge management).
Si fa sempre più urgente la disponibilità di strumenti dinamici – a disposizione di tutti noi (nativi o no) – per selezionare, aggregare, ritrovare le informazioni assieme a strumenti personali per archiviare.
Nel campo della ricerca, ad esempio, stanno facendo passi da gigante ambienti comeScience Direct dell’editore Elsevier o strumenti come ZoteroMendelyConnotea.
Ancora non risolvono del tutto il problema della gestione della complessità, ma rappresentano un primo rudimentale passo avanti per integrare e rendere automatica quella che è poi l’antico sogno dell’umanità di giungere a conoscenza certa – o quanto meno affidabile – dei fenomeni. Le ventiquattro ore della giornata, purtroppo, sono sempre quelle e una parte di questo tempo, oggi, se ne va anche nel testare (e poi usare) questi strumenti nella speranza che possano davvero aiutarci.
Bibliografia
Carr, N. (2011). Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello.Milano: Raffaello Cortina.
Cuban, L. (2001). Oversold & underused: Computers in the classroom. Cambridge, MA: Harvard University Press.
Davidson, C. N. (2011). Now You See It: How the Brain Science of Attention Will Transform the Way We Live, Work, and Learn (1st ed.). New York, NY: Viking.
Healy, J. M. (1998). Failure to connect: How computers affect our children’s minds—and what we can do about it. New York: Touchstone.
Oppenheimer, T. (2003). The flickering mind. The false promise of technology in the classroom, and how learning can be saved. New York: Random House
Rheingold, H. (2012). Net Smart: How to Thrive Online. Cambridge, MA: The MIT Press.
Simone, R. (2000). La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo. Bari: Laterza.
Simone, R. (2002). La mente al punto. Dialogo sul tempo e il pensiero. Bari: Laterza.
Stoll, C. (2001), Confessioni di un eretico high-tech, perché i computer nelle scuole non servono ed altre considerazioni sulle nuove tecnologie, Milano: Garzanti.

Intervista a HANS MAGNUS ENZENSBERGER

di Piergiorgio Odifreddi (L'Espresso 11.06.2004)
Animuccia, piú leggera dell'aria,
piú pesante che pietra su una tomba
con te è impossibile trattare,
impolitica come sei
e variabile come le previsioni del tempo!

H. M. Enzensberger


Immagine dahttp://www2.ttcn.ne.jp/~mdx22/enzensberger1.jpg
Hans Magnus Enzensberger è da qualche anno universalmente conosciuto in Italia, per due ragioni. Anzitutto, perché nel film Caro diario di Nanni Moretti è l'idolo di un intellettuale che non ha mai acceso la televisione, ma che alla fine si converte a Beautiful. E poi, perché un suo libro di matematica per bambini, Il mago dei numeri (Einaudi, 1997), è diventato un fortunato best-seller per adulti.

In Germania, invece, Enzensberger è noto da più di quarant'anni come poeta, filosofo, saggista, giornalista, inviato speciale, traduttore poliglotta, critico letterario, analista sociale e militante politico, oltre che per capolavori quali il romanzo La breve estate dell'anarchia (Feltrinelli, 1978) e il poema La fine del Titanic (Einaudi, 1990).

Il suo ultimo libro, Gli elisir della scienza (Einaudi, 2004), raccoglie una serie di poesie e saggi su temi che coprono l'intero arco delle discipline scientifiche (matematica, fisica, biologia, medicina, scienze umane e sociali). Per sentire le sue opinioni, spesso provocatorie, su questi argomenti siamo andati a intervistarlo nel suo studio a Monaco.
Il suo interesse per la scienza è inusuale per un letterato.
Me ne occupo ormai da quarant'anni. Da dilettante, naturalmente, perché non ho mai fatto studi approfonditi. Ma fa parte della mia cultura: non solo per dovere civico, ma per piacere, fascino, attrazione. E spesso ho l'impressione che i migliori cervelli stiano non tanto fra i miei colleghi scrittori, ma fra gli scienziati che incontro.
E che effetto le fa?
Insinua il dubbio che voi siate migliori di noi. E' un gioco rischioso, che però mi piace. Cosí come mi piacciono i poeti che sono (forse) più bravi di me, perché questo fa scattare la rivalità e la sfida: uno si crede un maestro, e poi scopre di essere un idiota rispetto ad altri molto più bravi di lui.
Non c'è anche un rischio letterario, per uno scrittore che ama la scienza?
Naturalmente, perché la letteratura moderna non ha gli strumenti stilistici o linguistici per trattare di certi argomenti. Le belles lettres si riducono ai sentimenti, il cuore, l'amore, la natura ... Però una natura che non corrisponde a quella delle scienze!
Nel suo libro lei parla di «anacronismo» dell'umanesimo.
Sí, perché in altri tempi le relazioni fra letteratura e scienze erano diverse. Tra scrittori come Lucrezio e scienziati come Galileo non c'era una separazione: è stata la specializzazione a crearla.
Calvino diceva che Galileo è il più grande prosatore italiano. Chi sarebbe l'analogo tedesco?
Direi Alexander von Humboldt. Ho appena finito di curare un'edizione in tre grossi volumi delle sue opere, che non erano più disponibili nonostante il loro valore: tutti parlano di lui, ma nessuno lo legge. Eppure è stato l'ultimo uomo universale tedesco: esploratore, pensatore, scrittore, poliglotta ... Ha scritto qualcosa come ventimila lettere, creando quasi una versione postale di Internet.
E quali sarebbero i Dialoghi di von Humboldt?
Il Kosmos, un ambizioso tentativo di descrizione totale del mondo naturale, basato sul lavoro di uno stuolo di collaboratori francesi, inglesi, statunitensi, messicani ...
Cosa pensa, invece, delle doti letterarie del grande matematico tedesco Leonhard Euler? In particolare, delle sue Lettere a una principessa tedesca?
Le ho lette! Appartengono a una tradizione subcutanea di divulgazione scientifica, sulla scia delleConversazioni sulla pluralità dei mondi di Fontenelle. Ma già il titolo, col riferimento alla principessa, tradisce un atteggiamento aristocratico.
Non era normale, a quei tempi? Anche la Monadologia di Leibniz fu scritta per un principe.
E' vero. Comunque il libro di Eulero, pur molto chiaro, non ha la pretesa di essere un'opera letteraria. Ma lo sforzo divulgativo è encomiabile, e va nella direzione giusta. Perché parte della responsabilità per la separazione delle due culture sta proprio nella difficoltà tecnica degli argomenti scientifici, e non solo nella pigrizia intellettuale degli umanisti.
Qual è la situazione della divulgazione scientifica in Germania?
Fino a una ventina di anni fa, era pessima. Gli anglosassoni sono stati i pionieri, nello sforzo di traduzione da una cultura all'altra. Ora, sulla scia del successo della divulgazione inglese, ne è nata anche una tedesca.
Immagine dahttp://opal.utu.fi/projektit/viki/kuvat/037.JPG
In genere si pensa a Goethe come a un antesignano del connubio tra scienza e letteratura. Ma Le affinità elettive oggi sono ridicole, da un punto di vista scientifico: ad esempio, nell'episodio in cui una povera bambina nasce con i tratti somatici degli amanti dei genitori, perché nel momento del concepimento mamma e papà si erano ... «distratti»!
Quella era una metafora, anche se un po' grossolana. Ma il grande limite di Goethe fu che, benché avesse certi interessi scientifici (geologia, biologia, morfologia), detestava la matematica. E nella sua teoria dei colori, si vede: pur con grande intuizione e sforzo, ha fatto molti errori.
In particolare, quello di credersi più furbo di Newton!
Eh, sí, aveva il difetto di considerarsi un genio! Humboldt fu tutt'altra cosa, molto più adeguato allo spirito della sua epoca. Anche se Goethe qualcosa di buono l'ha pur fatto, in campo scientifico: ad esempio, andò oltre la tassonomia botanica, alla ricerca delle comunanze di struttura fra piante diverse, in studi che continuano a essere rispettati anche oggi.
A proposito di struttura, mi sembra che Le affinità elettive dichiarino troppo esplicitamente la metafora chimica.
Certo. E anche in maniera troppo artificiosa, non completamente convincente. Forse senza la metafora il romanzo avrebbe funzionato meglio, come storia di un amore complicato.
In molte opere oulipiane, infatti, la struttura matematica rimane nascosta. Cosa pensa di quel genere di letteratura?
Credo che voler usare letterariamente solo la logica più pura e avanzata comporti un grande prezzo. Si finisce, sulla scia del Wittgenstein del Trattato, o dei positivisti come Carnap, col ridurre drasticamente l'ambito di ciò che si può dire: non si può più parlare delle emozioni, o dell'ingenuità. Ci si chiede se valga ancora la pena di fare della letteratura, a questo punto.
Perché è cosí importante, l'ingenuità? Per evitare di essere troppo intelligenti?
Intelligenti bisogna esserlo, ma non c'è soltanto l'intelligenza calcolabile! Quando Russell dimostra in maniera mostruosa che 1 più 1 è uguale a 2, l'umanità si difende da questo modo di pensare, perché capisce che si tratta di una censura, o di una autocensura. E se c'è una passione nella letteratura e nelle arti, è l'odio per la censura. Si può descrivere il mondo rigorosamente, alla maniera del Circolo di Vienna, ma la cosa è noiosa! E in ogni caso, Gödel ci insegna che ci sono dei limiti, a questo tipo di descrizioni.

Ci sono insegnamenti analoghi anche in letteratura? 
Ci sono analogie, che però non sono omologie. Bisogna essere cauti, perché Gödel era molto preciso e rigoroso: non credo che gli sarebbero piaciute queste analogie.
E le poesie sul suo teorema, come quella che apre Gli elisir della scienza
Quelle sono un gioco: linguistico, o filosofico, ma pur sempre un gioco. E' inevitabile: i poeti sono meno seri dei logici e dei matematici. Ma non degli altri scienziati: gli antropologi sono come noi, e i sociologi ancora peggio!
Dove l'ha imparato, il teorema di Gödel?
Ho letto il libro di Nagel e Newman, La prova di Gödel (Bollati Boringhieri, 1992). E poi l'articolo originale del 1931, saltando le parti più tecniche.
E cosa le interessa in particolare, di quel risultato?
Io penso che il cervello umano abbia dei limiti: è un organo sensazionale, probabilmente unico nel cosmo, ma ha dei limiti che non possono essere superati. A parte il Papa, che crede di essere infallibile, il resto dell'umanità sa di non esserlo. Ed è meraviglioso che i matematici, che per molto tempo hanno avuto la prepotenza e l'arroganza di cercare di costruire un sistema perfetto e senza limiti, siano poi riusciti a dimostrare dall'interno della matematica, e dunque col massimo rigore di cui l'uomo è capace, che la cosa è impossibile. E che non esistono «soluzioni finali», con buona pace di Hitler e Stalin.
E anche del primo Wittgenstein. Lei ha poi mandato la sua poesia a Gödel?No, non ho osato! All'epoca era vecchio e malato. E poi sono timido, e credo che si debbano lasciare in pace i grandi. Io conoscevo abbastanza bene Beckett, ma non mi veniva certo in mente di chiamarlo quando andavo a Parigi!
E' una critica velata al fatto che io sia qui?
No, no! E' che l'ammirazione mi intimidisce.
Rotraut Susanne Berner, da Il mago dei numeri, Einaudi
Lei però ha incontrato altri matematici.
Sí, ma quelli più comuni.
Non mi sembra che Gerd Faltings, medaglia Fields nel 1986, o Andrew Wiles, che ha dimostrato l'ultimo teorema di Fermat, siano tanto comuni.
E' vero, loro li incontrati al Congresso Internazionale dei Matematici a Berlino, nel 1998. Ma per caso, senza andarli a cercare: altrimenti mi sarei sentito come una groupie, che sbava dietro ai cantanti famosi.
Che effetto le ha fatto, essere invitato a quel congresso?
Un grande onore, naturalmente. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stata la gerarchia: dall'alto, con le medaglie Fields e le poche lezioni plenarie di un'ora, al basso, coi molti contributi specialistici di cinque minuti. E la cosa si riflette negli atti pubblicati: agli inizi le cose più importanti, e nei volumi successivi via via le altre.
E lei quanto ha parlato: un'ora, o cinque minuti?
Io ero fuori gara, durante il cocktail di inaugurazione. Ho fatto un discorso su «la matematica nell'aldilà della cultura», che ora sta in Gli elisir della scienza.
Al Congresso lei era stato invitato per il grande successo del romanzo Il mago dei numeri. Come le è venuto in mente di raccontare la matematica elementare in forma di favola?
Fu una conseguenza della mia irritazione nei confronti della pedagogia scolastica. Quando le mie due figlie tornavano da scuola, mi dicevano: «Ma tu, che sei scrittore, perché non ci scrivi qualcosa che ci diverta, invece di quei noiosi libri di testo?». E l'ho fatto, non solo per la matematica, ma anche per la letteratura: guardi qua, ho appena pubblicato Lyrik/Nervt, Lirica snervante (Hauser, 2004), una cassetta di pronto soccorso per i lettori stressati dalla poesia.
Ma l'autore è Andreas Thalmayr!
Ah, quello è un mio pseudonimo.
Perchè, si vergogna?
No. E' che io non mi permetto certe cose, mentre quel mio alter ego un po' più spiritoso, sí.
Lei aveva già anche pubblicato un libro di storia, Ma dove sono finito? (Einaudi, 1998). Ha un progetto universale, di insegnare ai ragazzi tutto lo scibile?
Basta guardare i compiti che vengono loro assegnati, quando tornano a casa da scuola! Una noia, una puraroutine: la matematica è insegnata come una collezione di ricette da applicare meccanicamente, senza capirci nulla. Questo non stimola nessun interesse in una persona intelligente, che non capisce perché non dovrebbe usare la calcolatrice tascabile per fare meglio le stesse cose. E' mortale, è idiota, è cretino, e non c'entra niente con la matematica!
Quindi, voleva far vedere che cosa è interessante nella matematica.
Certo. Cercare di mostrare le idee brillanti o geniali che stanno dietro le tecniche, come l'uso dei logaritmi. E la stessa cosa vale per la poesia, che viene anch'essa distrutta dalla scuola.
Il nuovo libro sulla poesia è già tradotto in italiano?
No, anche perché gli esempi sono tutti tedeschi. Dovrebbe rubarmi l'idea e farne uno analogo.
Ci penserò: se un poeta ha scritto un testo di matematica, perché un matematico non dovrebbe scriverne uno di poesia? Ma, a proposito di matematica e poesia, non le pare che le formule siano già esse stesse grande letteratura, nel senso in cui la intendeva Ezra Pound: «linguaggio carico di significato al massimo grado»?
Certamente in una buona poesia, cosí come in una formula, il grado di concentrazione è molto alto: c'è una certa economia, che ha ridotto tutto all'essenziale. Ma c'è anche altro, in entrambi i casi: il fatto che né una poesia, né una formula, siano autoesplicative. Per intenderle bisogna possedere una chiave di interpretazione, che deve per forza essere linguistica. E il linguaggio procede per analogie, similitudini, metafore, immagini ...
Vuole dire che il linguaggio matematico o scientifico non è autosufficiente?
Proprio cosí. Basta cercare l'etimologia dei termini scientifici, dietro ai quali si nascondono meravigliose metafore. Ma questo significa anche che la scienza ha un'enorme produttività poetica: lo sapeva bene Coleridge, che andava a lezione di chimica «per arricchire la propria riserva di metafore».
E il risultato finale di tutta questa riflessione su letteratura e scienza, qual è?
Che c'è una radice comune nella produttività del nostro cervello: una specie di grammatica universale, nel senso di Chomsky. E c'è anche una comune capacità di invenzione linguistica, che si manifesta al meglio nella poesia e nella matematica, che sono le più sviluppate e raffinate attività umane.
Lei non è, però, uno di quei post-moderni che crede che nella scienza ci siano solometafore.
Per carità, questa sarebbe una stupidaggine! D'altronde, nemmeno le metafore letterarie sono arbitrarie: c'è sempre un nesso tra significante e significato. Ma che i post-moderni siano dei poveretti, è dimostrato già dalla definizione che si danno: un poeta che si definisse post-goethiano, farebbe ridere.
E quindi, dove sta la differenza tra letteratura e scienza?
Anzitutto, i loro metodi sono completamente distinti. Poi, la corporazione è più forte nella scienza, che è un'impresa collettiva, mentre gli artisti sono più individualisti. Ma, soprattutto, c'è il fatto che tra il flogisto e l'ossigeno bisogna scegliere, mentre tra Catullo e Orazio no: nella scienza i diversi non possono coesistere, perché c'è un avanzamento. O un'accumulazione di cose una sull'altra, come nei termitai o nelle piramidi, in cui i vecchi strati scompaiono sotto quelli nuovi.
La conclusione, dunque, è che la letteratura si espande solo in orizzontale, su due dimensioni, e la scienza anche in verticale, su tre. Mi sembra una bella metafora, sulla quale bisognerà fermarsi.
Piergiorgio Odifreddi, L’Espresso, 11/06/04
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