Lévi-Strauss: biografia
«Presto saremo nove miliardi. Questo pianeta che esplode mi disorienta»
di VERONIQUE MORTAIGNE
Claude Lévi-Strauss non voleva accordare un’intervista che riassumesse la sua carriera e il suo pensiero, ma, in occasione dell’Anno del Brasile in Francia, che comincerà in marzo, voleva tornare sul suo rapporto con il «Paese dal legno color brace». Con estrema cortesia, ci riceve nella sua biblioteca, in abito scuro e cravatta con nodo metallico ornato di motivi indigeni - «un banale artigianato», dice. Fra i volumi rilegati, un totem dell’Oceania, molti oggetti asiatici, un rotolo di preghiere tibetane.
Amazzonia: Claude Lévi-Strauss accampato sulla riva del Machado con la scimmietta Lucinda aggrappata alla gamba destra. L'immagine è tratta dal libro «Saudades do Brasil»: la raccolta di foto che l'antropologo scattò in Brasile tra il '35 e il '39, gli anni delle ricerch
Dal 1935, ha insegnato sociologia proprio all’Università di San Paolo. Cosa significa per lei oggi il Brasile?
«Rappresenta l’esperienza più importante della mia vita: per la lontananza e il contrasto, ma anche perché ha determinato la mia carriera. Mi sento profondamente in debito verso questo Paese. L’ho lasciato all’inizio del 1939 e l’ho rivisto solo nel 1985, quando ho accompagnato il presidente Mitterrand in una visita ufficiale di cinque giorni. Sebbene brevissimo, quel viaggio ha suscitato dentro di me una vera e propria rivoluzione mentale: il Brasile era diventato interamente, totalmente, un altro Paese. La città di San Paolo, che avevo conosciuto quando raggiungeva a stento un milione di abitanti, ne contava già più di dieci milioni. Le tracce e le orme dell’epoca coloniale erano scomparse. Era diventata una città spaventosa, con chilometri di torri. Avevo deciso di rivedere, non tanto la casa dove avevo abitato - che probabilmente non esisteva più -, ma almeno la strada che avevo percorso per anni. Invece, ho passato la mattinata bloccato nel traffico senza potervi arrivare».
È tornato dai suoi amici, gli indiani Caduveos, Bororó o Nambicuara che aveva studiato in Brasile?
«Nel 1985 Brasilia era una delle tappe del viaggio presidenziale. Il quotidiano O Estrado de Sao Paulo mi ha proposto di riportarmi presso i Bororó, un viaggio che nel 1935 m’era costato molta fatica ma che, in aereo, si poteva fare in qualche ora. Un mattino siamo quindi saliti su un piccolo aereo che poteva portare solo tre passeggeri: mia moglie, una collega brasiliana ed io. L’aereo ha sorvolato i territori Bororó, e abbiamo addirittura potuto scorgere alcuni villaggi con ancora le loro strutture circolari, ma ciascuno dotato, adesso, di un terreno d’atterraggio. Dopo averli sorvolati, il pilota ci ha detto: potrei atterrare, ma le piste sono così corte che forse non potrei ripartire! Abbiamo quindi rinunciato e siamo rientrati a Brasilia, attraversando un temporale spaventoso. Ho pensato che mai la nostra vita era stata così esposta al rischio, neanche all’epoca delle mie spedizioni. Tutto questo mostrava quanto il Paese fosse cambiato. Quindi, non ho rivisto i Bororó in carne ed ossa, ma il loro territorio; ho sorvolato quel Rio Vermelho, un affluente del fiume Paraguay, che avevo impiegato parecchi giorni a risalire in piroga e che, adesso, era costeggiato da una strada asfaltata».
Si può essere segnati fisicamente e per sempre da un Paese?
«Sicuramente. Come le dicevo, quello che mi ha colpito di più arrivando in Brasile è stata la natura, come la si poteva ancora contemplare sulle pendici della Serra do Mar; poi, quando ho potuto addentrarmi nell’interno, di nuovo, fu una natura così totalmente diversa da quella che avevo conosciuto... Ma esiste anche una dimensione alla quale non sempre prestiamo attenzione e che per me è stata capitale: quella del fenomeno urbano. Quando sono arrivato a San Paolo si diceva che veniva costruita una casa all’ora. E c’era una compagnia britannica che, da quattro o cinque anni soltanto, apriva i territori ad ovest dello Stato di San Paolo. Costruiva una linea ferroviaria e pianificava una città ogni 15 chilometri. Nella prima, la più antica, c’erano 15 mila abitanti, nella seconda cinquemila, nella terza mille, poi 90, poi 40 e, nella più recente, uno soltanto, un francese. In quel periodo, uno dei grandi privilegi del Brasile era di poter assistere, in modo quasi sperimentale, alla formazione di quel fantastico fenomeno umano che è una città. Da noi, la città è il risultato talvolta di una decisione dello Stato, ma soprattutto di milioni di piccole iniziative individuali prese nel corso dei secoli. Nel Brasile degli anni Trenta, tale processo era più breve, si verificava in qualche anno. Certo, poiché praticavo l’etnografia, gli indiani sono stati per me essenziali, ma questa esperienza urbana ha contato molto; un Brasile e l’altro coabitavano, però a debita distanza. Quando sono andato verso il Mato Grosso per la prima volta, Brasilia non esisteva ancora, ma c’era già stato un primo tentativo di creare una città dal nulla, Gioiania, che non è andato in porto. L’altopiano centrale, il Planalto, è magnifico: lì il cielo attrae più d’ogni cosa».
Mario de Andrade aveva immaginato con molto umorismo Macunaïma, un indiano Tapanhuma d’Amazzonia bugiardo e pigro: diventato con il matrimonio imperatore della foresta vergine, sbarcò nella città di San Paolo per recuperare un amuleto prima d’essere trasformato in costellazione, la Grande Orsa. Questo spirito indigeno, questo legame fra città, foresta e mito perdura ancora? Ha seguito la sua evoluzione?
«Seguo l’evoluzione degli indigeni, che allora avevo studiato regolarmente, con il pensiero, e grazie a colleghi molto più giovani di me, come quelli dell’università di Cuiaba, nel Mato Grosso, che fra l’altro lavorano presso i Nambicuara. Mi scrivono e mi mandano i loro lavori. Questi popoli hanno subito sofferenze terribili. Sono stati più o meno sterminati, al punto che solo il 5 o il 10 per cento della popolazione originale era sopravvissuta. Ma quel che accade oggi è d’immenso interesse. Questi popoli si sono messi in contatto fra loro. Ormai sanno quello che per lungo tempo hanno ignorato: non sono più soli sulla scena dell’universo. Sanno che in Nuova Zelanda, in Australia o in Melanesia esistono individui che, in epoche diverse, hanno attraversato le loro stesse difficoltà. Sono consapevoli della loro comune posizione nel mondo. Beninteso, l’etnografia non sarà mai più quella che ho ancora potuto praticare ai miei tempi, quando si trattava di ritrovare testimonianze di credenze, di formazioni sociali, d’istituzioni nate in completo isolamento rispetto alle nostre, che dunque costituivano un apporto insostituibile al patrimonio dell’umanità. Adesso siamo, per così dire, in un regime di "mutua compenetrazione". Andiamo verso una civiltà su scala mondiale, dove probabilmente appariranno certe differenze. Perlomeno, lo speriamo. Differenze che non saranno più le stesse, saranno interne e non più esterne».
La rapidità di spostamento, la velocità di propagazione delle culture, la comunicazione sono fattori determinanti...
«Una volta, con i miei colleghi prendevamo cargo misti che, dopo molti scali, impiegavano diciannove giorni per arrivare in Sud America, fermandosi lungo le coste spagnole, algerine, africane. Del resto, dell’Africa conosco soltanto i luoghi dove abbiamo sostato all’andata e al ritorno dal Brasile».
La fotografia, che lei ha praticato come testimoniano i suoi numerosi cliché pubblicati, può fissare questi mondi perduti?
«Non ho mai dato grande importanza alla fotografia. Fotografavo perché era necessario, ma sempre con la sensazione che fosse una perdita di tempo, una perdita d’attenzione. Eppure, da adolescente, ho amato la fotografia. Mio padre faceva il pittore e si occupava molto di fotografia. Per me, è un mestiere a parte. Il mio, è stato un lavoro da fotografo di livello zero. Nel 1994, ho pubblicato un libro di foto, Saudades do Brasil , che si può tradurre "Nostalgia del Brasile", perché sollecitato. L'editore ha scelto, fra tanti altri, un po’ meno di duecento cliché. Durante la prima spedizione presso i Bororó, mi ero portato una piccolissima cinepresa. Mi è capitato ogni tanto di premere il bottone e di riprendere qualche immagine, ma ben presto ne sono rimasto disgustato perché, con l’occhio dietro all’obbiettivo, non si vede cosa accade e ancor meno si capisce. Ne sono rimasti spezzoni che in totale corrispondono a un’ora di film. Sono stati ritrovati in Brasile, dove li avevo abbandonati, e una volta sono stati mostrati al Beaubourg. Devo confessarle che i film etnologici mi annoiano enormemente».
Lei è un melomane. Mitologiche comincia con un’ouverture e si conclude su un finale. Il Crudo e il cotto , il primo dei quattro volumi di Mitologiche , comincia con il racconto di un canto Bororó, il motivo dello scopritore d’uccelli. Ha analizzato la loro musica?
«No, non sono un etnomusicologo; non ho studiato i loro canti. A volte mi hanno colpito, altre commosso. Una delle mie prime emozioni risale alle cerimonie in occasione del mio arrivo presso i Bororó. Accompagnavano i loro canti agitando certi gingilli con un virtuosismo simile a quello di un grande direttore d’orchestra con la sua bacchetta. Mesi fa ho ricevuto la visita di due indiani Bororó in compagnia di due ricercatori dell’università di Campo Grande del Mato Grosso, dove insegnano. Di loro iniziativa, hanno voluto, nel mio ufficio al Collège de France, cantare e danzare. Ed ecco, appunto, uno dei paradossi in cui viviamo: quei colleghi Bororó conservavano in tutta la loro freschezza e autenticità canti e musiche che avevo udito settant’anni prima. Era veramente commovente. Detto questo, la musica è il più grande mistero con il quale ci confrontiamo. Ai miei tempi, la musica popolare brasiliana era molto gradevole».
Cosa può dirmi sul futuro?
«Non me lo chieda. Siamo in un mondo al quale già sento di non appartenere. Quello che ho conosciuto, che ho amato, aveva un miliardo e mezzo d’abitanti. Il mondo attuale ne conta sei. Non è più il mio. E quello di domani, con nove miliardi di uomini e donne - anche se ci assicurano, per consolarci, che si tratterà del punto più alto della parabola - mi proibisce di fare qualsiasi predizione».
Le Monde/The New York Times Syndicate/Agenzia Volpe
(Traduzione di Daniela Maggioni )
25 febbraio 2005
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2005/02_Febbraio/25/levistrauss.shtml
L'originale
Claude Lévi-Strauss, grand témoin de l'Année du Brésil
LE MONDE 21.02.05 15h12
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A la veille des célébrations du "pays du bois de braise" en France, l'auteur de "Tristes Tropiques" revient sur sa relation essentielle à ce pays, où il a fait ses premiers pas d'ethnologue. Aujourd'hui, souligne-t-il, la civilisation à l'échelle mondiale a mis fin à ce type de découverte.
L'imbrication de la France et du Brésil n'est-elle pas très ancienne ?
Cette Année du Brésil intervient presque exactement cinq cents ans après le premier contact entre la France et le Brésil lors du voyage du Normand Paulmier de Gonneville. Ce dernier touchait, en 1504, les côtes brésiliennes au sud, quatre ans à peine après le Portugais Pedro Alvares Cabral, qui les avait abordées près de Salvador de Bahia. Ainsi les témoignages les plus anciens que nous possédons sur le Brésil datent du XVIe siècle et sont français.
En 1555, il y eut l'entreprise de l'amiral Villegaignon pour établir une France antarctique, dont a témoigné André Thevet dans son grand ouvrage - Les Singularitez de la France Antarctique, publié en 1557 -. En 1578, Jean de Léry livre l'Histoire d'un voyage faict en la terre du Brésil. Puis, au XVIIe siècle, il y a, plus au nord, les tentatives d'installation de missionnaires. Plus tard, au XVIIIe siècle et au début du XIXe siècle, quand le Brésil devient un empire, on note la présence de peintres français - la mission artistique dépêchée à partir de 1815 par Louis XVIII, où figurait notamment Jean-Baptiste Debret -, qui nous ont laissé beaucoup d'illustrations de ce qu'était la vie à Rio de Janeiro et à l'intérieur du pays.
Bien sûr, il y eut des conflits entre la France et le Brésil, par exemple à propos des territoires voisins de la Guyane française que revendiquaient les deux pays. Mais la fondation de l'université de Sao Paulo au XXe siècle a permis de renouer des contacts très étroits.
C'est précisément à l'université de Sao Paulo que vous êtes allé enseigner la sociologie, dès 1935. Que signifie le Brésil pour vous aujourd'hui ?
Le Brésil représente l'expérience la plus importante de ma vie, à la fois par l'éloignement, le contraste, mais aussi parce qu'il a déterminé ma carrière. Je ressens à l'égard de ce pays une dette très profonde. Cela étant, j'ai quitté le Brésil au début de l'année 1939, et je ne l'ai revu très brièvement qu'en 1985, quand j'ai accompagné le président Mitterrand, qui y faisait une visite d'Etat de cinq jours. Bien que très court, ce séjour a produit en moi une véritable révolution mentale : le Brésil était devenu entièrement, totalement, un autre pays.
Ce Sao Paulo, que j'avais connu à une époque où il atteignait tout juste 1 million d'habitants, en comptait déjà plus de 10 millions. Les traces et les vestiges de l'époque coloniale avaient disparu. Sao Paulo était devenue une cité assez effrayante, hérissée de kilomètres de tours, à tel point que, désireux de revoir non pas la maison où j'avais habité - elle n'existait sans doute plus -, mais la rue où j'avais vécu pendant quelques années, j'ai passé la matinée bloqué dans des embouteillages sans pouvoir y arriver.
L'urbanisation de Sao Paulo en a fait disparaître la nature ; le fleuve Tietê, qui fut fondamental dans la conquête de l'intérieur du Brésil à partir de Sao Paulo, est moribond... Ce relâchement des liens entre l'homme et la nature n'est-il pas une caractéristique de notre époque ?
Même de mon temps, la nature de Sao Paulo avait déjà beaucoup changé. Il y avait eu l'époque du café, et tous les territoires alentour avaient été consacrés à cette industrie agroalimentaire. Mais, de cette nature si forte, il subsistait les flans de la Serra do Mar, entre Sao Paulo et le port de Santos. Et il y avait là, sur quelques kilomètres, une dénivellation de 800 mètres, tellement abrupte que la civilisation avait dédaigné l'endroit, au profit de la forêt vierge. De sorte que, lorsqu'on débarquait à Santos pour monter à Sao Paulo, on avait un contact bref, mais immédiat, avec ce que le Brésil de l'intérieur, à des milliers de kilomètres de là, pouvait encore réserver.
Le lien entre l'homme et la nature s'est peut-être rompu et, en même temps, on peut comprendre que le Brésil, qui s'est développé de manière si considérable, ait à l'égard de la nature la même politique que l'Europe au Moyen Age, c'est-à-dire la détruire pour installer une agriculture.
Etes-vous retourné chez vos amis les Indiens Caduveos, Bororos ou Nambikwaras, que vous aviez étudiés au Brésil ?
En 1985, Brasilia était l'une des étapes du voyage présidentiel. Le quotidien O Estado de Sao Paulo m'a proposé de me ramener chez les Bororos, un voyage qui m'avait beaucoup coûté en 1935, mais qui, en avion, pouvait se faire en quelques heures. Nous sommes donc montés un matin dans un petit avion qui ne pouvait prendre que trois passagers : ma femme, une collègue brésilienne et moi. L'avion est arrivé au-dessus des territoires bororos, nous avons même pu apercevoir quelques villages avec encore leur structure circulaire, mais chacun doté maintenant d'un terrain d'atterrissage. Et, après les avoir survolés, le pilote nous a dit : je pourrais y atterrir, mais les pistes sont si courtes que je ne pourrai peut-être pas repartir ! Nous avons donc renoncé, et nous sommes rentrés à Brasilia en traversant un orage épouvantable.
J'ai pensé que notre vie n'avait jamais été aussi exposée, même à l'époque de mes expéditions. Finalement, nous sommes arrivés juste à temps pour que ma femme se mette en robe du soir et moi en smoking pour assister au grand dîner offert par le président du Brésil au président français. Tout cela montrait à quel point le pays avait changé.
Je n'ai donc pas revu les Bororos en chair et en os, mais j'ai revu leur territoire, j'ai survolé ce Rio Vermelho, un affluent du fleuve Paraguay que j'avais mis plusieurs jours à remonter en pirogue, et j'ai constaté qu'il était maintenant longé par une route asphaltée.
Peut-on être marqué physiquement et à jamais par un pays ?
Sûrement. Mon premier choc en arrivant au Brésil, je vous l'ai dit, a été la nature, telle qu'on pouvait encore la contempler sur les flancs de la Serra do Mar ; puis, quand j'ai pu m'enfoncer dans l'intérieur, ce fut de nouveau une nature si totalement différente de celle que j'avais connue... Mais il y a aussi une dimension à laquelle on ne prête pas toujours attention et qui a été pour moi capitale : celle du phénomène urbain.
Quand je suis arrivé à Sao Paulo, on disait que l'on construisait une maison par heure. Et, à cette époque, il y avait une compagnie britannique qui, depuis quatre ou cinq ans seulement, ouvrait les territoires à l'ouest de l'Etat de Sao Paulo. Elle construisait une ligne de chemin de fer et aménageait une ville tous les 15 kilomètres. Dans la première, la plus ancienne, il y avait 15 000 habitants, dans la deuxième 5 000, dans la troisième 1 000, puis 90, puis 40, et dans la plus récente 1 seul - un Français.
A cette époque, l'un des grands privilèges du Brésil était de pouvoir assister, de manière quasi expérimentale, à la formation de ce fantastique phénomène humain qu'est une ville. Chez nous, la ville résulte certes parfois d'une décision de l'Etat, mais surtout de millions de petites initiatives individuelles prises au cours des siècles. Dans le Brésil des années 1930, on pouvait observer ce processus, raccourci, se produire en quelques années.
Bien sûr, et puisque je pratiquais l'ethnographie, les Indiens ont été pour moi essentiels, mais cette expérience urbaine a tenu une très grande place, et les deux Brésil cohabitaient, mais à bonne distance.
Quand je suis allé vers le Mato Grosso pour la première fois, Brasilia n'existait pas encore, mais il y avait eu une première tentative de créer une ville à partir de rien, Goiania, qui n'a pas abouti. Le plateau central, le Planalto, est magnifique : le ciel y prend toute son importance. C'est un autre ordre de grandeur.
Des romanciers tels qu'Euclides da Cunha - auteur d'Os Sertoes, traduit en français sous le titre de Hautes terres - ont magnifiquement décrit ce Brésil.
J'ai bien connu aussi Mario de Andrade - musicologue, poète, fondateur de la Société d'ethnographie et de folklore du Brésil - : il dirigeait le département culturel de la ville de Sao Paulo. Nous avons été très proches. Son roman Macunaïma est un grand livre.
Mario de Andrade avait imaginé avec beaucoup d'humour Macunaïma, un Indien Tapanhuma d'Amazonie plutôt menteur et paresseux, devenu par son mariage empereur de la forêt vierge, débarquant dans la ville de Sao Paulo pour récupérer une amulette avant d'être transformé en constellation - la Grande Ourse. Cet esprit indigène, ce lien entre ville, forêt et mythe, perdure-t-il ? Avez-vous suivi son évolution ?
Je suis l'évolution des indigènes que j'avais alors étudiés de façon très régulière, par la pensée, et grâce à mes collègues beaucoup plus jeunes que moi, notamment ceux de l'université de Cuiaba, dans le Mato Grosso, qui travaillent entre autres chez les Nambikwaras. Ils m'écrivent, m'envoient régulièrement leurs travaux. Ces peuples ont subi des épreuves terribles. Ils ont été plus ou moins exterminés, au point que seulement 5 % ou 10 % de la population originelle subsistaient. Mais ce qui se produit actuellement est d'un immense intérêt. Ces peuples ont pris des contacts les uns avec les autres. Ils savent désormais ce qu'ils ont longtemps ignoré : ils ne sont plus seuls sur la scène de l'Univers. En Nouvelle-Zélande, en Australie ou en Mélanésie, il existe des gens qui, à des époques différentes, ont traversé les mêmes épreuves qu'eux. Ils prennent donc conscience de leur position commune dans le monde.
Alors, bien entendu, l'ethnographie ne sera plus jamais celle que j'ai pu encore pratiquer de mon temps, où il s'agissait de retrouver des témoignages de croyances, de formations sociales, d'institutions nées en complet isolement par rapport aux nôtres, et constituant donc des apports irremplaçables au patrimoine de l'humanité. Maintenant, nous sommes, si je puis dire, dans un régime de "compénétration mutuelle". Nous allons vers une civilisation à l'échelle mondiale. Où probablement apparaîtront des différences - il faut du moins l'espérer. Mais ces différences ne seront plus de même nature, elles seront internes, non plus externes.
La rapidité de déplacement, la vitesse de propagation des cultures, la communication sont des facteurs déterminants...
Auparavant, nous prenions, mes collègues et moi, des cargos mixtes qui, après beaucoup d'escales, mettaient dix-neuf jours pour arriver en Amérique du Sud, en s'arrêtant sur les côtes espagnoles, algériennes, africaines. De l'Afrique, d'ailleurs, je ne connais vraiment que les haltes que j'y ai faites en allant et revenant du Brésil.
La photographie, que vous avez pratiquée, comme en témoignent vos nombreux clichés publiés, peut-elle fixer ces mondes perdus ?
Je n'ai jamais attaché beaucoup d'importance à la photographie. Je photographiais parce qu'il le fallait, mais avec toujours le sentiment que cela représentait une perte de temps, une perte d'attention. Pourtant, j'ai beaucoup aimé et pas mal pratiqué la photographie dans mon adolescence. Mon père était artiste peintre et bricolait beaucoup la photo. Mais la photographie constitue un métier à part, si je puis dire. Ce que j'ai fait est un travail de photographe au degré zéro. J'ai publié un livre de photos - Saudades do Brasil, que l'on peut traduire par "Nostalgie du Brésil", paru en 1994 - parce que, autour de moi, on a beaucoup insisté. L'éditeur a choisi un peu moins de 200 clichés parmi tant d'autres.
Lors de ma première expédition chez les Bororos, j'avais emporté une très petite caméra portative. Et il m'est arrivé de temps en temps de presser sur le bouton et de tirer quelques images, mais je m'en suis très vite dégoûté, parce que, quand on a l'œil derrière un objectif de caméra, on ne voit pas ce qui se passe et on comprend encore moins. Il en est resté des bribes qui font au total à peu près une heure de morceaux de films. Elles ont été retrouvées au Brésil, où je les avais abandonnées, et ont été montrées une fois au Centre Pompidou. D'ailleurs, je vais vous faire une confession : les films ethnologiques m'ennuient énormément.
Qu'en est-il du Musée de l'Homme ?
Le Musée de l'Homme va vers un nouveau destin. Il a été conçu selon une formule très ambitieuse, mais qui je crois ne répond plus aux réalités du moment. Son objet était d'unir la préhistoire, l'anthropologie physique, l'ethnographie, qui chacune ont depuis pris des voies divergentes. Pour ce qui est de l'ethnographie, le Musée de l'Homme prétendait montrer comment vivaient encore en 1920 et 1930 les peuples lointains qu'allaient étudier les ethnologues.
Cela ne répond plus au présent. Si on veut montrer comment vit aujourd'hui une population mélanésienne, encore inconnue en 1930, il faudrait mettre dans la vitrine des sacs de café, des Toyota à côté de quelques ustensiles traditionnels. Et ce serait une image mensongère. L'idée directrice du futur musée du quai Branly est de recueillir tout ce que ces civilisations ont produit de grand et de beau, en prenant en compte que ce sont des témoignages du passé.
Cela répond très bien au rapport que ces civilisations peuvent et doivent entretenir avec leur passé, et que nous pouvons aujourd'hui entretenir avec elles.
Peut-on considérer qu'un objet coupé de son contexte rituel, communautaire, garde son sens ?
Un masque qui a une fonction rituelle est aussi une œuvre d'art. L'approche esthétique ne me trouble pas du tout. Le Musée du Louvre est avant tout un musée des beaux-arts. Il a donc un esprit, une fonction esthétisants. Cela n'a jamais empêché l'histoire ni la sociologie de l'art de se développer, ni les conservateurs de ce musée d'être de très bons savants. Le fait de susciter l'intérêt ou l'émotion du public à travers de beaux objets ne m'inquiète pas du tout. L'esthétique est une des voies qui lui permettra de découvrir les civilisations qui les ont produits. Et ainsi certains deviendront des historiens, des observateurs, des savants qui se consacreront à ces civilisations.
Vous avez aimé et collectionné des objets au point de comparer les mythes, sujets de vos recherches, à de "très beaux objets que l'on ne se lasse pas de contempler". Les aimez-vous encore ?
J'aime toujours les objets, depuis l'enfance, le bric-à-brac. A une époque, les objets que nous appelions primitifs étaient accessibles aux petites bourses. Avec André Breton par exemple, quand nous étions aux Etats-Unis, nous savions que ces objets étaient aussi beaux que ceux des autres civilisations. Et qu'on pouvait les acquérir pour presque rien. Tous les objets ont maintenant un cours si élevé qu'on ne peut plus que les contempler de loin sans penser les posséder. Si les conditions étaient restées les mêmes, très certainement, je collectionnerais toujours. En 1950, j'ai eu des problèmes personnels et je devais à tout prix acheter un appartement. C'est ainsi que j'ai dû me séparer de ma collection.
Je vois aujourd'hui passer des objets qui m'ont appartenu. Le Quai Branly a acheté un haut de coiffure d'Indien de la côte nord-ouest du Canada, qui se trouvait, je ne sais pourquoi, dans une collection en province. Il y a au Louvre un masque à transformation kwaktiul. On va en revoir d'autres dans l'exposition organisée en mars dans le cadre de l'Année du Brésil au Grand Palais.
Il y aura là aussi des objets que j'ai collectés pour le Musée de l'Homme au cours de mes expéditions. Ceux-ci ont beaucoup souffert pendant la guerre, puis des mauvaises conditions de chauffage. Les coiffures de plumes se sont beaucoup abîmées, les plumes étaient collées avec de la résine ou de la cire. A l'époque où je ramenais mes collections, on s'imaginait qu'il fallait inonder mes boîtes d'un désinfectant dont les vapeurs dissolvent précisément ces résines.
Vous êtes mélomane, Mythologiques commence par une ouverture et se clôt sur un finale. Dans Le Cru et le Cuit, le premier des quatre volumes de Mythologiques, vous commencez par le récit d'un chant bororo - l'air du dénicheur d'oiseau. Avez-vous analysé leur musique ?
Non, pas du tout, je ne suis pas un ethnomusicologue ; je n'ai pas étudié leurs chants. Quelquefois ils m'ont frappé, parfois ils m'ont ému. D'ailleurs une de mes premières émotions a été les cérémonies qui se déroulaient quand je suis arrivé chez les Bororos. Ils accompagnaient leurs chants avec des hochets qu'ils manipulaient avec autant de virtuosité qu'un grand chef d'orchestre sa baguette.
Il se trouve qu'il y a quelques mois j'ai eu la visite de deux Indiens Bororos en compagnie de deux chercheurs de l'université de Campo Grande du Mato Grosso, la plus proche de leur territoire, et où eux-mêmes enseignent. Ils ont voulu pour moi, dans mon bureau du Collège de France, de leur propre initiative, chanter et danser. Eh bien là, c'est précisément l'un de ces paradoxes dans lesquels nous vivons : ces collègues bororos conservaient dans toute leur fraîcheur et toute leur authenticité des chants et une musique que j'avais entendus soixante-dix ans auparavant. C'était très émouvant.
Cela dit, la musique est le plus grand mystère auquel nous soyons confrontés. La musique populaire brésilienne de mon temps était d'ailleurs extrêmement savoureuse.
Que diriez-vous de l'avenir ?
Ne me demandez rien de ce genre. Nous sommes dans un monde auquel je n'appartiens déjà plus. Celui que j'ai connu, celui que j'ai aimé, avait 1,5 milliard d'habitants. Le monde actuel compte 6 milliards d'humains. Ce n'est plus le mien. Et celui de demain, peuplé de 9 milliards d'hommes et de femmes - même s'il s'agit d'un pic de population, comme on nous l'assure pour nous consoler - m'interdit toute prédiction...
Propos recueillis par Véronique Mortaigne
• ARTICLE PARU DANS L'EDITION DU 22.02.05
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