Caso clinico senza precedenti: ignora il marito e la figlia La casalinga che riconosce solo Berlusconi
Studiate le reazioni di una donna colpita da deterioramento progressivo delle capacità cerebrali
MILANO - Il caso clinico senza precedenti, appena pubblicato sulla rivista scientifica internazionale «Cortex» dai neuro-psicologi Sara Mondini, dell’Università di Padova, e Carlo Semenza, dell’Università di Trieste, fornisce una prova biologica di quanto da tempo sociologi, psicologi sociali, politologi ed esperti di comunicazioni di massa avevano sospettato, cioè che il bombardamento ripetuto di certe immagini a mezzo stampa e televisione incide qualcosa di profondo e speciale nel nostro cervello.
Detto in modo molto succinto, il caso di V. Z., casalinga italiana di 66 anni, testata ripetutamente da Mondini e Semenza per anni, mostra che una lesione cerebrale specifica può gravemente compromettere la nostra capacità di riconoscere oggetti in genere e volti umani in genere, ma non la capacità di riconoscere Silvio Berlusconi. E’ come se il volto del premier fosse stato inciso nel cervello in un suo canale particolare, in un formato speciale, diverso da quello ordinario degli oggetti e da quello pure ordinario, ma separato, dei volti.
La tranquilla paziente V. Z., destinata adesso a diventare internazionalmente famosa, è affetta da un caso raro di deterioramento progressivo dell’area cerebrale chiamata, in gergo neurologico, lobo temporale mesiale, con conseguente atrofia di questa zona in ambedue i lati del cervello, ma più pronunciata nell’emisfero destro, quello soprattutto deputato all’elaborazione delle immagini. Parla normalmente e appropriatamente, ma ha difetti di memoria ed è incapace di riconoscere perfino il volto del marito e dei più stretti familiari.
Inoltre, portata in un supermercato con una lista di cose da acquistare scritta da lei stessa, legge correttamente, poniamo, le parole «cipolle» e «mele», ma non sa a cosa corrispondono sui banconi. La batteria di test psicologici somministrata a V. Z. da Mondini e Semenza è molto nutrita e i risultati sono minuziosamente riportati da loro nell’articolo su «Cortex».
La sua percezione dello spazio e delle distanze è sostanzialmente normale, ma le cose si mettono al peggio quando V. Z. deve decidere, in base a foto e disegni, quali animali sono reali e quali chimerici, e di quali animali si tratta. Distingue abbastanza correttamente foto di animali da foto di oggetti, ma poi tutto si ferma lì. Non riesce a dire niente di appropriato sui singoli esemplari mostrati. Mondini e Semenza le hanno anche mostrato molte foto e ritratti di persone famose (compreso un ritratto di Napoleone), chiedendo se sapeva chi erano. Niente. Una sola foto ha dato un netto risultato, quella, appunto, di Silvio Berlusconi. Le informazioni subito offerte da V. Z. in relazione alla foto erano corrette «Un uomo molto ricco, che possiede stazioni televisive e ha successo in politica».
Si noti che l’episodio avveniva nel 2001, in piena campagna elettorale. Però sei mesi dopo V. Z. ancora riconosceva Berlusconi, a dispetto di un ulteriore peggioramento del suo stato neurologico, e a dispetto della sua totale incapacità di riconoscere foto del marito, della figlia, dei vicini di casa e di una certa difficoltà perfino a identificarli di persona. Questo sbalorditivo dato era, occorre precisare, del tutto inaspettato. Mondini e Semenza, messi su una nuova pista, hanno, con grande pazienza, cercato di trovare altre immagini che potessero emergere, come il volto di Berlusconi, dal grigio magma di non-riconoscimento della povera paziente. E ne hanno infine trovata un’altra: la foto del Papa (Wojtyla). Un successo solo parziale, però, perché V. Z. non sapeva dare alcuna informazione, oltre al fatto che si trattava del Papa, né distingueva tra (l’allora) Papa e i Papi del passato. Inoltre, il riconoscimento non sussisteva più se si toglievano dalla foto i paramenti papali.
La sola altra vera, stabile, eccezione era l’immagine di Cristo in croce. Come interpretare, neurologicamente e psicologicamente, questo dato? Riesaminando i casi pubblicati e chiedendo personalmente ai colleghi italiani e stranieri, Mondini e Semenza hanno stabilito che altri casi simili, ma molto meno netti, e causati da lesioni cerebrali meno estese di quella di V. Z., erano stati osservati, ma mai pubblicati (in particolare un paziente inglese che riconosceva bene Margaret Thatcher, ma pochissimi altri personaggi famosi).
La loro conclusione è che esiste un canale di riconoscimento e di memorizzazione «iconico», distinto da quello per gli oggetti in genere e distinto da quello, notoriamente separato e specializzato, per i volti. Semenza mi dice che si tratta di «una corsia preferenziale». Informazioni visive collaterali vengono strettamente associate a un volto (i paramenti papali, la croce, la corona di spine) e questo compatto insieme di informazioni sopravvive al deterioramento degli altri due canali.
Resta piuttosto problematico capire quali tratti visivi speciali si accompagnino all’immagine di Berlusconi. Forse non si tratta di qualcosa di visivo, ma, per esempio, della voce. Questa è solo un’ipotesi, i dati non la confermano né la smentiscono. Semenza mi dice: «Il merito di questo caso è anche quello di avere posto all’attenzione dei clinici quanto possa essere importante studiare i casi gravi in cui pochissima informazione di un certo tipo è risparmiata.
Nonostante casi simili fossero segnalati in modo aneddotico, nessuno si era mai impegnato a studiarli con un minimo di metodo sperimentale». Nemmeno Orwell aveva sospettato che esistesse una corsia neuronale preferenziale per riconoscere subito «il Grande Fratello».
Massimo Piattelli Palmarini
corriere.it
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
30.9.05
24.9.05
Cosa ci dice il cervello sui segreti della natura umana?
La scoperta del genetista di Chicago è una prova del fatto che l'essere umano civilizzato non ha perso la sua animalità. La tesi contraria, che trova ancora largo consenso, si fonda su un dualismo che va superato: perché siamo, piuttosto, sistemi «ibridi» il cui portato culturale è incarnato nella virtualità biologica
Alcune note a partire dalla scoperta di Lahn, pubblicata su Science, che dimostra come il cervello si sia evoluto anche dopo la comparsa di Homo sapiens. A conferma del fatto che la crescita culturale non sostituisce quella naturale, poiché non è indipendente dalla biologia degli umani. Detto altrimenti: non siamo angeli disincarnati
FRANCESCO FERRETTI
Il primo marzo del 1864 Alfred Russel Wallace intervenne alla riunione della Anthropological Society of London con una relazione destinata ad avere un futuro importante nell'antropologia evoluzionista. Il testo è titolato The Origin of Human Races and the Antiquity of Man Deduced from the Theory of «Natural Selection» e il tema è di fondamentale importanza per la definizione del posto occupato dall'uomo nella natura all'interno del quadro evoluzionista. La domanda chiave attorno a cui ruota il discorso di Wallace è la seguente: i principi dell'evoluzione che valgono per gli animali valgono allo stesso modo per l'essere umano, o esiste qualche proprietà degli umani che va oltre la loro natura biologica e che, per questo, li rende immuni dalla selezione naturale?
Una concezione tipicamente vittoriana
Il testo di Wallace fu letto con notevole attenzione da Charles Darwin, che nell'Origine dell'uomo lo citò più volte con ammirazione. In particolare, Darwin mostrava di condividere l'idea di Wallace secondo cui la selezione naturale agisce sull'essere umano fintantoché questo non ha guadagnato le sue facoltà morali e intellettuali: quando ciò avviene, diversamente dagli animali inferiori che possono rispondere alle mutate condizioni ambientali soltanto adattando la loro struttura corporea (acquisendo denti o artigli più robusti, ad esempio), l'essere umano modifica poco o nulla della sua morfologia: perché «l'uomo per le sue facoltà mentali può "mantenere un corpo immutabile in armonia col mutevole universo"». L'evoluzione culturale, una volta raggiunta, segue una via diversa dall'evoluzione biologica e la pressione selettiva cessa di influenzare la morfologia degli individui.
La tesi di Wallace esemplifica la concezione, tipica dell'antropologia vittoriana, che vede l'essere umano (più specificamente i bianchi del mondo civilizzato) come l'esito ultimo e perfetto del «progresso» evolutivo. Quando l'uomo (con una vera e propria rottura col resto della natura) guadagna attraverso la cultura un grado di specialità nel mondo animale, la selezione naturale cessa di avere effetti sulla sua struttura corporea. La cultura agisce a un livello indipendente da quello biologico. Una tesi di questo tipo apre la strada a una visione dualistica della natura umana. Patrick Tort, nel suo L'antropologia di Darwin (Manifestolibri, 2000), commenta questa posizione sostenendo che l'insistenza sulla specificità di quanto è «veramente umano» è un germe che porterà Wallace alla «fatale deriva» lungo la quale in pochi anni passerà dal porre un «accento ancora discreto sull'eccezionalità dell'uomo (...) all'interpretazione trascendente di un "accrescimento delle facoltà mentali", che la selezione naturale non può spiegare».
La tesi di Wallace è ancora viva nella riflessione contemporanea, tanto che persino Richard Dawkins, un autore che ha fatto della relazione tra geni e comportamento il punto forte della sua proposta teorica, sembra condividerla. Nel libro Il gene egoista (Mondadori, 1992) egli afferma la necessità di introdurre una linea di demarcazione tra l'essere umano e tutti gli altri animali. Dopo aver sostenuto che è la cultura a rendere unica la nostra specie, Dawkins dichiara che le varie forme di abbigliamento, costumi, cerimonie, architettura e tecnologia «si sono tutte evolute nei tempi storici in un modo che sembra accelerato dall'evoluzione genetica, ma che in realtà con essa non ha niente a che vedere». Spiazzando il lettore, egli sostiene che per quanto «costruiti come macchine dei geni e coltivati come macchine dei memi» gli esseri umani, unici animali sulla terra, hanno il potere di ribellarsi «alla tirannia dei replicatori egoisti». L'evoluzione culturale segue leggi sue proprie, che hanno il potere di sostituirsi all'evoluzione biologica. Dawkins si sorprende di essere accusato di dualismo - a noi sorprende che lui possa sorprendersi.
Ultime nuove sul cervello
Il punto non è riconoscere la svolta evolutiva che l'avvento della cultura impone all'essere umano. Il punto è stabilire se questa svolta comporti davvero una cesura con il resto della natura. Ciò che è in questione è capire se davvero l'evoluzione culturale abbia posto fine all'evoluzione biologica. Se, in altre parole, la flessibilità e la velocità di trasmissione dei memi (le unità di base della trasmissione culturale) abbiano comportato l'immobilità organica di cui parla Wallace. L'evoluzione del sistema nervoso umano è considerata una prova di questa tesi. Le competenze che caratterizzano l'essere umano dipendono dalle dimensioni e dalla straordinaria complessità del suo cervello. Ora, la costruzione del cervello umano è il prodotto di una lunga storia evoluta. È opinione comune che, dopo la divisione tra umani e scimpanzé (5-6 milioni di anni fa), il sistema nervoso abbia continuato a mutare sino a produrre il cervello di Homo sapiens (200.000 anni fa). Da allora, con l'avvento della cultura, il cervello umano non è più mutato. Questa tesi è largamente condivisa da scienziati, antropologi e filosofi. Calma piatta su questo fronte.
Prima di raccogliere il sasso nello stagno
Ora, Bruce Lahn, genetista dell'Università di Chicago, ha gettato il classico sasso nello stagno pubblicando i risultati delle ricerche del suo gruppo in due articoli usciti il 9 settembre sulla rivista Science. I dati sperimentali prodotti testimoniano a favore della tesi che il cervello di Homo sapiens abbia subito variazioni sino ad epoche molto recenti (e probabilmente è destinato a subirne in futuro). Risultati di questo tipo sono di straordinario interesse e offrono lo spunto per considerazioni di carattere più generale. Con due premesse. La prima è che i dati empirici aspettano, come ovvio, ulteriori conferme. La seconda consiste in un invito a considerare il fenomeno in tutta la sua complessità. Dopo aver studiato il ruolo di più di 200 geni implicati nello sviluppo del sistema nervoso, Lahn e i suoi collaboratori sono arrivati alla conclusione (per altro nota) che le mutazioni genetiche necessarie all'evoluzione del cervello umano riguardano «migliaia di mutazioni in centinaia (se non migliaia) di geni». Parlare del rapporto tra geni e cervello esclude, dunque, ogni visione che associ alla mutazione di un singolo gene la variazione di un singolo carattere fenotipico. Fatte queste premesse, l'attenzione del gruppo di Lahn si è concentrata sul ruolo giocato da due specifici geni nell'evoluzione del cervello umano: Aspm (abnormal spindle-like microcephaly associated) e Microcephalin associati entrambi alla regolazione delle dimensioni del cervello - negli umani, in effetti, il mancato funzionamento di questi geni causa la microcefalia, un difetto evolutivo caratterizzato da una severa riduzione delle dimensioni cerebrali.
In lavori precedenti il gruppo di Lahn aveva già raggiunto un importante risultato dimostrando che i due geni Microcephalin e Aspm avevano subìto significative (e rapide) mutazioni nel corso dell'evoluzione che dai primati porta agli umani. A partire dalla constatazione che i due geni sono responsabili di alcuni aspetti dello sviluppo cerebrale degli umani nel corso della loro storia evolutiva, i ricercatori si sono posti una ulteriore domanda: la selezione naturale ha ancora effetti su questi geni dopo la costituzione del cervello di Homo sapiens?
Due i risultati interessanti della ricerca appena pubblicata. Il primo è che i geni responsabili dell'incremento della massa cerebrale restano sotto la pressione della selezione naturale anche dopo la formazione dell'uomo moderno: gli autori hanno registrato l'emergere di modificazioni del gene Microcephalin riferibili a circa 37.000 anni fa e modificazioni di Aspm ancora più recenti, relative a 5.800 anni fa. Il secondo risultato, di ordine teorico più generale, è la messa in relazione delle variazioni della massa cerebrale con alcune tappe dell'evoluzione culturale. La mutazione di Microcephalin coincide, secondo Lahn, con l'emergenza della cultura simbolica; la nuova mutazione di Aspm coincide invece con la nascita della scrittura, l'espandersi dell'agricoltura e l'avvento del processo di urbanizzazione.
Alcuni scienziati hanno bollato come «speculative» queste associazioni, considerandole perciò poco attendibili. Ma le considerazioni speculative (se confortate dai dati empirici, ovviamente) hanno il valore specifico di mostrare le connessioni tra i risultati particolari di ogni singola ricerca e i contesti di riflessione di ordine più generale. Ciò che è davvero importante per la maggior parte di noi (non per uno sparuto gruppo di scienziati), d'altra parte, è capire se davvero le ricerche sul cervello possano aiutarci a comprendere i segreti della natura umana.
Tra geni e cultura le relazioni sono indirette
Certo, le considerazioni speculative devono essere fatte con estrema cautela. Innanzitutto perché i dati sperimentali aspettano ulteriori conferme. Ma soprattutto per una questione di carattere più generale: perché dati come quelli proposti da Lahn mettono in luce soltanto relazioni altamente indirette tra geni e cultura. Sostenere che una variazione del gene Aspm coincide, poniamo, con l'avvento della scrittura non significa sostenere che la mutazione genetica è la causa diretta di tale avvento (se così fosse, d'altra parte, dovremmo parlare - come a volte purtroppo si fa - di un «gene della scrittura»). Detto questo, tuttavia, affermare che le relazioni tra geni e cultura sono soltanto indirette non significa dire che non sono importanti. I risultati di Lahn ci comunicano che due geni sono implicati nello sviluppo delle dimensioni cerebrali. Ora, quello che si può sostenere a partire da questi dati è che geni di un certo tipo regolano la costruzione di certi tipi di cervello. Di più: poiché certi tipi di cervello sono capaci di abilità cognitive specifiche, ciò che si può sostenere è che le competenze cognitive alla base della trasmissione e dell'acquisizione delle conoscenze che costituiscono la cultura degli umani dipendono dallo specifico cervello che essi hanno a disposizione. Per quanto non sia possibile studiare direttamente i rapporti tra geni e cultura è dunque plausibile studiare la cultura (almeno alcuni aspetti di essa) come il prodotto dell'attività cerebrale.
La scienza cognitiva e la neuroscienza contemporanee hanno fatto enormi passi in avanti in questa direzione: basterebbe soltanto pensare alla tesi della «epidemiologia delle credenze» proposta da Dan Sperber nel suo Il contagio delle idee (Feltrinelli, 1996) per dar conto del ruolo dei processi cognitivi nell'avvento della cultura umana; o, per citare un altro caso, basterebbe riferirsi al ruolo dei «neuroni specchio» analizzato da Vittorio Gallese per spiegare le forme di base - empatiche e imitative - degli scambi interpersonali tra gli individui di una società.
Le ricerche di Lahn hanno il pregio di mostrare che la cultura non sposta l'essere umano su un piano di indipendenza dalla biologia (non lo rende un angelo disincarnato). Dire che il cervello ha conosciuto tappe evolutive successive all'avvento di Homo sapiens significa sostenere che la sua struttura organica non è immodificabile. L'evoluzione culturale non sostituisce l'evoluzione naturale: non può farlo perché la cultura non è autonoma e indipendente dalla biologia degli umani. La scoperta di Lahn è una prova del fatto che l'essere umano civilizzato non ha perso la sua animalità. La tesi contraria, che trova ancora largo consenso tra antropologi e filosofi, si fonda su un dualismo tra cultura e biologia che non ha più ragione di essere. L'essere umano va pensato in una prospettiva di unificazione. Come realizzare tale prospettiva?
Ritorno a un'ottica continuista
Tornando a Darwin, in primo luogo. Il suo commento al testo di Wallace, che citavamo all'inizio, rappresenta una prima mossa in questa direzione. Contro gli esiti spiritualistici di Wallace, Darwin scrive L'origine dell'uomo con l'obiettivo di spiegare l'avvento delle facoltà superiori umane in una prospettiva continuista. Da questo punto di vista il «rovesciamento» di prospettiva che caratterizza l'avvento della cultura non è in contrasto con i principi di base dell'evoluzione biologica. È quello che Tort chiama l'effetto reversivo: «La selezione naturale ha selezionato gli istinti sociali, che a loro volta hanno sviluppato i comportamenti di assistenza ai deboli e hanno favorito l'attuazione di disposizioni etiche, istituzionali e legali antisellettive e antieliminatorie. In tal modo la selezione naturale ha operato essa stessa per il suo deperimento, seguendo lo stesso modello dell'evoluzione selettiva: l'indebolimento dell'antica forma e la crescita selezionata di una forma nova: in questo caso una competizione i cui fini sono sempre più la moralità, l'altruismo e i valori sociali legati all'intelligenza e all'educazione».
L'effetto «reversivo» spiega come un elemento di rottura (il passaggio dal biologico al culturale) possa essere inquadrato all'interno di una prospettiva continuista. Resta il fatto, tuttavia, che l'effetto «reversivo» ha come esito una «interruzione» della selezione naturale. L'idea che la cultura e le facoltà superiori una volta formate prendano comunque il posto dell'evoluzione biologica rimane forte in questa prospettiva. Si può andare oltre Darwin, però. E i risultati presentati dal gruppo di Lahn incoraggiano, appunto, un passo ulteriore.
Nel sottolineare che ogni acquisizione culturale è un caso di biotecnologia, Roberto Marchesini indica in Post-human (Bollati Boringhieri, 2002) una via percorribile in questa direzione. Dal suo punto di vista, l'avvento della cultura, senza porre l'essere umano al di fuori del processo selettivo, ha avuto il potere di «spostare» la pressione evolutiva. Si pensi al caso degli antibiotici. Quando ancora non esistevano, l'organismo che non era in grado di produrre una risposta naturale (processo di antibiosi) ai batteri dannosi veniva selezionato con la morte. Con l'avvento degli antibiotici l'intreccio coevolutivo uomo-batterio si arricchì di un nuovo elemento, la molecola di sintesi, capace di imprimere una nuova direzione alla pressione selettiva (sia nell'uomo che deve tollerarla, sia nel batterio che deve superarla). Secondo Marchesini ogni «slittamento della pressione evolutiva, realizzato attraverso la mediazione tecnologica, iscrive di fatto quella tecnologia nel patrimonio genetico della specie». Da questo punto di vista gli esseri umani sono sistemi «ibridi» in cui non ha senso considerare la cultura come un elemento che si contrappone al sistema biologico per completarlo: il sistema culturale è, in questa prospettiva, «incarnato nella virtualità biologica».
Una verifica empirica sulla strada del futuro
Anche le forme residue di dualismo, in questo modo, sembrano lasciare il campo a una prospettiva unitaria dell'essere umano. Il fatto che gli umani siano animali culturali, come abbiamo visto, non è una condizione sufficiente a preservarli dal destino che li accomuna al resto del mondo animale. Di più: la natura ibrida degli umani apre la possibilità che il processo di acculturazione sia una delle condizioni di base delle trasformazioni organiche dell'umanità guidate dalla pressione evolutiva. Gli esperimenti di Lahn offrono una verifica empirica all'ipotesi che ciò che è accaduto in un passato recente possa accadere ancora in futuro.
ilmanifesto.it
Alcune note a partire dalla scoperta di Lahn, pubblicata su Science, che dimostra come il cervello si sia evoluto anche dopo la comparsa di Homo sapiens. A conferma del fatto che la crescita culturale non sostituisce quella naturale, poiché non è indipendente dalla biologia degli umani. Detto altrimenti: non siamo angeli disincarnati
FRANCESCO FERRETTI
Il primo marzo del 1864 Alfred Russel Wallace intervenne alla riunione della Anthropological Society of London con una relazione destinata ad avere un futuro importante nell'antropologia evoluzionista. Il testo è titolato The Origin of Human Races and the Antiquity of Man Deduced from the Theory of «Natural Selection» e il tema è di fondamentale importanza per la definizione del posto occupato dall'uomo nella natura all'interno del quadro evoluzionista. La domanda chiave attorno a cui ruota il discorso di Wallace è la seguente: i principi dell'evoluzione che valgono per gli animali valgono allo stesso modo per l'essere umano, o esiste qualche proprietà degli umani che va oltre la loro natura biologica e che, per questo, li rende immuni dalla selezione naturale?
Una concezione tipicamente vittoriana
Il testo di Wallace fu letto con notevole attenzione da Charles Darwin, che nell'Origine dell'uomo lo citò più volte con ammirazione. In particolare, Darwin mostrava di condividere l'idea di Wallace secondo cui la selezione naturale agisce sull'essere umano fintantoché questo non ha guadagnato le sue facoltà morali e intellettuali: quando ciò avviene, diversamente dagli animali inferiori che possono rispondere alle mutate condizioni ambientali soltanto adattando la loro struttura corporea (acquisendo denti o artigli più robusti, ad esempio), l'essere umano modifica poco o nulla della sua morfologia: perché «l'uomo per le sue facoltà mentali può "mantenere un corpo immutabile in armonia col mutevole universo"». L'evoluzione culturale, una volta raggiunta, segue una via diversa dall'evoluzione biologica e la pressione selettiva cessa di influenzare la morfologia degli individui.
La tesi di Wallace esemplifica la concezione, tipica dell'antropologia vittoriana, che vede l'essere umano (più specificamente i bianchi del mondo civilizzato) come l'esito ultimo e perfetto del «progresso» evolutivo. Quando l'uomo (con una vera e propria rottura col resto della natura) guadagna attraverso la cultura un grado di specialità nel mondo animale, la selezione naturale cessa di avere effetti sulla sua struttura corporea. La cultura agisce a un livello indipendente da quello biologico. Una tesi di questo tipo apre la strada a una visione dualistica della natura umana. Patrick Tort, nel suo L'antropologia di Darwin (Manifestolibri, 2000), commenta questa posizione sostenendo che l'insistenza sulla specificità di quanto è «veramente umano» è un germe che porterà Wallace alla «fatale deriva» lungo la quale in pochi anni passerà dal porre un «accento ancora discreto sull'eccezionalità dell'uomo (...) all'interpretazione trascendente di un "accrescimento delle facoltà mentali", che la selezione naturale non può spiegare».
La tesi di Wallace è ancora viva nella riflessione contemporanea, tanto che persino Richard Dawkins, un autore che ha fatto della relazione tra geni e comportamento il punto forte della sua proposta teorica, sembra condividerla. Nel libro Il gene egoista (Mondadori, 1992) egli afferma la necessità di introdurre una linea di demarcazione tra l'essere umano e tutti gli altri animali. Dopo aver sostenuto che è la cultura a rendere unica la nostra specie, Dawkins dichiara che le varie forme di abbigliamento, costumi, cerimonie, architettura e tecnologia «si sono tutte evolute nei tempi storici in un modo che sembra accelerato dall'evoluzione genetica, ma che in realtà con essa non ha niente a che vedere». Spiazzando il lettore, egli sostiene che per quanto «costruiti come macchine dei geni e coltivati come macchine dei memi» gli esseri umani, unici animali sulla terra, hanno il potere di ribellarsi «alla tirannia dei replicatori egoisti». L'evoluzione culturale segue leggi sue proprie, che hanno il potere di sostituirsi all'evoluzione biologica. Dawkins si sorprende di essere accusato di dualismo - a noi sorprende che lui possa sorprendersi.
Ultime nuove sul cervello
Il punto non è riconoscere la svolta evolutiva che l'avvento della cultura impone all'essere umano. Il punto è stabilire se questa svolta comporti davvero una cesura con il resto della natura. Ciò che è in questione è capire se davvero l'evoluzione culturale abbia posto fine all'evoluzione biologica. Se, in altre parole, la flessibilità e la velocità di trasmissione dei memi (le unità di base della trasmissione culturale) abbiano comportato l'immobilità organica di cui parla Wallace. L'evoluzione del sistema nervoso umano è considerata una prova di questa tesi. Le competenze che caratterizzano l'essere umano dipendono dalle dimensioni e dalla straordinaria complessità del suo cervello. Ora, la costruzione del cervello umano è il prodotto di una lunga storia evoluta. È opinione comune che, dopo la divisione tra umani e scimpanzé (5-6 milioni di anni fa), il sistema nervoso abbia continuato a mutare sino a produrre il cervello di Homo sapiens (200.000 anni fa). Da allora, con l'avvento della cultura, il cervello umano non è più mutato. Questa tesi è largamente condivisa da scienziati, antropologi e filosofi. Calma piatta su questo fronte.
Prima di raccogliere il sasso nello stagno
Ora, Bruce Lahn, genetista dell'Università di Chicago, ha gettato il classico sasso nello stagno pubblicando i risultati delle ricerche del suo gruppo in due articoli usciti il 9 settembre sulla rivista Science. I dati sperimentali prodotti testimoniano a favore della tesi che il cervello di Homo sapiens abbia subito variazioni sino ad epoche molto recenti (e probabilmente è destinato a subirne in futuro). Risultati di questo tipo sono di straordinario interesse e offrono lo spunto per considerazioni di carattere più generale. Con due premesse. La prima è che i dati empirici aspettano, come ovvio, ulteriori conferme. La seconda consiste in un invito a considerare il fenomeno in tutta la sua complessità. Dopo aver studiato il ruolo di più di 200 geni implicati nello sviluppo del sistema nervoso, Lahn e i suoi collaboratori sono arrivati alla conclusione (per altro nota) che le mutazioni genetiche necessarie all'evoluzione del cervello umano riguardano «migliaia di mutazioni in centinaia (se non migliaia) di geni». Parlare del rapporto tra geni e cervello esclude, dunque, ogni visione che associ alla mutazione di un singolo gene la variazione di un singolo carattere fenotipico. Fatte queste premesse, l'attenzione del gruppo di Lahn si è concentrata sul ruolo giocato da due specifici geni nell'evoluzione del cervello umano: Aspm (abnormal spindle-like microcephaly associated) e Microcephalin associati entrambi alla regolazione delle dimensioni del cervello - negli umani, in effetti, il mancato funzionamento di questi geni causa la microcefalia, un difetto evolutivo caratterizzato da una severa riduzione delle dimensioni cerebrali.
In lavori precedenti il gruppo di Lahn aveva già raggiunto un importante risultato dimostrando che i due geni Microcephalin e Aspm avevano subìto significative (e rapide) mutazioni nel corso dell'evoluzione che dai primati porta agli umani. A partire dalla constatazione che i due geni sono responsabili di alcuni aspetti dello sviluppo cerebrale degli umani nel corso della loro storia evolutiva, i ricercatori si sono posti una ulteriore domanda: la selezione naturale ha ancora effetti su questi geni dopo la costituzione del cervello di Homo sapiens?
Due i risultati interessanti della ricerca appena pubblicata. Il primo è che i geni responsabili dell'incremento della massa cerebrale restano sotto la pressione della selezione naturale anche dopo la formazione dell'uomo moderno: gli autori hanno registrato l'emergere di modificazioni del gene Microcephalin riferibili a circa 37.000 anni fa e modificazioni di Aspm ancora più recenti, relative a 5.800 anni fa. Il secondo risultato, di ordine teorico più generale, è la messa in relazione delle variazioni della massa cerebrale con alcune tappe dell'evoluzione culturale. La mutazione di Microcephalin coincide, secondo Lahn, con l'emergenza della cultura simbolica; la nuova mutazione di Aspm coincide invece con la nascita della scrittura, l'espandersi dell'agricoltura e l'avvento del processo di urbanizzazione.
Alcuni scienziati hanno bollato come «speculative» queste associazioni, considerandole perciò poco attendibili. Ma le considerazioni speculative (se confortate dai dati empirici, ovviamente) hanno il valore specifico di mostrare le connessioni tra i risultati particolari di ogni singola ricerca e i contesti di riflessione di ordine più generale. Ciò che è davvero importante per la maggior parte di noi (non per uno sparuto gruppo di scienziati), d'altra parte, è capire se davvero le ricerche sul cervello possano aiutarci a comprendere i segreti della natura umana.
Tra geni e cultura le relazioni sono indirette
Certo, le considerazioni speculative devono essere fatte con estrema cautela. Innanzitutto perché i dati sperimentali aspettano ulteriori conferme. Ma soprattutto per una questione di carattere più generale: perché dati come quelli proposti da Lahn mettono in luce soltanto relazioni altamente indirette tra geni e cultura. Sostenere che una variazione del gene Aspm coincide, poniamo, con l'avvento della scrittura non significa sostenere che la mutazione genetica è la causa diretta di tale avvento (se così fosse, d'altra parte, dovremmo parlare - come a volte purtroppo si fa - di un «gene della scrittura»). Detto questo, tuttavia, affermare che le relazioni tra geni e cultura sono soltanto indirette non significa dire che non sono importanti. I risultati di Lahn ci comunicano che due geni sono implicati nello sviluppo delle dimensioni cerebrali. Ora, quello che si può sostenere a partire da questi dati è che geni di un certo tipo regolano la costruzione di certi tipi di cervello. Di più: poiché certi tipi di cervello sono capaci di abilità cognitive specifiche, ciò che si può sostenere è che le competenze cognitive alla base della trasmissione e dell'acquisizione delle conoscenze che costituiscono la cultura degli umani dipendono dallo specifico cervello che essi hanno a disposizione. Per quanto non sia possibile studiare direttamente i rapporti tra geni e cultura è dunque plausibile studiare la cultura (almeno alcuni aspetti di essa) come il prodotto dell'attività cerebrale.
La scienza cognitiva e la neuroscienza contemporanee hanno fatto enormi passi in avanti in questa direzione: basterebbe soltanto pensare alla tesi della «epidemiologia delle credenze» proposta da Dan Sperber nel suo Il contagio delle idee (Feltrinelli, 1996) per dar conto del ruolo dei processi cognitivi nell'avvento della cultura umana; o, per citare un altro caso, basterebbe riferirsi al ruolo dei «neuroni specchio» analizzato da Vittorio Gallese per spiegare le forme di base - empatiche e imitative - degli scambi interpersonali tra gli individui di una società.
Le ricerche di Lahn hanno il pregio di mostrare che la cultura non sposta l'essere umano su un piano di indipendenza dalla biologia (non lo rende un angelo disincarnato). Dire che il cervello ha conosciuto tappe evolutive successive all'avvento di Homo sapiens significa sostenere che la sua struttura organica non è immodificabile. L'evoluzione culturale non sostituisce l'evoluzione naturale: non può farlo perché la cultura non è autonoma e indipendente dalla biologia degli umani. La scoperta di Lahn è una prova del fatto che l'essere umano civilizzato non ha perso la sua animalità. La tesi contraria, che trova ancora largo consenso tra antropologi e filosofi, si fonda su un dualismo tra cultura e biologia che non ha più ragione di essere. L'essere umano va pensato in una prospettiva di unificazione. Come realizzare tale prospettiva?
Ritorno a un'ottica continuista
Tornando a Darwin, in primo luogo. Il suo commento al testo di Wallace, che citavamo all'inizio, rappresenta una prima mossa in questa direzione. Contro gli esiti spiritualistici di Wallace, Darwin scrive L'origine dell'uomo con l'obiettivo di spiegare l'avvento delle facoltà superiori umane in una prospettiva continuista. Da questo punto di vista il «rovesciamento» di prospettiva che caratterizza l'avvento della cultura non è in contrasto con i principi di base dell'evoluzione biologica. È quello che Tort chiama l'effetto reversivo: «La selezione naturale ha selezionato gli istinti sociali, che a loro volta hanno sviluppato i comportamenti di assistenza ai deboli e hanno favorito l'attuazione di disposizioni etiche, istituzionali e legali antisellettive e antieliminatorie. In tal modo la selezione naturale ha operato essa stessa per il suo deperimento, seguendo lo stesso modello dell'evoluzione selettiva: l'indebolimento dell'antica forma e la crescita selezionata di una forma nova: in questo caso una competizione i cui fini sono sempre più la moralità, l'altruismo e i valori sociali legati all'intelligenza e all'educazione».
L'effetto «reversivo» spiega come un elemento di rottura (il passaggio dal biologico al culturale) possa essere inquadrato all'interno di una prospettiva continuista. Resta il fatto, tuttavia, che l'effetto «reversivo» ha come esito una «interruzione» della selezione naturale. L'idea che la cultura e le facoltà superiori una volta formate prendano comunque il posto dell'evoluzione biologica rimane forte in questa prospettiva. Si può andare oltre Darwin, però. E i risultati presentati dal gruppo di Lahn incoraggiano, appunto, un passo ulteriore.
Nel sottolineare che ogni acquisizione culturale è un caso di biotecnologia, Roberto Marchesini indica in Post-human (Bollati Boringhieri, 2002) una via percorribile in questa direzione. Dal suo punto di vista, l'avvento della cultura, senza porre l'essere umano al di fuori del processo selettivo, ha avuto il potere di «spostare» la pressione evolutiva. Si pensi al caso degli antibiotici. Quando ancora non esistevano, l'organismo che non era in grado di produrre una risposta naturale (processo di antibiosi) ai batteri dannosi veniva selezionato con la morte. Con l'avvento degli antibiotici l'intreccio coevolutivo uomo-batterio si arricchì di un nuovo elemento, la molecola di sintesi, capace di imprimere una nuova direzione alla pressione selettiva (sia nell'uomo che deve tollerarla, sia nel batterio che deve superarla). Secondo Marchesini ogni «slittamento della pressione evolutiva, realizzato attraverso la mediazione tecnologica, iscrive di fatto quella tecnologia nel patrimonio genetico della specie». Da questo punto di vista gli esseri umani sono sistemi «ibridi» in cui non ha senso considerare la cultura come un elemento che si contrappone al sistema biologico per completarlo: il sistema culturale è, in questa prospettiva, «incarnato nella virtualità biologica».
Una verifica empirica sulla strada del futuro
Anche le forme residue di dualismo, in questo modo, sembrano lasciare il campo a una prospettiva unitaria dell'essere umano. Il fatto che gli umani siano animali culturali, come abbiamo visto, non è una condizione sufficiente a preservarli dal destino che li accomuna al resto del mondo animale. Di più: la natura ibrida degli umani apre la possibilità che il processo di acculturazione sia una delle condizioni di base delle trasformazioni organiche dell'umanità guidate dalla pressione evolutiva. Gli esperimenti di Lahn offrono una verifica empirica all'ipotesi che ciò che è accaduto in un passato recente possa accadere ancora in futuro.
ilmanifesto.it
19.9.05
Quel sesto senso che scandaglia lo stare nel mondo
Un'intervista con Claudio Sini. La filosofia non è solo la trasmissione di una dottrina millenaria, né il commento arguto dei testi della tradizione, ma pensiero in azione. Un percorso intellettuale in cui l'incontro con il «materialismo radicale» di Spinoza e la critica alla metafisica di Nietzsche sono le premesse per definire una «filosofia dell'evento»
ROBERTO CICCARELLI
Tutto è iniziato due anni fa, al teatro Franco Parenti di Milano dove, tra Febbraio e Novembre, vennero presentati alcuni volumi filosofici, dalla nuova traduzione di Sentieri Interrotti di Martin Heidegger a Stato di eccezione di Giorgio Agamben e Quando il verbo si fa carne di Paolo Virno. Normale attività di promozione editoriale, affermò qualcuno. Salvo poi, ricordano alcuni testimoni, constatare che il teatro era pieno all'inverosimile, trasformato in una specie di Palavobis della filosofia. Un successo inaspettato che ha prima fatto pensare alla nascita di una nuova moda, anche se qualcuno già si domandava se un seminario sul Timeo di Platone potesse essere più «in» di un reality show. Poi, davanti al ripetersi di queste iniziative, e al consolidarsi di festival dedicati alla filosofia, le considerazioni si sono fatte più serie e qualcuno ha iniziato a interrogarsi sul nuovo rapporto tra il pubblico e la filosofia. Trionfo del marketing filosofico? Ritorno al vecchio sogno illuministico di un'opinione pubblica colta che ama ritrovarsi nei teatri e nelle piazze per dialogare su temi nobili?
Anche Carlo Sini venne invitato una di quelle sere a presentare un volume. A Milano Sini è conosciuto non solo per il suo ruolo di professore di filosofia teoretica alla Statale ma anche per quello di brillante conferenziere. Un'attitudine alla filosofia, la sua, che ha più volte descritto nei termini di una «pedagogia», intesa non come l'attitudine del filosofo a insegnare delle verità intramontabili ad un pubblico indistinto, ma come un'etica che mostra a quel pubblico «lo stare nel mondo» del filosofo. C'è un libro di Fulvio Papi, Gli amati dintorni (Edizioni Ghibli, 2001) che ci consente di risalire alla storia intellettuale di questo filosofo e alla sua biografia.
Avviato inizialmente allo studio della fenomenologia, risultato dell'incontro con Enzo Paci, Sini con il tempo ha cambiato «orientamento». «Il problema della verità diventava per lui - scrive Papi - il dono filosofico di fare emergere la verità della cosa stessa al di là di ogni costruzione scientifica e intellettuale che la volesse riconoscere in ogni forma costituita». Dopo l'incontro con il pragmatismo americano (Charles S. Peirce) e con Derrida, Foucault e Deleuze, il suo rapporto con Nietzsche e Heidegger, lo spinsero a ridimensionare il soggettivismo della fenomenologia, ma anche a decostruire la metafisica da Aristotele in poi come una forma di metafisica e detronizzare il linguaggio «che altro non è che metafora» scrive ancora Papi. Carlo Sini è una figura ormai rara di filosofo, perché invita a fare filosofia, saltando a piè pari le sue divisioni metodologiche e le sue partizioni storiche. «Sini non ripete - scrive ancora Papi - non volgarizza, non importa in una terra della seconda mano le macchine delle altre filosofie. Non si identifica con una figura saliente del pensare contemporaneo».
Dall'uso dei registri diversi, dal gioco con i concetti e le idee, scaturisce dunque la figura di un filosofo capace di spiegare l'origine dei concetti, ma anche di guardare a ciò che accade fugacemente nel presente. Questa abilità di cogliere il sapore di un'epoca attraverso la filosofia Sini la spiega attraverso l'esercizio quotidiano (in uno dei sei volumi della sua monumentale Figure dell'enciclopedia filosofica, Jaca Book 2004-2005, parla di un vero e proprio «abito filosofico») del pensare e del domandare che si può riassumere in una filosofia dell'evento. «Per me la filosofia non è una disciplina dai confini rigidi - spiega Sini - il filosofo è piuttosto un mimo che mostra alla gente, con il suo agire, con il suo corpo, che cosa vuole dire porsi il problema della verità».
Oggi Carlo Sini è a Sassuolo per intervenire sul tema «sentire il mondo» al Festival della filosofia.
Piazze, teatri. Sono questi gli spazi dove si fa la filosofia, oggi?
A Milano, rispetto agli anni in cui l'amministrazione si poneva il problema dell'organizzazione delle attività culturali, c'è stato un grande cambiamento. Dopo il craxismo, con i vari sindaci, da Tognoli a Pillitteri, questa idea di politica culturale è andata sparendo. Certo, oggi ci sono iniziative come quelle del teatro Parenti, o questa di Modena, che riuniscono incredibili folle. Diciamo che rispetto a quegli anni, le iniziative culturali e quelle sulla filosofia si sono fatte più popolari. La cosa non mi sorprende più di tanto, ho sempre pensato che fosse normale per i filosofi incontrare la gente fuori dall'università.
Il suo si può definire un uso pubblico della filosofia?
Sì, perché la filosofia deve continuare a mantenere un senso pubblico e deve evitare di chiudersi nello specialismo. Correrebbe il rischio di perdere la sua ragion d'essere. Ma allo stesso tempo devo dire che non mi piacciono quegli intellettuali da prima pagina che intervengono per esprimere la loro opinione su ogni fatto di costume o di cronaca ed equivocano il senso di questa pubblicità della filosofia. Quando ho intravisto questo rischio io stesso ho rinunciato a continuare a collaborare con il Corriere della sera con il quale ho lavorato per undici anni.
Di fronte ai rischi di cui parla, come pensa di salvaguardare questo ruolo del filosofo?
Credo che bisogna avere saggezza e di fronte a queste platee non cedere all'illusione di pretendere che ti trovino sempre stimolante. Questa illusione pericolosa deriva da un equivoco, quello di credere che la nostra scommessa stia nel rendere popolare la filosofia e non di portare il pubblico alla filosofia. E' un'illusione che deriva anche dall'università e dall'organizzazione dei suoi studi. Naturalmente l'esigenza di farsi capire da tutti è giusta e la filosofia non deve rinunciarci. Ma in agguato c'è quell'illusione per cui tra chi parla e chi ascolta c'è sempre una democrazia. La filosofia non può ignorare questa differenza. Con questo non voglio dire che debba rassegnarsi al ruolo di trasmissione di una dottrina millenaria, al commento dei testi della tradizione, che rimane un'attività importante. Deve però adottare un'attitudine pedagogica con la quale io spiego il suo agire politico: chiamare i non filosofi alla partecipazione, alla costruzione in comune di un'etica.
Un'etica, dunque, non popolare ma che si rivolge ad ogni singolo componente del pubblico. Ma come avviene questa costruzione collettiva?
Non penso che avvenga davanti a delle grandi platee. I festival, i teatri sono solo dei momenti di presentazione della filosofia al pubblico. La costruzione di un'etica segue altri percorsi. La si può favorire attraverso seminari, ma alla base c'è qualcos'altro. Credo infatti che ogni volta ci sia un incontro, tra chi parla e chi ascolta. E' un evento che può spingere qualcuno ad approfondire. E' sempre stato così e non cambierà mai. E' difficile dire quando questo avvenga, ma certo solo l'evento può spingere qualcuno all'esercizio filosofico.
Oggi si diffonde l'idea che la filosofia serva a dare consigli sulla vita quotidiana, a risolvere problemi psicologici, a gestire le emozioni. Quando lei dice che la filosofia serve a «stare nel mondo» allude a questo oppure ad altro?
Sicuramente a qualcos'altro. E' condivisibile l'idea che la filosofia sia una forma di saggezza che trasformi il soggetto filosofante, ma questo non vuol dire che sia la ricetta per avere successo nella vita. La ridurremmo ad una rubrica per cuori solitari. La filosofia ha per oggetto la vita, ma anche la relazione con gli altri. Con questo voglio dire che chi fa filosofia si rivolge alla propria vita, ma la sua attività non è risolta nella vita, va oltre l'io ed è un incontro con l'Altro. L'incontro con la verità è la domanda che mi pongo in ogni momento della vita. Questo è il senso più alto della filosofia, comprendere la verità che è quell'evento in cui è iscritto il destino dell'uomo.
L'etica che lei propone può essere un antidoto contro quella tradizione che pensa che la filosofia abbia il ruolo di rigenerare le cose pubbliche e il potere di creare un popolo di filosofi?
Metta insieme un gruppo di filosofi e scoprirà che non sanno amministrare nemmeno un condominio. Sin dai tempi di Platone, quella del filosofo-re è un'idea utopistica e non è nemmeno augurabile. Il filosofo procede invece in senso opposto: attraverso il suo esercizio raggiunge l'autoconsapevolezza di cui tutti possono giovarsi. Il filosofo non è un re, è piuttosto un mimo della verità, mostra agli altri cosa vuol dire porsi il problema della verità, rimette in discussione le credenze, i significati, i discorsi. Questa attività continua d'interrogazione si rivolge all'evento, ma ha anche una ricaduta sulla vita del soggetto, sulle sue pratiche, sul modo in cui conduce la propria vita.
Oggi lei parla a Sassuolo sul tema «sentire il mondo». Di cosa si tratta?
Vorrei parlare di una specie di paradosso, o meglio di un vero e proprio errore in cui la cultura occidentale è incorsa: l'opposizione tra la conoscenza che deriva dai sensi e quella che proviene dalla mente. Questa opposizione continua nella scienza che ci dice che il mondo sensibile è fantasmatico e dai sensi non può che venire una percezione falsata del mondo. Ma non è così perché una delle nostre principali illusioni è quella di avere cinque sensi delimitati, fisiologicamente incompatibili tra di loro. Questo non ci aiuta a capire ad esempio l'arte della poesia che parla dei colori senza poterli mostrare, oppure la musica che parla senza utilizzare le parole. Io credo che per capire questo tipo di esperienze, noi abbiamo bisogno di un sesto senso, cioè di quell'esperienza originaria in cui la distinzione tra i cinque sensi è del tutto inattendibile. C'è infatti un terreno unitario di senso, che io chiamo appunto «il sentire del mondo», che ci permette di andare oltre la percezione dei cinque sensi.
In che modo si manifesta questo «sesto senso»?
Nell'esperienza del bambino appena nato, ad esempio, quando lui non avverte ancora l'esistenza della madre. In quel momento il bambino avverte la differenza tra lui e il mondo, il suo sesto senso lo aiuta a riconoscere cioè che tra lui e la madre c'è una distanza che deve essere colmata. Negli adulti questa distanza con il mondo viene mascherata intellettualmente, ma il sesto senso permette di conoscere con facoltà diversa da quella del pensiero. Si può ad esempio ascoltare con gli occhi, sentire con l'udito, ragionare con il tatto, vedere delle voci. I libri di Oliver Sachs sui muti, sui sordi sono esemplari da questo punto di vista. Queste persone che hanno perso l'uso di un senso tornano all'esperienza originaria, quella di sentire con il corpo. In un certo senso queste ricerche, come quelle più attuali dei neuofisiologi che hanno scoperto che i sensi possiedono una plasticità, possiedono cioè la capacità di adattarsi e di sviluppare altre capacità, dimostrano che le nostre scienze attuali sono ancora troppo cartesiane e poco spinoziane. L'ufficio della filosofia dovrebbe essere quello di richiamare le scienze allo spinozismo.
A proposito di Spinoza, nel suo ultimo libro, «Archivio Spinoza. La verità e la vita», lei scrive che è stato l'unico filosofo occidentale ad avere compreso la natura del mondo, ad avere capito cioè che cosa significa «sentire il mondo». Perché?
Perché quello di Spinoza è un materialismo radicale. Il suo mondo non è il mondo del cosmologo, né del teologo, né del metafisico. Il mondo è l'esistente puro e semplice, quello che lui chiama causa sui, quella che lui chiama «la sostanza». Spinoza rivela che il mondo è eterno, non parte da niente e non ha nessun presupposto, nel senso che non è creato da un dio. Tutti gli dèi sono pensieri del nostro mondo, non sono fuori dal mondo. Spinoza non si è limitato a mettere, come Cartesio, l'infinità del mondo all'opera nella scienza o nelle scienze umane (Kant). Spinoza è stato l'unico ad avere pensato il mondo come evento che sta accadendo. Per lui il mondo è evento del mondo, vivere nel mondo significa stare dentro l'evento. Da questa premessa è chiaro perché il suo «sentire il mondo» supera il dualismo mente/corpo, quello tra la conoscenza dei sensi e la conoscenza razionale.
Perché allora la filosofia del Novecento ha fatto così tanta fatica a leggere e a comprendere Spinoza?
Perché Spinoza ha pensato in maniera non tradizionale, fuori da ogni tradizione e da ogni filosofia, che il mondo è intrascendibile. Heidegger infatti lo considera un metafisico da lasciare nel Seicento. Husserl, la fenomenologia e l'esistenzialismo gli preferiscono Cartesio. Era l'eretico per definizione, sin da quando veniva chiamato «il cane Spinoza». Solo un altro eretico, Nietzsche, si è messo all'altezza di Spinoza dicendo: la metafisica che dice che l'essenza precede l'esistenza è finita. Il Novecento non lo ha capito perché Spinoza ha costruito un'etica e non un'ontologia. A lui non interessa che cos'è l'essere, per lui la cosa più importante è sapere come stare nel mondo, come si vive l'evento che è il mondo. E' ciò che io chiamo il suo «pensiero abissale».
ilmanifesto.it
ROBERTO CICCARELLI
Tutto è iniziato due anni fa, al teatro Franco Parenti di Milano dove, tra Febbraio e Novembre, vennero presentati alcuni volumi filosofici, dalla nuova traduzione di Sentieri Interrotti di Martin Heidegger a Stato di eccezione di Giorgio Agamben e Quando il verbo si fa carne di Paolo Virno. Normale attività di promozione editoriale, affermò qualcuno. Salvo poi, ricordano alcuni testimoni, constatare che il teatro era pieno all'inverosimile, trasformato in una specie di Palavobis della filosofia. Un successo inaspettato che ha prima fatto pensare alla nascita di una nuova moda, anche se qualcuno già si domandava se un seminario sul Timeo di Platone potesse essere più «in» di un reality show. Poi, davanti al ripetersi di queste iniziative, e al consolidarsi di festival dedicati alla filosofia, le considerazioni si sono fatte più serie e qualcuno ha iniziato a interrogarsi sul nuovo rapporto tra il pubblico e la filosofia. Trionfo del marketing filosofico? Ritorno al vecchio sogno illuministico di un'opinione pubblica colta che ama ritrovarsi nei teatri e nelle piazze per dialogare su temi nobili?
Anche Carlo Sini venne invitato una di quelle sere a presentare un volume. A Milano Sini è conosciuto non solo per il suo ruolo di professore di filosofia teoretica alla Statale ma anche per quello di brillante conferenziere. Un'attitudine alla filosofia, la sua, che ha più volte descritto nei termini di una «pedagogia», intesa non come l'attitudine del filosofo a insegnare delle verità intramontabili ad un pubblico indistinto, ma come un'etica che mostra a quel pubblico «lo stare nel mondo» del filosofo. C'è un libro di Fulvio Papi, Gli amati dintorni (Edizioni Ghibli, 2001) che ci consente di risalire alla storia intellettuale di questo filosofo e alla sua biografia.
Avviato inizialmente allo studio della fenomenologia, risultato dell'incontro con Enzo Paci, Sini con il tempo ha cambiato «orientamento». «Il problema della verità diventava per lui - scrive Papi - il dono filosofico di fare emergere la verità della cosa stessa al di là di ogni costruzione scientifica e intellettuale che la volesse riconoscere in ogni forma costituita». Dopo l'incontro con il pragmatismo americano (Charles S. Peirce) e con Derrida, Foucault e Deleuze, il suo rapporto con Nietzsche e Heidegger, lo spinsero a ridimensionare il soggettivismo della fenomenologia, ma anche a decostruire la metafisica da Aristotele in poi come una forma di metafisica e detronizzare il linguaggio «che altro non è che metafora» scrive ancora Papi. Carlo Sini è una figura ormai rara di filosofo, perché invita a fare filosofia, saltando a piè pari le sue divisioni metodologiche e le sue partizioni storiche. «Sini non ripete - scrive ancora Papi - non volgarizza, non importa in una terra della seconda mano le macchine delle altre filosofie. Non si identifica con una figura saliente del pensare contemporaneo».
Dall'uso dei registri diversi, dal gioco con i concetti e le idee, scaturisce dunque la figura di un filosofo capace di spiegare l'origine dei concetti, ma anche di guardare a ciò che accade fugacemente nel presente. Questa abilità di cogliere il sapore di un'epoca attraverso la filosofia Sini la spiega attraverso l'esercizio quotidiano (in uno dei sei volumi della sua monumentale Figure dell'enciclopedia filosofica, Jaca Book 2004-2005, parla di un vero e proprio «abito filosofico») del pensare e del domandare che si può riassumere in una filosofia dell'evento. «Per me la filosofia non è una disciplina dai confini rigidi - spiega Sini - il filosofo è piuttosto un mimo che mostra alla gente, con il suo agire, con il suo corpo, che cosa vuole dire porsi il problema della verità».
Oggi Carlo Sini è a Sassuolo per intervenire sul tema «sentire il mondo» al Festival della filosofia.
Piazze, teatri. Sono questi gli spazi dove si fa la filosofia, oggi?
A Milano, rispetto agli anni in cui l'amministrazione si poneva il problema dell'organizzazione delle attività culturali, c'è stato un grande cambiamento. Dopo il craxismo, con i vari sindaci, da Tognoli a Pillitteri, questa idea di politica culturale è andata sparendo. Certo, oggi ci sono iniziative come quelle del teatro Parenti, o questa di Modena, che riuniscono incredibili folle. Diciamo che rispetto a quegli anni, le iniziative culturali e quelle sulla filosofia si sono fatte più popolari. La cosa non mi sorprende più di tanto, ho sempre pensato che fosse normale per i filosofi incontrare la gente fuori dall'università.
Il suo si può definire un uso pubblico della filosofia?
Sì, perché la filosofia deve continuare a mantenere un senso pubblico e deve evitare di chiudersi nello specialismo. Correrebbe il rischio di perdere la sua ragion d'essere. Ma allo stesso tempo devo dire che non mi piacciono quegli intellettuali da prima pagina che intervengono per esprimere la loro opinione su ogni fatto di costume o di cronaca ed equivocano il senso di questa pubblicità della filosofia. Quando ho intravisto questo rischio io stesso ho rinunciato a continuare a collaborare con il Corriere della sera con il quale ho lavorato per undici anni.
Di fronte ai rischi di cui parla, come pensa di salvaguardare questo ruolo del filosofo?
Credo che bisogna avere saggezza e di fronte a queste platee non cedere all'illusione di pretendere che ti trovino sempre stimolante. Questa illusione pericolosa deriva da un equivoco, quello di credere che la nostra scommessa stia nel rendere popolare la filosofia e non di portare il pubblico alla filosofia. E' un'illusione che deriva anche dall'università e dall'organizzazione dei suoi studi. Naturalmente l'esigenza di farsi capire da tutti è giusta e la filosofia non deve rinunciarci. Ma in agguato c'è quell'illusione per cui tra chi parla e chi ascolta c'è sempre una democrazia. La filosofia non può ignorare questa differenza. Con questo non voglio dire che debba rassegnarsi al ruolo di trasmissione di una dottrina millenaria, al commento dei testi della tradizione, che rimane un'attività importante. Deve però adottare un'attitudine pedagogica con la quale io spiego il suo agire politico: chiamare i non filosofi alla partecipazione, alla costruzione in comune di un'etica.
Un'etica, dunque, non popolare ma che si rivolge ad ogni singolo componente del pubblico. Ma come avviene questa costruzione collettiva?
Non penso che avvenga davanti a delle grandi platee. I festival, i teatri sono solo dei momenti di presentazione della filosofia al pubblico. La costruzione di un'etica segue altri percorsi. La si può favorire attraverso seminari, ma alla base c'è qualcos'altro. Credo infatti che ogni volta ci sia un incontro, tra chi parla e chi ascolta. E' un evento che può spingere qualcuno ad approfondire. E' sempre stato così e non cambierà mai. E' difficile dire quando questo avvenga, ma certo solo l'evento può spingere qualcuno all'esercizio filosofico.
Oggi si diffonde l'idea che la filosofia serva a dare consigli sulla vita quotidiana, a risolvere problemi psicologici, a gestire le emozioni. Quando lei dice che la filosofia serve a «stare nel mondo» allude a questo oppure ad altro?
Sicuramente a qualcos'altro. E' condivisibile l'idea che la filosofia sia una forma di saggezza che trasformi il soggetto filosofante, ma questo non vuol dire che sia la ricetta per avere successo nella vita. La ridurremmo ad una rubrica per cuori solitari. La filosofia ha per oggetto la vita, ma anche la relazione con gli altri. Con questo voglio dire che chi fa filosofia si rivolge alla propria vita, ma la sua attività non è risolta nella vita, va oltre l'io ed è un incontro con l'Altro. L'incontro con la verità è la domanda che mi pongo in ogni momento della vita. Questo è il senso più alto della filosofia, comprendere la verità che è quell'evento in cui è iscritto il destino dell'uomo.
L'etica che lei propone può essere un antidoto contro quella tradizione che pensa che la filosofia abbia il ruolo di rigenerare le cose pubbliche e il potere di creare un popolo di filosofi?
Metta insieme un gruppo di filosofi e scoprirà che non sanno amministrare nemmeno un condominio. Sin dai tempi di Platone, quella del filosofo-re è un'idea utopistica e non è nemmeno augurabile. Il filosofo procede invece in senso opposto: attraverso il suo esercizio raggiunge l'autoconsapevolezza di cui tutti possono giovarsi. Il filosofo non è un re, è piuttosto un mimo della verità, mostra agli altri cosa vuol dire porsi il problema della verità, rimette in discussione le credenze, i significati, i discorsi. Questa attività continua d'interrogazione si rivolge all'evento, ma ha anche una ricaduta sulla vita del soggetto, sulle sue pratiche, sul modo in cui conduce la propria vita.
Oggi lei parla a Sassuolo sul tema «sentire il mondo». Di cosa si tratta?
Vorrei parlare di una specie di paradosso, o meglio di un vero e proprio errore in cui la cultura occidentale è incorsa: l'opposizione tra la conoscenza che deriva dai sensi e quella che proviene dalla mente. Questa opposizione continua nella scienza che ci dice che il mondo sensibile è fantasmatico e dai sensi non può che venire una percezione falsata del mondo. Ma non è così perché una delle nostre principali illusioni è quella di avere cinque sensi delimitati, fisiologicamente incompatibili tra di loro. Questo non ci aiuta a capire ad esempio l'arte della poesia che parla dei colori senza poterli mostrare, oppure la musica che parla senza utilizzare le parole. Io credo che per capire questo tipo di esperienze, noi abbiamo bisogno di un sesto senso, cioè di quell'esperienza originaria in cui la distinzione tra i cinque sensi è del tutto inattendibile. C'è infatti un terreno unitario di senso, che io chiamo appunto «il sentire del mondo», che ci permette di andare oltre la percezione dei cinque sensi.
In che modo si manifesta questo «sesto senso»?
Nell'esperienza del bambino appena nato, ad esempio, quando lui non avverte ancora l'esistenza della madre. In quel momento il bambino avverte la differenza tra lui e il mondo, il suo sesto senso lo aiuta a riconoscere cioè che tra lui e la madre c'è una distanza che deve essere colmata. Negli adulti questa distanza con il mondo viene mascherata intellettualmente, ma il sesto senso permette di conoscere con facoltà diversa da quella del pensiero. Si può ad esempio ascoltare con gli occhi, sentire con l'udito, ragionare con il tatto, vedere delle voci. I libri di Oliver Sachs sui muti, sui sordi sono esemplari da questo punto di vista. Queste persone che hanno perso l'uso di un senso tornano all'esperienza originaria, quella di sentire con il corpo. In un certo senso queste ricerche, come quelle più attuali dei neuofisiologi che hanno scoperto che i sensi possiedono una plasticità, possiedono cioè la capacità di adattarsi e di sviluppare altre capacità, dimostrano che le nostre scienze attuali sono ancora troppo cartesiane e poco spinoziane. L'ufficio della filosofia dovrebbe essere quello di richiamare le scienze allo spinozismo.
A proposito di Spinoza, nel suo ultimo libro, «Archivio Spinoza. La verità e la vita», lei scrive che è stato l'unico filosofo occidentale ad avere compreso la natura del mondo, ad avere capito cioè che cosa significa «sentire il mondo». Perché?
Perché quello di Spinoza è un materialismo radicale. Il suo mondo non è il mondo del cosmologo, né del teologo, né del metafisico. Il mondo è l'esistente puro e semplice, quello che lui chiama causa sui, quella che lui chiama «la sostanza». Spinoza rivela che il mondo è eterno, non parte da niente e non ha nessun presupposto, nel senso che non è creato da un dio. Tutti gli dèi sono pensieri del nostro mondo, non sono fuori dal mondo. Spinoza non si è limitato a mettere, come Cartesio, l'infinità del mondo all'opera nella scienza o nelle scienze umane (Kant). Spinoza è stato l'unico ad avere pensato il mondo come evento che sta accadendo. Per lui il mondo è evento del mondo, vivere nel mondo significa stare dentro l'evento. Da questa premessa è chiaro perché il suo «sentire il mondo» supera il dualismo mente/corpo, quello tra la conoscenza dei sensi e la conoscenza razionale.
Perché allora la filosofia del Novecento ha fatto così tanta fatica a leggere e a comprendere Spinoza?
Perché Spinoza ha pensato in maniera non tradizionale, fuori da ogni tradizione e da ogni filosofia, che il mondo è intrascendibile. Heidegger infatti lo considera un metafisico da lasciare nel Seicento. Husserl, la fenomenologia e l'esistenzialismo gli preferiscono Cartesio. Era l'eretico per definizione, sin da quando veniva chiamato «il cane Spinoza». Solo un altro eretico, Nietzsche, si è messo all'altezza di Spinoza dicendo: la metafisica che dice che l'essenza precede l'esistenza è finita. Il Novecento non lo ha capito perché Spinoza ha costruito un'etica e non un'ontologia. A lui non interessa che cos'è l'essere, per lui la cosa più importante è sapere come stare nel mondo, come si vive l'evento che è il mondo. E' ciò che io chiamo il suo «pensiero abissale».
ilmanifesto.it
11.9.05
Effetti perversi delle ideologie
I teorici della critica letteraria americana nella stagione del pentimento /1
Appunti di viaggio dalle università americane. Passate le stagioni delle pretese totalizzanti avanzate dalla teoria letteraria, svanito l'entusiasmo per le teorizzazioni spericolate, oggi domina la sfiducia. E gli studi letterari e umanistici accusano una fase di declino
Tra un eccesso e l'altro Una antologia del dissenso a quattro mani, di Daphne Patai e Will H. Corral
Tempi moderni Un saggio di Elaine Marks titolato, non a caso, Effetti perversi del femminismo
REMO CESERANI
È arrivato il momento, nelle vicende della critica letteraria americana, delle recriminazioni e dei pentimenti. Era forse inevitabile. Dopo gli anni degli entusiasmi (lo sbarco dello strutturalismo francese nel 1966; l'arrivo del decostruzionismo nei primi anni Settanta con la conquista della cittadella di Yale; le battaglie in favore del femminismo, del riscatto delle minoranze etniche e dell'orgoglio gay; il lancio a Berkeley nei primi anni Ottanta del neo-storicismo; l'arrivo dall'Inghilterra negli anni Novanta dei «cultural studies»), dopo gli anni delle teorizzazioni spericolate e delle pretese totalizzanti della Teoria, scritta con la lettera maiuscola, sono arrivati la stagnazione teorica, l'indebolimento complessivo degli studi letterari e umanistici nelle Università, il disorientamento, la sfiducia. Riassume bene questa nuova situazione, raccogliendo le critiche, le autoanalisi spietate, le confessioni di scoraggiamento, un libro (725 fitte pagine) intitolato Theory's Empire. An Anthology of Dissent (Impero della teoria. Un'antologia del dissenso), a cura di Daphne Patai, una professoressa di letteratura brasiliana ad Amherst, e di Will H. Corral, un professore di letteratura ispano-americana a Sacramento (Columbia University Press, 2005, $ 29.50).
Foucault e fiocchi d'avena
Il libro porta sul controfrontespizio un cartoon di Jeff Reid, intitolato «Colazione teorica: una metodologia per ogni mattina», che già chiarisce bene quali sono gli obbiettivi polemici. Vi sono rappresentate tre scatole di fiocchi di cereali da immergere nel latte per la prima colazione, con titoli e pubblicità parodizzati. La prima scatola contiene i Toasties postmoderni, così reclamizzati: «Come tutto quello che avete avuto finora, ma ben mescolato». «Qualcosa di più di un fiocco di cereale, piuttosto un commento sulla natura della cerealità, e la teoria della cerealtività. Con un anello per la decodifica all'interno». La seconda scatola porta la scritta: «Alimenti per una colazione decostruzionista». «Contiene un'abbondante verbosità zuccherina». Due topolini dialogano fra loro. Il primo dice: «Molto secco e insapore, non ti pare?» E l'altro: «La tua domanda è formata, o piuttosto deformata, dai paradigmi cerealicoli delle convenzioni borghesi, che si fondano su nozioni esculatorie fuori moda come gusto, nutrimento e commestibilità?» La terza scatola offre «Fiocchi Foucault». Nella vignetta una voce fuori campo dice: «Ma è vuota!» e ottiene per risposta: «Naturalmente». Terza voce: «È francese, deve essere buona». Il messaggio pubblicitario così definisce il contenuto: «Finalmente, un prodotto per la colazione così complesso che avrete bisogno di un apparato teorico per digerirlo. Non sarà necessario mangiarlo, basterà leggerlo. Un vero tour de force letterario: la colazione come testo!».
Forse è utile commentare un paio di termini usati sul frontespizio dell'antologia. La parola Teoria, scritta con la maiuscola, è diventata un termine onnipresente e onnicomprensivo (imperialistico) nel sistema americano delle discipline. Anche da noi sono comparsi molti insegnamenti universitari con questo termine nel titolo: «Teoria della letteratura», «Teoria dell'arte», «Teoria dell'informazione», «Teoria della comunicazione», ecc. Ma non hanno mai preteso di sostituirsi, come è avvenuto nei dipartimenti di scienze umane delle università statunitensi, a discipline come l'estetica, la retorica o addirittura la filosofia nelle sue branche tradizionali: l'epistemologia, l'etica, e quant'altro. Ciò è avvenuto in seguito ad alcune differenze di fondo fra il sistema culturale americano e quello europeo: l'estetica, come branca della filosofia, si è di molto indebolita dai tempi di Dewey e fa ogni tanto qualche tentativo per risorgere, ma viene continuamente emarginata, così come l'etica. Entrambe vengono sottoposte ai severi controlli della filosofia analitica, vera disciplina dominante ormai da decenni nella cultura anglosassone. La teoria si riduce a metodologia e la storia della cultura ha subìto a sua volta una forte perdita di spessore. Il senso del passato, anche quello più drammatico e apocalittico, alla Benjamin, si è ridotto a rappresentazione piatta del presente, a pura elencazione statistica di eventi e fenomeni. La fortuna, dentro i dipartimenti di studi letterari, della teoria e, da un po' di tempo, dei cultural studies, si spiega anche come un bisogno insoddisfatto di filosofia, di senso della storia, di complessità dell'immaginario.
Dopo le grandi narrazioni
René Wellek, che è presente in questa antologia con un saggio-denuncia del 1983, intitolato significativamente Destroying Literary Studies (Distruggendo gli studi letterari), era arrivato negli Stati Uniti alla fine degli anni Trenta portando con sé la grande tradizione filosofica della fenomenologia tedesca, le esperienze del formalismo russo e dello strutturalismo praghese, il culto inglese della grande tradizione predicato da Leavis, la stilistica analitica di Spitzer e quella storicizzante di Auerbach e aveva dato un grosso contributo all'affermazione della nuova critica letteraria americana con un libro intitolato appunto Theory of Literature (Teoria della letteratura), nato con l'intenzione di dare spessore filosofico alle troppo impressionistiche pratiche di lettura in uso nelle università americane. Un giorno, alla fine degli anni Ottanta, mentre, passeggiando per i boschi del Connecticut discutevamo dell'improvvisa fortuna del decostruzionismo proprio nella sua università di Yale, proprio fra alcuni suoi allievi, si fermò di colpo, mi guardò sconsolato, e disse: «E pensare che io ho scritto un libro intitolato Teoria della letteratura. Adesso è dietro quella parola che si nascondono i più micidiali strumenti per uccidere la letteratura».
Colpisce, inoltre, il fatto che il termine «dissenso», con un improvviso e paradossale rovesciamento di fronte, venga impiegato nel titolo della antologia di Daphne Patai e Will H. Corral per riunire testi spesso classificati come conservatori, almeno dal punto di vista della politica accademica e delle lotte di potere (o di quegli scontri quasi cruenti che sono stati battezzati «guerre culturali»). Quelli che erano un tempo una minoranza innovatrice e dissenziente all'attacco delle cittadelle della tradizione, ora sono divenuti parte dell'istituzione e i conservatori di un tempo si sono trasformati nei portavoce del dissenso. La fine delle ideologie è divenuta essa stessa un'ideologia. L'inevitabile collasso delle grandi narrazioni è slittato esso stesso verso una grande narrazione.
I saggi raccolti nella antologia Theory's Empire, una cinquantina, sono stati scritti quasi tutti negli ultimi due decenni (qualcuno, come quello dello studioso del romanticismo M. H. Abrams, risale addirittura al 1977). Compaiono critici molto noti e autorevoli, qualcuno rimasto fedele a se stesso, come Wayne C. Booth, Frederick Crews, Frank Kermode, John R. Searle, Noam Chomsky, qualcuno incline al pentimento e al ripensamento come Tzvetan Todorov. Obbiettivi polemici comuni sono alcune parole d'ordine, come appunto «teoria», «potere», «identità», «relativismo», «testo», «testualità», «decostruzione», «social construction» (quest'ultima applicata alle cose più varie: non solo, per esempio, la moneta o la cittadinanza, ma anche la soggettività, l'identità sessuale, l'identità etnica, e così via). Lo slogan più gettonato è «Ritorno alla ragione». L'elenco dei cattivi maestri comprende alcuni grandi intellettuali francesi: Althusser, Lacan, Foucault, Derrida, Kristeva, Deleuze, Baudrillard e Bourdieu e alcuni americani considerati loro seguaci, fra cui soprattutto Spivak, Bhabha e Butler. (Certo, la denuncia della pretesa egemonia francese suona in questo momento non poco sospetta, dopo l'ondata di sentimenti antifrancesi scatenati dall'opposizione di Chirac alle decisioni politiche di Bush e dopo la contrapposizione, che si avverte sempre più forte negli ambienti conservatori americani, fra valori del fondamentalismo religioso e grande tradizione laica e illuministica).
Una fra le dichiarazioni aperte di pentitismo più peculiari è quella di Elaine Marks, una francesista che ha insegnato a Madison, ora in pensione, in passato molto attiva nel movimento femminista, che ha diretto il centro e il programma di Women's Studies all'Università del Wisconsin e ha curato varie pubblicazioni sulla teoria femminista francese e sull'omosessualità nella letteratura transalpina. Il suo saggio, uscito in origine sulla rivista femminista «Signs» nel 2000, è significativamente intitolato Effetti perversi del femminismo. La Marks dichiara esplicitamente la sua «insoddisfazione crescente nei confronti della politica e degli studi sull'identità, per la loro attenzione eccessiva alle differenze e la mancata attenzione alle cose condivise, per la separazione in due campi opposti degli studi culturali e degli studi letterari, che rispecchia la separazione ancor più preoccupante fra il politico e il poetico», cui aggiunge la separazione, nei programmi di studio, fra educazione linguistica ed educazione letteraria.
Valori e controvalori
La Marks dichiara con candore che da qualche tempo si sente più d'accordo con Harold Bloom, Richard Rorty, Robert Alter e altri difensori delle specificità e complessità dell'immaginazione letteraria che non con le posizioni da lei sostenute per anni. E racconta delle lezioni che ha tenuto alle sue studentesse sull'autobiografia di una scrittrice nera dell'Harlem Renaissance, Zora Neale Hurston, Dust Tracks on the Road, in cui viene restituita - col piglio della vera antropologa e in modo molto espressivo e pieno di sfumature attente alle complessità culturali delle comunità nere del Sud - la storia di oppressione di una donna nera cresciuta nell'Alabama all'inizio del ventesimo secolo. Le studentesse del corso, tutte ragazze e tutte bianche, incapaci di cogliere la ricchezza linguistica e le sfaccettature psicologiche del testo, si mostrarono impazienti e insoddisfatte, perché non vi trovavano quello che si aspettavano: una denuncia aperta e diretta dell'oppressione razzista e sessista. Non era colpa loro, dice la Marks, ma degli effetti perversi della teoria razzista e femminista nelle università americane.
La Marks cita, con totale approvazione, la difesa dell'immaginazione letteraria svolta da Robert Alter nel 1997, pronunciando il discorso d'apertura del convegno annuale della Alsc (l'Associazione degli studiosi e critici della letteratura), pubblicata sul «Times Literary Supplement» il 23 gennaio del 1998: «Se posso prendere a prestito la formulazione usata da un critico della Scuola di Francoforte, Leo Lowenthal, l'immaginazione letteraria è essenzialmente dialettica, portata a esprimere, con spirito di sfida, forti critiche alle ideologie dominanti, alle idee ricevute, ai valori e alle convenzioni letterarie tradizionali, o a sovvertirli in modo sottile. Le grandi opere della letteratura, perciò, continueranno a sorprenderci nella misura in cui non insisteremo a distorcerle per adattarle al letto di Procuste dei nostri pregiudizi; e sta in questo precisamente la fonte del piacere e delle conoscenze che otteniamo leggendole. Quando noi, come associazione, onoriamo la potenza dell'immaginazione letteraria, non facciamo nessun intervento mistificatorio, ma, al contrario, un'apertura empirica ai modi imprevisti in cui uno scrittore originale, pur con tutte le sue imperfezioni, può offrire una prospettiva sorprendente e illuminante su un tema familiare, rovesciare d'un colpo le nostre deboli presupposizioni, o rinnovare con nostra sorpresa gli strumenti stessi dell'espressione letteraria.»
La fondazione, nel 1994, dell'Association of Literary Scholars and Critics (Alsc: Associazione degli studiosi e critici della letteratura) è una tra le novità presentate dalla scena della critica letteraria americana negli ultimi anni, e ha raccolto attorno a sé quelli che possiamo chiamare - usando le parole del «New York Times» - i «letterati tradizionalisti», i difensori dell'autonomia letteraria e dei suoi valori dagli attacchi mossi da tante Teorie comparse nel frattempo. I promotori della nuova associazione (John Ellis, Norman Fruman, Gerald Gillespie, Ricardo Quinones, Paul Cantor, John Hollander, Robert Alter, Alfred Kazin) e il loro primo presidente, Roger Shattuck, hanno voluto prendere le distanze dall'antica e fortissima Modern Language Association (Mla), colpevole secondo loro di essere ormai dominata dal decostruzionismo, dal neostoricismo, dagli studi culturali, femministi, etnici, post-coloniali.
Alla destra dell'Association of Literary Scholars and Critics c'è poi un'altra associazione, di impianto decisamente conservatore, la U.S. National Association of Scholars, che non vale la pena di prendere in considerazione, anche se nel clima attualmente dominante a Washington può trovare spazio di azione e appoggi non piccoli nei circoli del fondamentalismo religioso e culturale.
L'Alsc ha ottenuto un qualche successo, giungendo a raccogliere più di 2000 membri (contro i 32.000 della Modern Language Association), ma ha anche deciso di non insistere sulle prese di posizione polemiche e di dedicarsi principalmente, nei convegni annuali e nelle pagine della rivista «Literary Imagination», fondata nel 1999, a una strategia di difesa delle qualità intrinseche all'immaginario letterario, dunque a uno studio della «letteratura come letteratura e non come qualcosa d'altro», secondo principi di base non molto diversi da quelli che erano stati fatti propri, negli anni prima dell'arrivo della Teoria, dal New Criticism.
Shattuck è progressista o conservatore?
Alla riunione convocata in occasione della fondazione dell'Associazione, avvenuta a Boston nel 1994, Shattuck lesse le «Diciannove tesi sulla letteratura», che, in stile paradossale, prendono le difese del valore educativo e conoscitivo della letteratura e respingono sia le più rigide concezioni teoriche dello specifico letterario di origine linguistica o testuale sia gli atteggiamenti più concilianti e arrendevoli, che immergono e sciolgono la letteratura nell'indifferenziato mare dei prodotti culturali.
Quella di Shattuck è una figura interessante: studioso del modernismo e delle avanguardie francesi, specialista di Proust, progressista in politica, egli respinge ogni tendenza a sottoporre la letteratura a interessi extra-letterari, compresi quelli politici. Di lui, come di parecchi altri che hanno fondato l'Association of Literary Scholars and Critics (Alfred Kazin, esponente della intellighenzia newyorchese, Robert Alter, famoso biblista e professore sia a Berkeley che a Gerusalemme), ci si può chiedere: sono progressisti o conservatori? Shattuck è un sostenitore della sperimentazione delle avanguardie o un difensore della grande tradizione letteraria? A queste domande si può rispondere soltanto ricordando la complessità e la contraddittorietà della carriera umana di Shattuck. Lui stesso, del resto, ha più volte sottolineato la peculiarità della sua posizione: progressista in politica, conservatore nel campo degli studi letterari e dell'educazione. Egli racconta, nella prefazione al suo libro Forbidden Knowledge (1996) un aneddoto, che conferma la sua consapevolezza di portarsi dentro una profonda contraddizione, vissuta in tutta la sua drammatica carica umana: quando gli Stati Uniti fecero cadere nell'agosto 1945 le due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, Shuttuck si trovava nello scacchiere bellico del Pacifico, da un anno pilota da combattimento sui B-25 e da pochi mesi a Okinawa, con una squadra che si stava addestrando a uno sbarco in Giappone, simile a quello avvenuto in Normandia. La prospettiva realistica era che almeno una metà degli effettivi impegnati nello sbarco sarebbero caduti nell'impresa, quindi ciascuno di loro, fra cui Shattuck, aveva la probabilità del 50% di sopravvivere. Lo sgancio delle due bombe ordinato da Truman gli apparve allora, da un punto di vista personale, una fortuna. Ma da un punto di vista morale, la distruzione delle due città (addirittura la scena della città distrutta di Hiroshima, vista personalmente da un B-25 in volo sulle isole giapponesi) gli apparve subito come inaccettabile, e lo spinse a partecipare nel 1961, sfidando una folla ostile, a dimostrazioni contro la fabbricazione e l'uso delle armi nucleari.
L'etica degli umanisti
Il dilemma di allora continua a tormentare Shattuck anche oggi e lo spinge a domandarsi, senza trovare risposte semplici, quale sia stato il senso della guerra fredda e il ruolo in essa del deterrente nucleare. Sembra chiaro, anche da questo esempio, che nelle posizioni sue e dei suoi colleghi continui a essere viva una tradizione americana che si può definire umanistica, con un forte spessore etico, sul quale tornerò nella prossima puntata di questo articolo.
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La letteratura insegue il rapporto con l'etica
Appunti americani dalla rivolta contro il culto della teoria e dei tecnicismi /2
Sulla critica statunitense si allunga ancora l'ombra delle polemiche seguite a tre fatti emblematici. Il primo riguarda lo scandalo suscitato dalle accuse di antisemitismo rivolte al decostruzionista Paul De Man. Il secondo è il premio per il peggior esempio di scrittura critica assegnato alla filosofa femminista Judy Butler. Il terzo è il tranello che lo studioso di fisica Alan Sokal ha teso ai due direttori della rivista «Social Text» inviando loro un articolo pieno di enormità pseudo-scientifiche. Che è stato regolarmente pubblicato
Il ritorno delle questioni etiche mi pare caratterizzi tre avvenimenti che hanno cambiato l'atmosfera nella situazione della critica americana dell'ultimo decennio: tre avvenimenti, tutti finiti sulle pagine dei grandi giornali, tutti doverosamente registrati e commentati nell'antologia di Patai e Corral Theory's Empire. An Anthology of Dissent (di cui ho parlato ieri, nella puntata precedente di questo articolo) che ci fornisce dunque l'occasione per rivisitare momenti cruciali della cultura americana. Si tratta dello scandalo suscitato dalla figura di Paul De Man, del premio per il peggior esempio di scrittura critica assegnato polemicamente alla filosofa femminista di Berkeley Judy Butler e del tranello che lo studioso di fisica della New York University Alan Sokal ha teso ai due direttori della rivista «Social Text», Stanley Aronowitz e Andrew Ross, inviando loro un articolo parodistico e pieno di enormità pseudo-scientifiche, di citazioni incredibili da Lacan, Lyotard, Kristeva e molti altri, di riferimenti alla matematica e alla fisica contemporanee e di pretenziose teorie filosofiche sulla «social construction» delle verità della scienza, intitolato «Transgressing the Boundaries: Toward a Transformative Hermeneutics of Quantum Gravity» (Trasgredendo i confini: verso un'ermeneutica trasformativi della gravità dei quantum). L'articolo, purtroppo, è stato imprudentemente accettato come cosa seria da Aronowitz e Ross e pubblicato dalla rivista nel 1996.
Così si mischia il vero con il falso
Dello scandalo su Paul De Man, cioè della scoperta, dopo la morte nel 1983 del grande critico di origine belga, esponente di spicco del decostruzionismo a Yale, di una serie di articoli contenenti dichiarazioni antisemite e di appoggio al nazismo, da lui scritti su giornali belgi negli anni 1941-42 e tenuti poi attentamente celati negli anni del grande successo americano, si è parlato molto. In difesa di De Man hanno scritto, dopo lo scoppio dello scandalo nel 1987, alcune voci autorevoli, fra cui, con un lungo, eloquente saggio su «Critical Inquiry» Jacques Derrida. Altri hanno continuato ad avanzare dubbi e a porre domande, in particolare a chiedersi se ci fosse una possibile connessione fra le idee sostenute in quegli articoli e soprattutto il modo reticente con cui De Man aveva nascosto quel suo passato e le pratiche ermeneutiche del decostruzionismo.
In un lungo saggio che fa parte di un intero libro e che è stato accolto in forma accorciata nell'antologia Empire Building, Alan Spitzer, professore di storia all'università dello Iowa, ritorna pazientemente sulla vicenda degli articoli di De Man (a quelli pubblicati su «Le Soir» e su «Het Vlaamsche Land» si sono aggiunti nel frattempo quelli usciti su «Bibliographie Dechenne»), smonta molte delle tecniche di difesa dei sostenitori di De Man e giunge anche a parodizzare la strategia retorica del saggio di Derrida (ammissione della gravità delle accusa, loro attenuazione sulla base delle circostanze, sottolineatura di possibili ambiguità, dichiarazioni doppie, significati nascosti); ma alla fine pone con molta forza il problema etico dei comportamenti umani: se è vero, egli sostiene, che le circostanze storiche come la forte impressione fatta sui popoli europei dai successi nazisti nel 1941, l'impossibilità di sottrarsi alle scelte drammatiche del presente, l'ignoranza degli sviluppi futuri possono giustificare il comportamento di De Man, meno giustificabili risultano le vere e proprie bugie che egli infilò in una lettera alla Society of Fellows di Harvard (nel frattempo ritrovata), scritta nel 1955 in risposta a una denuncia anonima, in cui sosteneva che lo zio Henri era suo padre, che lui aveva cessato di scrivere articoli nel 1941 dopo l'introduzione della censura nazista, quando invece ne pubblicò ancora molti nel 1942, e così via. Non si può, in ogni caso, dimenticare che altri, fra cui alcuni condiscepoli di De Man nel Circle du libre examen di Bruxelles, fecero una scelta diversa. L'imperativo etico mette in crisi il giustificazionismo ermeneutico che, nella lettura degli articoli di De Man, fa ricorso alla teoria decostruzionista dell'indeterminatezza dei significati di qualsiasi testo. Ci sono casi, sostiene Spitzer, in cui la lettura non può evitare i problemi del vero e del falso, del giusto e dell'ingiusto.
Questa non è filosofia
Il caso della premiazione scherzosa, nel 1998, da parte della rivista «Philosophy and Literature» di Judith Butler come autrice di un brano di discorso critico contorto e incomprensibile, tratto da un saggio nella rivista «Diacritics» intitolato Further Reflections on Conversations of Our Time è analizzato, nell'antologia Theory's Empire, dal critico D. G. Myers. La sua analisi, che insiste sulla responsabilità etica che ogni filosofo ha di scrivere limpido e chiaro, sottopone a un esame impietoso anche un intervento a propria difesa scritto dalla Butler per il «New York Times», il cui senso è che per esprimere concetti difficili è necessario usare un linguaggio difficile. Ma forse l'intervento più reciso e liquidatorio è venuto, con poche frasi pubblicate su «New Republic» nel febbraio 1999, dalla filosofa di Chicago, promotrice di una nuova etica (e ben nota anche da noi) Martha Nussbaum: quella della Butler sarebbe retorica sofistica, una parodia del pensiero, non filosofia. «Quando le sue idee sono espresse chiaramente e in modo succinto, ci si accorge che, senza molte altre distinzioni e argomentazioni, esse non vanno lontano, e non sono poi così nuove. Perciò l'oscurità riempie il vuoto lasciato da un'assenza di vera complessità del pensiero e del discorso. Il quietismo hip della Butler è una risposta comprensibile alla difficoltà di costruire la giustizia in America. Ma è una cattiva risposta. Collabora con il male. Il femminismo chiede di più e le donne meritano di meglio». Dopo lo scherzo fatto alla rivista «Social Texts», Alan Sokel ha scritto, con l'aiuto di Jean Bricmont, un libro contenente il saggio originario e molte delle reazioni suscitate. Il libro è uscito in Francia con il titolo Impostures intellectuelles (1997) e negli Stati Uniti con il titolo Fashionable Nonsense: Postmodern Intellectuals' Abuse of Science (1998). A questi documenti sono dedicati, nell'antologia, ben due articoli: uno degli stessi Sokel e Bricmont, uscito sul «Times Literary Supplement» come risposta alle reazioni francesi e l'altro di Thomas Nagel sull'intera vicenda. In occasione dell'uscita parigina del libro, Julia Kristeva non è riuscita a trattenersi e ha fatto una dichiarazione sicuramente esagerata e fuori tono, riportata in Italia dal «Corriere della Sera», nella quale ha accusato Sokal di essere un sandinista, i due autori di essere francofobi e di fare disinformazione, e ha loro raccomandato di sottoporsi a cure psichiatriche.
Tutti e tre gli episodi, a quanto pare, hanno contribuito a screditare il decostruzionismo, il culto per la Teoria, il tecnicismo ossessivo e il gergo pretenzioso di tanta critica letteraria americana. Ma, a parte questi affondo gustosi su questioni che sono state oggetto di polemica, sono molti i saggi raccolti nell'antologia Theory's Empire su cui varrebbe la pena di soffermarsi e ragionare: l'intervento ironico, per esempio, di Chomsky sulle assurdità di alcuni discorsi che ha sentito in materia di scienza e di linguistica; o la denuncia di Lee Singel di alcune ridicole interpretazioni che la «madre» dei gay o queer studies, Eva Kosofsky Sedwich ha dato dei testi di Henry James e Jane Austen in libri e saggi ormai famosi (Between Men, 1985 e Epistemology of the Closet, 1990) scoprendo, senza il minimo appoggio testuale, negli uni la presenza del tema escrementizio e negli altri quello della masturbazione femminile; o l'illustrazione molto chiara e convinta che Nancy Easterlink fa delle possibilità di fondare una teoria cognitivista e bioepistemologica della letteratura; o le pagine di Clara Clairborne Park su Roland Barthes, la morte dell'autore e il culto degli immortali in Francia; o quelle di Jeffrey Wallen su Edward Said e il contesto sociale delle opere letterarie; o il brillante ragionamento di Denis Donoghue sulle pretese egemoniche del decostruzionismo di Derrida e sulla necessità di distinguere fra teorie, o meglio principi di comportamento intellettuale e morale, e Teoria come disciplina e istituzione accademica; o le riflessioni e analisi di Vincent Descombes sul referente, quelle di Mark Bauerlein sul «social constructionism», quelle di Russell Jacoby su meriti, demeriti e fortuna critica del termine «thick description», lanciato dall'antropologo Clifford Geertz.
Una visione eclettica
Mi soffermo, piuttosto, su un saggio, che mi sembra pieno di buon senso e di osservazioni interessanti e che, nonostante tutto, non vuole abbandonarsi al pessimismo. È intitolato Crisis in the Humanities? (Crisi nelle facoltà umanistiche?) e l'autrice è una brillante studiosa di Stanford, Marjorie Perloff, ora in pensione, a suo tempo molto impegnata nella sperimentazione di nuovi programmi di studio nella sua Università. La Perloff passa in rassegna diverse concezioni della letteratura, da Aristotele ai giorni nostri, quella essenzialmente retorica che si occupa di come funziona il linguaggio (rapporto con la linguistica), quella che attribuisce ai testi letterari una potente capacità di esprimere conoscenza e verità (rapporto con la filosofia), quella che li considera oggetti estetici, prodotti di una tecnica artistica raffinata (rapporto con le arti e la musica), quella che li considera formazioni storiche e culturali con precisi messaggi ideologici da comunicare (rapporto con la politica). A ciascuna di queste concezioni fa risalire metodi diversi di studio. Dopo avere constatato che, negli ultimi due decenni, negli studi letterari americani è divenuta largamente prevalente la quarta concezione, quella sostanzialmente fatta propria dai Cultural studies, con i conseguenti cambiamenti nell'assetto disciplinare dei dipartimenti, nelle liste dei testi da leggere e nel metodo (divenuto metodo unico per leggerli), la Perloff propone una visione che si può definire eclettica o relativistica (René Wellek l'avrebbe definita prospettivistica). Secondo lei ognuna di quelle concezioni e ognuno di quei metodi di studio hanno una loro giustificazione e una loro utilità e una delle ragioni della crisi sta nella chiusura di ogni scuola e tendenza dentro un unico metodo e, aggiungerei io, nella tendenza dei Cultural studies ad adattarsi a una versione appiattita e banalizzante dello studio dei testi, allentando i legami con la tradizione britannica e con le correnti più aggiornate di storia della cultura.
La Perloff porta l'esempio dell'Ulysses di James Joyce. Nei primi decenni successivi alla sua pubblicazione, quel grande libro è stato letto come una moderna e parodica Odissea oppure come un raffinato esperimento in cui trama e personaggi erano subordinati a un eroico sfruttamento di tutte le possibilità creative ed espressive del linguaggio. La trama del romanzo, con la sua straordinaria rete di motivi ricorrenti, allusioni, riferimenti incrociati e percorsi simbolici è stata esaminata da tutti i possibili punti di vista. Poi sono venuti gli studi di William T. Noon e Kevin Sullivan sull'educazione ricevuta da Joyce presso i gesuiti e sull'importanza della teoria estetica di Tommaso d'Aquino per capire la concezione della poesia di Joyce. Poi è arrivato lo strutturalismo e ogni interesse per le idee dell'autore di un'opera letteraria è stato gettato dalla finestra e si è passati a un esame analitico spesso molto raffinato delle sue strutture narrative e dei suoi modelli intertestuali. Infine sono venuti, negli ultimi decenni, i Cultural Studies e Ulysses è stato letto come testo in cui le dinamiche della razza, del potere, dell'impero e della differenza sessuale si scontravano sullo sfondo di un'Irlanda ridotta a colonia inglese, per cui i temi prevalenti nelle interpretazioni del testo sono stati il nazionalismo, il colonialismo, l'imperialismo e la condizione della donna, divisa fra i due modelli contrapposti della vergine e della prostituta. Ma in che cosa, si chiede la Perloff, questo tipo di letture ispirate dai Cultural studies, che trovano sicuramente una conferma nel ricco sistema tematico e verbale di Ulysses, sono diverse o migliori di quelle che nello stesso testo hanno trovato le prove della presenza del linguaggio tomistico? Ed è proprio necessario, sembra chiedersi la Perloff, concentrarsi su questi aspetti di Ulysses e dimenticare tutto il lavoro di analisi della sua struttura narrativa e del suo linguaggio?
La sua posizione mi sembra chiara e mi sembra confermare un'impressione che credo valga anche per la situazione italiana, dove pure si nota una generale crisi di stanchezza e scoraggiamento negli studi letterari: l'impressione è che coloro che avvertono più drammaticamente la crisi sono quelli che si sono dedicati con fede assoluta a una sola concezione della letteratura e a un solo metodo, considerato l'unico e il migliore, per studiarla.
La Perloff, d'altra parte, pur essendo perfettamente consapevole della crisi, non solo degli studi letterari ma dell'intero sistema delle scienze umane, non rinuncia a una nota di ottimismo. Una spinta a vedere le cose con meno angoscia le viene dalla navigazione in Internet, nel corso della quale scopre l'esistenza di siti molto belli e interessanti: un sito interattivo, per esempio, che offre quasi tutte le opere di Beckett e una grande quantità di materiale biografico, critico, interpretativo, comprese sette parodie di Aspettando Godot; un sito inglese che offre quasi tutti i manifesti del futurismo, altrimenti difficili da trovare; gli utilissimi archivi Wittgenstein disponibili in un sito norvegese; uno straordinario sito Ubu, organizzato da Kenneth Goldsmith, un appassionato d'arte che non è collegato con nessuna università. Chi visita questi siti? si chiede la Perloff. E risponde: non solo studenti o i loro professori. Ci sono a quanto pare varie migliaia di persone, nel mondo, interessate a saperne di più delle opere dei Beckett, o dei Blake, o dei Proust e a condividere con altri le loro interpretazioni e il loro entusiasmo per la letteratura.
Un giuramento contro la crisi
Ma allora, conclude la Perloff, c'è o non c'è questa crisi? «Sì e no. Nell'università, e specialmente nei dipartimenti di letteratura, la crisi, purtroppo, è reale, come dimostrano il calo delle iscrizioni e le scarse occasioni del mercato del lavoro per i professori di letteratura. Ma questi fenomeni possono anche essere il sintomo di un'altra disfunzione: una scarsa corrispondenza fra programmi di studio ormai invecchiati e gli interessi reali di eventuali nuovi studenti. Il cambiamento principale dei programmi nei corsi d'inglese negli ultimi decenni è stato lo spostamento dell'attenzione dagli scrittori maggiori a quelli di minora importanza, con il risultato di far leggere molte poesie, racconti e romanzi scritti da esponenti di gruppi etnici o razziali di solito ignorati o di donne. Ma senza una ben definita nozione di perché è importante leggere testi di letteratura, sia di scrittori ben affermati sia di scrittori marginalizzati, lo studio della `letteratura' diventa solo un dovere, un modo per distribuire in qualche modo i crediti da raccogliere».
Non so se l'insistenza con cui, in questa antologia, viene usato il concetto di `eticità', come valore intrinseco dell'opera letteraria sia del tutto giustificato. Io sono pronto a riconoscere all'opera letteraria, pur con i mezzi suoi propri e grazie alla ricchezza di significati e di rappresentazioni che ne fanno la specificità, un valore ampiamente conoscitivo, di cui sicuramente fanno parte le decisioni e le azioni che compiono i personaggi e i giudizi che possono darne i lettori. Sono però più incline a parlare di eticità e responsabilità professionale dei critici e degli studiosi della letteratura. In appendice all'antologia di Patai e Corrall viene riportato un «giuramento ippocratico» pronunciato, fra il serio e lo scherzoso nel 1979 dal critico di Chicago Wayne C. Booth, specialista dei problemi della narrativa e anche, guarda caso, di quelli del rapporto fra narrativa ed etica. Primo comma del giuramento: «Prometto di non pubblicare nulla, né favorevole né sfavorevole, su libri o articoli che non ho letto interamente almeno una volta». Sulla base di questo principio, egli pensa che almeno un quarto dei libri o degli articoli di critica oggi correnti verrebbe scartato. Secondo comma: «Prometto di non pubblicare nulla su libri o articoli finché non li abbia capiti, vale a dire finché non abbia ragione di pensare che posso riassumerli in un modo che risulterebbe riconoscibile all'autore». Sulla base di questo secondo principio un altro quarto dei libri e degli articoli oggi correnti andrebbe al macero. Terzo comma: «Non accetterò di leggere le critiche rivolte da un critico a un altro critico se non sarò certo che egli avrà rispettato i primi due comandamenti». Quarto comma: «Non mi imbarcherò in nessun progetto di lavoro se non sarò certo di rispettare i primi tre giuramenti». A questo punto, quasi tutta la produzione critica oggi corrente è andata al macero. Quinto comma: «Non considererò le mie inevitabili violazioni delle prime quattro promesse con indulgenza maggiore di quella che riserverò a chiunque altro.».
Un sesto comma per l'Italia
I principi di Booth mi sembrano tutti sottoscrivibili e sottoponibili al giuramento di chi fa professione di critica anche in Italia. Aggiungerei, tenendo conto delle nostre specificità nazionali, un sesto comma (anch'io dovrei essere fra i primi a pronunciarlo): «Prometto di non scrivere nessuna storia letteraria prima di avere letto per intero tutte le opere prese in considerazione e di ignorare tutte le precedenti storie letterarie a meno di essere certo che chi le ha scritte ha letto veramente tutte le opere che ha preso in considerazione.»
ilmanifesto.it
Appunti di viaggio dalle università americane. Passate le stagioni delle pretese totalizzanti avanzate dalla teoria letteraria, svanito l'entusiasmo per le teorizzazioni spericolate, oggi domina la sfiducia. E gli studi letterari e umanistici accusano una fase di declino
Tra un eccesso e l'altro Una antologia del dissenso a quattro mani, di Daphne Patai e Will H. Corral
Tempi moderni Un saggio di Elaine Marks titolato, non a caso, Effetti perversi del femminismo
REMO CESERANI
È arrivato il momento, nelle vicende della critica letteraria americana, delle recriminazioni e dei pentimenti. Era forse inevitabile. Dopo gli anni degli entusiasmi (lo sbarco dello strutturalismo francese nel 1966; l'arrivo del decostruzionismo nei primi anni Settanta con la conquista della cittadella di Yale; le battaglie in favore del femminismo, del riscatto delle minoranze etniche e dell'orgoglio gay; il lancio a Berkeley nei primi anni Ottanta del neo-storicismo; l'arrivo dall'Inghilterra negli anni Novanta dei «cultural studies»), dopo gli anni delle teorizzazioni spericolate e delle pretese totalizzanti della Teoria, scritta con la lettera maiuscola, sono arrivati la stagnazione teorica, l'indebolimento complessivo degli studi letterari e umanistici nelle Università, il disorientamento, la sfiducia. Riassume bene questa nuova situazione, raccogliendo le critiche, le autoanalisi spietate, le confessioni di scoraggiamento, un libro (725 fitte pagine) intitolato Theory's Empire. An Anthology of Dissent (Impero della teoria. Un'antologia del dissenso), a cura di Daphne Patai, una professoressa di letteratura brasiliana ad Amherst, e di Will H. Corral, un professore di letteratura ispano-americana a Sacramento (Columbia University Press, 2005, $ 29.50).
Foucault e fiocchi d'avena
Il libro porta sul controfrontespizio un cartoon di Jeff Reid, intitolato «Colazione teorica: una metodologia per ogni mattina», che già chiarisce bene quali sono gli obbiettivi polemici. Vi sono rappresentate tre scatole di fiocchi di cereali da immergere nel latte per la prima colazione, con titoli e pubblicità parodizzati. La prima scatola contiene i Toasties postmoderni, così reclamizzati: «Come tutto quello che avete avuto finora, ma ben mescolato». «Qualcosa di più di un fiocco di cereale, piuttosto un commento sulla natura della cerealità, e la teoria della cerealtività. Con un anello per la decodifica all'interno». La seconda scatola porta la scritta: «Alimenti per una colazione decostruzionista». «Contiene un'abbondante verbosità zuccherina». Due topolini dialogano fra loro. Il primo dice: «Molto secco e insapore, non ti pare?» E l'altro: «La tua domanda è formata, o piuttosto deformata, dai paradigmi cerealicoli delle convenzioni borghesi, che si fondano su nozioni esculatorie fuori moda come gusto, nutrimento e commestibilità?» La terza scatola offre «Fiocchi Foucault». Nella vignetta una voce fuori campo dice: «Ma è vuota!» e ottiene per risposta: «Naturalmente». Terza voce: «È francese, deve essere buona». Il messaggio pubblicitario così definisce il contenuto: «Finalmente, un prodotto per la colazione così complesso che avrete bisogno di un apparato teorico per digerirlo. Non sarà necessario mangiarlo, basterà leggerlo. Un vero tour de force letterario: la colazione come testo!».
Forse è utile commentare un paio di termini usati sul frontespizio dell'antologia. La parola Teoria, scritta con la maiuscola, è diventata un termine onnipresente e onnicomprensivo (imperialistico) nel sistema americano delle discipline. Anche da noi sono comparsi molti insegnamenti universitari con questo termine nel titolo: «Teoria della letteratura», «Teoria dell'arte», «Teoria dell'informazione», «Teoria della comunicazione», ecc. Ma non hanno mai preteso di sostituirsi, come è avvenuto nei dipartimenti di scienze umane delle università statunitensi, a discipline come l'estetica, la retorica o addirittura la filosofia nelle sue branche tradizionali: l'epistemologia, l'etica, e quant'altro. Ciò è avvenuto in seguito ad alcune differenze di fondo fra il sistema culturale americano e quello europeo: l'estetica, come branca della filosofia, si è di molto indebolita dai tempi di Dewey e fa ogni tanto qualche tentativo per risorgere, ma viene continuamente emarginata, così come l'etica. Entrambe vengono sottoposte ai severi controlli della filosofia analitica, vera disciplina dominante ormai da decenni nella cultura anglosassone. La teoria si riduce a metodologia e la storia della cultura ha subìto a sua volta una forte perdita di spessore. Il senso del passato, anche quello più drammatico e apocalittico, alla Benjamin, si è ridotto a rappresentazione piatta del presente, a pura elencazione statistica di eventi e fenomeni. La fortuna, dentro i dipartimenti di studi letterari, della teoria e, da un po' di tempo, dei cultural studies, si spiega anche come un bisogno insoddisfatto di filosofia, di senso della storia, di complessità dell'immaginario.
Dopo le grandi narrazioni
René Wellek, che è presente in questa antologia con un saggio-denuncia del 1983, intitolato significativamente Destroying Literary Studies (Distruggendo gli studi letterari), era arrivato negli Stati Uniti alla fine degli anni Trenta portando con sé la grande tradizione filosofica della fenomenologia tedesca, le esperienze del formalismo russo e dello strutturalismo praghese, il culto inglese della grande tradizione predicato da Leavis, la stilistica analitica di Spitzer e quella storicizzante di Auerbach e aveva dato un grosso contributo all'affermazione della nuova critica letteraria americana con un libro intitolato appunto Theory of Literature (Teoria della letteratura), nato con l'intenzione di dare spessore filosofico alle troppo impressionistiche pratiche di lettura in uso nelle università americane. Un giorno, alla fine degli anni Ottanta, mentre, passeggiando per i boschi del Connecticut discutevamo dell'improvvisa fortuna del decostruzionismo proprio nella sua università di Yale, proprio fra alcuni suoi allievi, si fermò di colpo, mi guardò sconsolato, e disse: «E pensare che io ho scritto un libro intitolato Teoria della letteratura. Adesso è dietro quella parola che si nascondono i più micidiali strumenti per uccidere la letteratura».
Colpisce, inoltre, il fatto che il termine «dissenso», con un improvviso e paradossale rovesciamento di fronte, venga impiegato nel titolo della antologia di Daphne Patai e Will H. Corral per riunire testi spesso classificati come conservatori, almeno dal punto di vista della politica accademica e delle lotte di potere (o di quegli scontri quasi cruenti che sono stati battezzati «guerre culturali»). Quelli che erano un tempo una minoranza innovatrice e dissenziente all'attacco delle cittadelle della tradizione, ora sono divenuti parte dell'istituzione e i conservatori di un tempo si sono trasformati nei portavoce del dissenso. La fine delle ideologie è divenuta essa stessa un'ideologia. L'inevitabile collasso delle grandi narrazioni è slittato esso stesso verso una grande narrazione.
I saggi raccolti nella antologia Theory's Empire, una cinquantina, sono stati scritti quasi tutti negli ultimi due decenni (qualcuno, come quello dello studioso del romanticismo M. H. Abrams, risale addirittura al 1977). Compaiono critici molto noti e autorevoli, qualcuno rimasto fedele a se stesso, come Wayne C. Booth, Frederick Crews, Frank Kermode, John R. Searle, Noam Chomsky, qualcuno incline al pentimento e al ripensamento come Tzvetan Todorov. Obbiettivi polemici comuni sono alcune parole d'ordine, come appunto «teoria», «potere», «identità», «relativismo», «testo», «testualità», «decostruzione», «social construction» (quest'ultima applicata alle cose più varie: non solo, per esempio, la moneta o la cittadinanza, ma anche la soggettività, l'identità sessuale, l'identità etnica, e così via). Lo slogan più gettonato è «Ritorno alla ragione». L'elenco dei cattivi maestri comprende alcuni grandi intellettuali francesi: Althusser, Lacan, Foucault, Derrida, Kristeva, Deleuze, Baudrillard e Bourdieu e alcuni americani considerati loro seguaci, fra cui soprattutto Spivak, Bhabha e Butler. (Certo, la denuncia della pretesa egemonia francese suona in questo momento non poco sospetta, dopo l'ondata di sentimenti antifrancesi scatenati dall'opposizione di Chirac alle decisioni politiche di Bush e dopo la contrapposizione, che si avverte sempre più forte negli ambienti conservatori americani, fra valori del fondamentalismo religioso e grande tradizione laica e illuministica).
Una fra le dichiarazioni aperte di pentitismo più peculiari è quella di Elaine Marks, una francesista che ha insegnato a Madison, ora in pensione, in passato molto attiva nel movimento femminista, che ha diretto il centro e il programma di Women's Studies all'Università del Wisconsin e ha curato varie pubblicazioni sulla teoria femminista francese e sull'omosessualità nella letteratura transalpina. Il suo saggio, uscito in origine sulla rivista femminista «Signs» nel 2000, è significativamente intitolato Effetti perversi del femminismo. La Marks dichiara esplicitamente la sua «insoddisfazione crescente nei confronti della politica e degli studi sull'identità, per la loro attenzione eccessiva alle differenze e la mancata attenzione alle cose condivise, per la separazione in due campi opposti degli studi culturali e degli studi letterari, che rispecchia la separazione ancor più preoccupante fra il politico e il poetico», cui aggiunge la separazione, nei programmi di studio, fra educazione linguistica ed educazione letteraria.
Valori e controvalori
La Marks dichiara con candore che da qualche tempo si sente più d'accordo con Harold Bloom, Richard Rorty, Robert Alter e altri difensori delle specificità e complessità dell'immaginazione letteraria che non con le posizioni da lei sostenute per anni. E racconta delle lezioni che ha tenuto alle sue studentesse sull'autobiografia di una scrittrice nera dell'Harlem Renaissance, Zora Neale Hurston, Dust Tracks on the Road, in cui viene restituita - col piglio della vera antropologa e in modo molto espressivo e pieno di sfumature attente alle complessità culturali delle comunità nere del Sud - la storia di oppressione di una donna nera cresciuta nell'Alabama all'inizio del ventesimo secolo. Le studentesse del corso, tutte ragazze e tutte bianche, incapaci di cogliere la ricchezza linguistica e le sfaccettature psicologiche del testo, si mostrarono impazienti e insoddisfatte, perché non vi trovavano quello che si aspettavano: una denuncia aperta e diretta dell'oppressione razzista e sessista. Non era colpa loro, dice la Marks, ma degli effetti perversi della teoria razzista e femminista nelle università americane.
La Marks cita, con totale approvazione, la difesa dell'immaginazione letteraria svolta da Robert Alter nel 1997, pronunciando il discorso d'apertura del convegno annuale della Alsc (l'Associazione degli studiosi e critici della letteratura), pubblicata sul «Times Literary Supplement» il 23 gennaio del 1998: «Se posso prendere a prestito la formulazione usata da un critico della Scuola di Francoforte, Leo Lowenthal, l'immaginazione letteraria è essenzialmente dialettica, portata a esprimere, con spirito di sfida, forti critiche alle ideologie dominanti, alle idee ricevute, ai valori e alle convenzioni letterarie tradizionali, o a sovvertirli in modo sottile. Le grandi opere della letteratura, perciò, continueranno a sorprenderci nella misura in cui non insisteremo a distorcerle per adattarle al letto di Procuste dei nostri pregiudizi; e sta in questo precisamente la fonte del piacere e delle conoscenze che otteniamo leggendole. Quando noi, come associazione, onoriamo la potenza dell'immaginazione letteraria, non facciamo nessun intervento mistificatorio, ma, al contrario, un'apertura empirica ai modi imprevisti in cui uno scrittore originale, pur con tutte le sue imperfezioni, può offrire una prospettiva sorprendente e illuminante su un tema familiare, rovesciare d'un colpo le nostre deboli presupposizioni, o rinnovare con nostra sorpresa gli strumenti stessi dell'espressione letteraria.»
La fondazione, nel 1994, dell'Association of Literary Scholars and Critics (Alsc: Associazione degli studiosi e critici della letteratura) è una tra le novità presentate dalla scena della critica letteraria americana negli ultimi anni, e ha raccolto attorno a sé quelli che possiamo chiamare - usando le parole del «New York Times» - i «letterati tradizionalisti», i difensori dell'autonomia letteraria e dei suoi valori dagli attacchi mossi da tante Teorie comparse nel frattempo. I promotori della nuova associazione (John Ellis, Norman Fruman, Gerald Gillespie, Ricardo Quinones, Paul Cantor, John Hollander, Robert Alter, Alfred Kazin) e il loro primo presidente, Roger Shattuck, hanno voluto prendere le distanze dall'antica e fortissima Modern Language Association (Mla), colpevole secondo loro di essere ormai dominata dal decostruzionismo, dal neostoricismo, dagli studi culturali, femministi, etnici, post-coloniali.
Alla destra dell'Association of Literary Scholars and Critics c'è poi un'altra associazione, di impianto decisamente conservatore, la U.S. National Association of Scholars, che non vale la pena di prendere in considerazione, anche se nel clima attualmente dominante a Washington può trovare spazio di azione e appoggi non piccoli nei circoli del fondamentalismo religioso e culturale.
L'Alsc ha ottenuto un qualche successo, giungendo a raccogliere più di 2000 membri (contro i 32.000 della Modern Language Association), ma ha anche deciso di non insistere sulle prese di posizione polemiche e di dedicarsi principalmente, nei convegni annuali e nelle pagine della rivista «Literary Imagination», fondata nel 1999, a una strategia di difesa delle qualità intrinseche all'immaginario letterario, dunque a uno studio della «letteratura come letteratura e non come qualcosa d'altro», secondo principi di base non molto diversi da quelli che erano stati fatti propri, negli anni prima dell'arrivo della Teoria, dal New Criticism.
Shattuck è progressista o conservatore?
Alla riunione convocata in occasione della fondazione dell'Associazione, avvenuta a Boston nel 1994, Shattuck lesse le «Diciannove tesi sulla letteratura», che, in stile paradossale, prendono le difese del valore educativo e conoscitivo della letteratura e respingono sia le più rigide concezioni teoriche dello specifico letterario di origine linguistica o testuale sia gli atteggiamenti più concilianti e arrendevoli, che immergono e sciolgono la letteratura nell'indifferenziato mare dei prodotti culturali.
Quella di Shattuck è una figura interessante: studioso del modernismo e delle avanguardie francesi, specialista di Proust, progressista in politica, egli respinge ogni tendenza a sottoporre la letteratura a interessi extra-letterari, compresi quelli politici. Di lui, come di parecchi altri che hanno fondato l'Association of Literary Scholars and Critics (Alfred Kazin, esponente della intellighenzia newyorchese, Robert Alter, famoso biblista e professore sia a Berkeley che a Gerusalemme), ci si può chiedere: sono progressisti o conservatori? Shattuck è un sostenitore della sperimentazione delle avanguardie o un difensore della grande tradizione letteraria? A queste domande si può rispondere soltanto ricordando la complessità e la contraddittorietà della carriera umana di Shattuck. Lui stesso, del resto, ha più volte sottolineato la peculiarità della sua posizione: progressista in politica, conservatore nel campo degli studi letterari e dell'educazione. Egli racconta, nella prefazione al suo libro Forbidden Knowledge (1996) un aneddoto, che conferma la sua consapevolezza di portarsi dentro una profonda contraddizione, vissuta in tutta la sua drammatica carica umana: quando gli Stati Uniti fecero cadere nell'agosto 1945 le due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, Shuttuck si trovava nello scacchiere bellico del Pacifico, da un anno pilota da combattimento sui B-25 e da pochi mesi a Okinawa, con una squadra che si stava addestrando a uno sbarco in Giappone, simile a quello avvenuto in Normandia. La prospettiva realistica era che almeno una metà degli effettivi impegnati nello sbarco sarebbero caduti nell'impresa, quindi ciascuno di loro, fra cui Shattuck, aveva la probabilità del 50% di sopravvivere. Lo sgancio delle due bombe ordinato da Truman gli apparve allora, da un punto di vista personale, una fortuna. Ma da un punto di vista morale, la distruzione delle due città (addirittura la scena della città distrutta di Hiroshima, vista personalmente da un B-25 in volo sulle isole giapponesi) gli apparve subito come inaccettabile, e lo spinse a partecipare nel 1961, sfidando una folla ostile, a dimostrazioni contro la fabbricazione e l'uso delle armi nucleari.
L'etica degli umanisti
Il dilemma di allora continua a tormentare Shattuck anche oggi e lo spinge a domandarsi, senza trovare risposte semplici, quale sia stato il senso della guerra fredda e il ruolo in essa del deterrente nucleare. Sembra chiaro, anche da questo esempio, che nelle posizioni sue e dei suoi colleghi continui a essere viva una tradizione americana che si può definire umanistica, con un forte spessore etico, sul quale tornerò nella prossima puntata di questo articolo.
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La letteratura insegue il rapporto con l'etica
Appunti americani dalla rivolta contro il culto della teoria e dei tecnicismi /2
Sulla critica statunitense si allunga ancora l'ombra delle polemiche seguite a tre fatti emblematici. Il primo riguarda lo scandalo suscitato dalle accuse di antisemitismo rivolte al decostruzionista Paul De Man. Il secondo è il premio per il peggior esempio di scrittura critica assegnato alla filosofa femminista Judy Butler. Il terzo è il tranello che lo studioso di fisica Alan Sokal ha teso ai due direttori della rivista «Social Text» inviando loro un articolo pieno di enormità pseudo-scientifiche. Che è stato regolarmente pubblicato
Il ritorno delle questioni etiche mi pare caratterizzi tre avvenimenti che hanno cambiato l'atmosfera nella situazione della critica americana dell'ultimo decennio: tre avvenimenti, tutti finiti sulle pagine dei grandi giornali, tutti doverosamente registrati e commentati nell'antologia di Patai e Corral Theory's Empire. An Anthology of Dissent (di cui ho parlato ieri, nella puntata precedente di questo articolo) che ci fornisce dunque l'occasione per rivisitare momenti cruciali della cultura americana. Si tratta dello scandalo suscitato dalla figura di Paul De Man, del premio per il peggior esempio di scrittura critica assegnato polemicamente alla filosofa femminista di Berkeley Judy Butler e del tranello che lo studioso di fisica della New York University Alan Sokal ha teso ai due direttori della rivista «Social Text», Stanley Aronowitz e Andrew Ross, inviando loro un articolo parodistico e pieno di enormità pseudo-scientifiche, di citazioni incredibili da Lacan, Lyotard, Kristeva e molti altri, di riferimenti alla matematica e alla fisica contemporanee e di pretenziose teorie filosofiche sulla «social construction» delle verità della scienza, intitolato «Transgressing the Boundaries: Toward a Transformative Hermeneutics of Quantum Gravity» (Trasgredendo i confini: verso un'ermeneutica trasformativi della gravità dei quantum). L'articolo, purtroppo, è stato imprudentemente accettato come cosa seria da Aronowitz e Ross e pubblicato dalla rivista nel 1996.
Così si mischia il vero con il falso
Dello scandalo su Paul De Man, cioè della scoperta, dopo la morte nel 1983 del grande critico di origine belga, esponente di spicco del decostruzionismo a Yale, di una serie di articoli contenenti dichiarazioni antisemite e di appoggio al nazismo, da lui scritti su giornali belgi negli anni 1941-42 e tenuti poi attentamente celati negli anni del grande successo americano, si è parlato molto. In difesa di De Man hanno scritto, dopo lo scoppio dello scandalo nel 1987, alcune voci autorevoli, fra cui, con un lungo, eloquente saggio su «Critical Inquiry» Jacques Derrida. Altri hanno continuato ad avanzare dubbi e a porre domande, in particolare a chiedersi se ci fosse una possibile connessione fra le idee sostenute in quegli articoli e soprattutto il modo reticente con cui De Man aveva nascosto quel suo passato e le pratiche ermeneutiche del decostruzionismo.
In un lungo saggio che fa parte di un intero libro e che è stato accolto in forma accorciata nell'antologia Empire Building, Alan Spitzer, professore di storia all'università dello Iowa, ritorna pazientemente sulla vicenda degli articoli di De Man (a quelli pubblicati su «Le Soir» e su «Het Vlaamsche Land» si sono aggiunti nel frattempo quelli usciti su «Bibliographie Dechenne»), smonta molte delle tecniche di difesa dei sostenitori di De Man e giunge anche a parodizzare la strategia retorica del saggio di Derrida (ammissione della gravità delle accusa, loro attenuazione sulla base delle circostanze, sottolineatura di possibili ambiguità, dichiarazioni doppie, significati nascosti); ma alla fine pone con molta forza il problema etico dei comportamenti umani: se è vero, egli sostiene, che le circostanze storiche come la forte impressione fatta sui popoli europei dai successi nazisti nel 1941, l'impossibilità di sottrarsi alle scelte drammatiche del presente, l'ignoranza degli sviluppi futuri possono giustificare il comportamento di De Man, meno giustificabili risultano le vere e proprie bugie che egli infilò in una lettera alla Society of Fellows di Harvard (nel frattempo ritrovata), scritta nel 1955 in risposta a una denuncia anonima, in cui sosteneva che lo zio Henri era suo padre, che lui aveva cessato di scrivere articoli nel 1941 dopo l'introduzione della censura nazista, quando invece ne pubblicò ancora molti nel 1942, e così via. Non si può, in ogni caso, dimenticare che altri, fra cui alcuni condiscepoli di De Man nel Circle du libre examen di Bruxelles, fecero una scelta diversa. L'imperativo etico mette in crisi il giustificazionismo ermeneutico che, nella lettura degli articoli di De Man, fa ricorso alla teoria decostruzionista dell'indeterminatezza dei significati di qualsiasi testo. Ci sono casi, sostiene Spitzer, in cui la lettura non può evitare i problemi del vero e del falso, del giusto e dell'ingiusto.
Questa non è filosofia
Il caso della premiazione scherzosa, nel 1998, da parte della rivista «Philosophy and Literature» di Judith Butler come autrice di un brano di discorso critico contorto e incomprensibile, tratto da un saggio nella rivista «Diacritics» intitolato Further Reflections on Conversations of Our Time è analizzato, nell'antologia Theory's Empire, dal critico D. G. Myers. La sua analisi, che insiste sulla responsabilità etica che ogni filosofo ha di scrivere limpido e chiaro, sottopone a un esame impietoso anche un intervento a propria difesa scritto dalla Butler per il «New York Times», il cui senso è che per esprimere concetti difficili è necessario usare un linguaggio difficile. Ma forse l'intervento più reciso e liquidatorio è venuto, con poche frasi pubblicate su «New Republic» nel febbraio 1999, dalla filosofa di Chicago, promotrice di una nuova etica (e ben nota anche da noi) Martha Nussbaum: quella della Butler sarebbe retorica sofistica, una parodia del pensiero, non filosofia. «Quando le sue idee sono espresse chiaramente e in modo succinto, ci si accorge che, senza molte altre distinzioni e argomentazioni, esse non vanno lontano, e non sono poi così nuove. Perciò l'oscurità riempie il vuoto lasciato da un'assenza di vera complessità del pensiero e del discorso. Il quietismo hip della Butler è una risposta comprensibile alla difficoltà di costruire la giustizia in America. Ma è una cattiva risposta. Collabora con il male. Il femminismo chiede di più e le donne meritano di meglio». Dopo lo scherzo fatto alla rivista «Social Texts», Alan Sokel ha scritto, con l'aiuto di Jean Bricmont, un libro contenente il saggio originario e molte delle reazioni suscitate. Il libro è uscito in Francia con il titolo Impostures intellectuelles (1997) e negli Stati Uniti con il titolo Fashionable Nonsense: Postmodern Intellectuals' Abuse of Science (1998). A questi documenti sono dedicati, nell'antologia, ben due articoli: uno degli stessi Sokel e Bricmont, uscito sul «Times Literary Supplement» come risposta alle reazioni francesi e l'altro di Thomas Nagel sull'intera vicenda. In occasione dell'uscita parigina del libro, Julia Kristeva non è riuscita a trattenersi e ha fatto una dichiarazione sicuramente esagerata e fuori tono, riportata in Italia dal «Corriere della Sera», nella quale ha accusato Sokal di essere un sandinista, i due autori di essere francofobi e di fare disinformazione, e ha loro raccomandato di sottoporsi a cure psichiatriche.
Tutti e tre gli episodi, a quanto pare, hanno contribuito a screditare il decostruzionismo, il culto per la Teoria, il tecnicismo ossessivo e il gergo pretenzioso di tanta critica letteraria americana. Ma, a parte questi affondo gustosi su questioni che sono state oggetto di polemica, sono molti i saggi raccolti nell'antologia Theory's Empire su cui varrebbe la pena di soffermarsi e ragionare: l'intervento ironico, per esempio, di Chomsky sulle assurdità di alcuni discorsi che ha sentito in materia di scienza e di linguistica; o la denuncia di Lee Singel di alcune ridicole interpretazioni che la «madre» dei gay o queer studies, Eva Kosofsky Sedwich ha dato dei testi di Henry James e Jane Austen in libri e saggi ormai famosi (Between Men, 1985 e Epistemology of the Closet, 1990) scoprendo, senza il minimo appoggio testuale, negli uni la presenza del tema escrementizio e negli altri quello della masturbazione femminile; o l'illustrazione molto chiara e convinta che Nancy Easterlink fa delle possibilità di fondare una teoria cognitivista e bioepistemologica della letteratura; o le pagine di Clara Clairborne Park su Roland Barthes, la morte dell'autore e il culto degli immortali in Francia; o quelle di Jeffrey Wallen su Edward Said e il contesto sociale delle opere letterarie; o il brillante ragionamento di Denis Donoghue sulle pretese egemoniche del decostruzionismo di Derrida e sulla necessità di distinguere fra teorie, o meglio principi di comportamento intellettuale e morale, e Teoria come disciplina e istituzione accademica; o le riflessioni e analisi di Vincent Descombes sul referente, quelle di Mark Bauerlein sul «social constructionism», quelle di Russell Jacoby su meriti, demeriti e fortuna critica del termine «thick description», lanciato dall'antropologo Clifford Geertz.
Una visione eclettica
Mi soffermo, piuttosto, su un saggio, che mi sembra pieno di buon senso e di osservazioni interessanti e che, nonostante tutto, non vuole abbandonarsi al pessimismo. È intitolato Crisis in the Humanities? (Crisi nelle facoltà umanistiche?) e l'autrice è una brillante studiosa di Stanford, Marjorie Perloff, ora in pensione, a suo tempo molto impegnata nella sperimentazione di nuovi programmi di studio nella sua Università. La Perloff passa in rassegna diverse concezioni della letteratura, da Aristotele ai giorni nostri, quella essenzialmente retorica che si occupa di come funziona il linguaggio (rapporto con la linguistica), quella che attribuisce ai testi letterari una potente capacità di esprimere conoscenza e verità (rapporto con la filosofia), quella che li considera oggetti estetici, prodotti di una tecnica artistica raffinata (rapporto con le arti e la musica), quella che li considera formazioni storiche e culturali con precisi messaggi ideologici da comunicare (rapporto con la politica). A ciascuna di queste concezioni fa risalire metodi diversi di studio. Dopo avere constatato che, negli ultimi due decenni, negli studi letterari americani è divenuta largamente prevalente la quarta concezione, quella sostanzialmente fatta propria dai Cultural studies, con i conseguenti cambiamenti nell'assetto disciplinare dei dipartimenti, nelle liste dei testi da leggere e nel metodo (divenuto metodo unico per leggerli), la Perloff propone una visione che si può definire eclettica o relativistica (René Wellek l'avrebbe definita prospettivistica). Secondo lei ognuna di quelle concezioni e ognuno di quei metodi di studio hanno una loro giustificazione e una loro utilità e una delle ragioni della crisi sta nella chiusura di ogni scuola e tendenza dentro un unico metodo e, aggiungerei io, nella tendenza dei Cultural studies ad adattarsi a una versione appiattita e banalizzante dello studio dei testi, allentando i legami con la tradizione britannica e con le correnti più aggiornate di storia della cultura.
La Perloff porta l'esempio dell'Ulysses di James Joyce. Nei primi decenni successivi alla sua pubblicazione, quel grande libro è stato letto come una moderna e parodica Odissea oppure come un raffinato esperimento in cui trama e personaggi erano subordinati a un eroico sfruttamento di tutte le possibilità creative ed espressive del linguaggio. La trama del romanzo, con la sua straordinaria rete di motivi ricorrenti, allusioni, riferimenti incrociati e percorsi simbolici è stata esaminata da tutti i possibili punti di vista. Poi sono venuti gli studi di William T. Noon e Kevin Sullivan sull'educazione ricevuta da Joyce presso i gesuiti e sull'importanza della teoria estetica di Tommaso d'Aquino per capire la concezione della poesia di Joyce. Poi è arrivato lo strutturalismo e ogni interesse per le idee dell'autore di un'opera letteraria è stato gettato dalla finestra e si è passati a un esame analitico spesso molto raffinato delle sue strutture narrative e dei suoi modelli intertestuali. Infine sono venuti, negli ultimi decenni, i Cultural Studies e Ulysses è stato letto come testo in cui le dinamiche della razza, del potere, dell'impero e della differenza sessuale si scontravano sullo sfondo di un'Irlanda ridotta a colonia inglese, per cui i temi prevalenti nelle interpretazioni del testo sono stati il nazionalismo, il colonialismo, l'imperialismo e la condizione della donna, divisa fra i due modelli contrapposti della vergine e della prostituta. Ma in che cosa, si chiede la Perloff, questo tipo di letture ispirate dai Cultural studies, che trovano sicuramente una conferma nel ricco sistema tematico e verbale di Ulysses, sono diverse o migliori di quelle che nello stesso testo hanno trovato le prove della presenza del linguaggio tomistico? Ed è proprio necessario, sembra chiedersi la Perloff, concentrarsi su questi aspetti di Ulysses e dimenticare tutto il lavoro di analisi della sua struttura narrativa e del suo linguaggio?
La sua posizione mi sembra chiara e mi sembra confermare un'impressione che credo valga anche per la situazione italiana, dove pure si nota una generale crisi di stanchezza e scoraggiamento negli studi letterari: l'impressione è che coloro che avvertono più drammaticamente la crisi sono quelli che si sono dedicati con fede assoluta a una sola concezione della letteratura e a un solo metodo, considerato l'unico e il migliore, per studiarla.
La Perloff, d'altra parte, pur essendo perfettamente consapevole della crisi, non solo degli studi letterari ma dell'intero sistema delle scienze umane, non rinuncia a una nota di ottimismo. Una spinta a vedere le cose con meno angoscia le viene dalla navigazione in Internet, nel corso della quale scopre l'esistenza di siti molto belli e interessanti: un sito interattivo, per esempio, che offre quasi tutte le opere di Beckett e una grande quantità di materiale biografico, critico, interpretativo, comprese sette parodie di Aspettando Godot; un sito inglese che offre quasi tutti i manifesti del futurismo, altrimenti difficili da trovare; gli utilissimi archivi Wittgenstein disponibili in un sito norvegese; uno straordinario sito Ubu, organizzato da Kenneth Goldsmith, un appassionato d'arte che non è collegato con nessuna università. Chi visita questi siti? si chiede la Perloff. E risponde: non solo studenti o i loro professori. Ci sono a quanto pare varie migliaia di persone, nel mondo, interessate a saperne di più delle opere dei Beckett, o dei Blake, o dei Proust e a condividere con altri le loro interpretazioni e il loro entusiasmo per la letteratura.
Un giuramento contro la crisi
Ma allora, conclude la Perloff, c'è o non c'è questa crisi? «Sì e no. Nell'università, e specialmente nei dipartimenti di letteratura, la crisi, purtroppo, è reale, come dimostrano il calo delle iscrizioni e le scarse occasioni del mercato del lavoro per i professori di letteratura. Ma questi fenomeni possono anche essere il sintomo di un'altra disfunzione: una scarsa corrispondenza fra programmi di studio ormai invecchiati e gli interessi reali di eventuali nuovi studenti. Il cambiamento principale dei programmi nei corsi d'inglese negli ultimi decenni è stato lo spostamento dell'attenzione dagli scrittori maggiori a quelli di minora importanza, con il risultato di far leggere molte poesie, racconti e romanzi scritti da esponenti di gruppi etnici o razziali di solito ignorati o di donne. Ma senza una ben definita nozione di perché è importante leggere testi di letteratura, sia di scrittori ben affermati sia di scrittori marginalizzati, lo studio della `letteratura' diventa solo un dovere, un modo per distribuire in qualche modo i crediti da raccogliere».
Non so se l'insistenza con cui, in questa antologia, viene usato il concetto di `eticità', come valore intrinseco dell'opera letteraria sia del tutto giustificato. Io sono pronto a riconoscere all'opera letteraria, pur con i mezzi suoi propri e grazie alla ricchezza di significati e di rappresentazioni che ne fanno la specificità, un valore ampiamente conoscitivo, di cui sicuramente fanno parte le decisioni e le azioni che compiono i personaggi e i giudizi che possono darne i lettori. Sono però più incline a parlare di eticità e responsabilità professionale dei critici e degli studiosi della letteratura. In appendice all'antologia di Patai e Corrall viene riportato un «giuramento ippocratico» pronunciato, fra il serio e lo scherzoso nel 1979 dal critico di Chicago Wayne C. Booth, specialista dei problemi della narrativa e anche, guarda caso, di quelli del rapporto fra narrativa ed etica. Primo comma del giuramento: «Prometto di non pubblicare nulla, né favorevole né sfavorevole, su libri o articoli che non ho letto interamente almeno una volta». Sulla base di questo principio, egli pensa che almeno un quarto dei libri o degli articoli di critica oggi correnti verrebbe scartato. Secondo comma: «Prometto di non pubblicare nulla su libri o articoli finché non li abbia capiti, vale a dire finché non abbia ragione di pensare che posso riassumerli in un modo che risulterebbe riconoscibile all'autore». Sulla base di questo secondo principio un altro quarto dei libri e degli articoli oggi correnti andrebbe al macero. Terzo comma: «Non accetterò di leggere le critiche rivolte da un critico a un altro critico se non sarò certo che egli avrà rispettato i primi due comandamenti». Quarto comma: «Non mi imbarcherò in nessun progetto di lavoro se non sarò certo di rispettare i primi tre giuramenti». A questo punto, quasi tutta la produzione critica oggi corrente è andata al macero. Quinto comma: «Non considererò le mie inevitabili violazioni delle prime quattro promesse con indulgenza maggiore di quella che riserverò a chiunque altro.».
Un sesto comma per l'Italia
I principi di Booth mi sembrano tutti sottoscrivibili e sottoponibili al giuramento di chi fa professione di critica anche in Italia. Aggiungerei, tenendo conto delle nostre specificità nazionali, un sesto comma (anch'io dovrei essere fra i primi a pronunciarlo): «Prometto di non scrivere nessuna storia letteraria prima di avere letto per intero tutte le opere prese in considerazione e di ignorare tutte le precedenti storie letterarie a meno di essere certo che chi le ha scritte ha letto veramente tutte le opere che ha preso in considerazione.»
ilmanifesto.it
8.9.05
Le guerre mentono
EDUARDO GALEANO
- Ma il motivo... disse il signor Duval. Un uomo non uccide per niente.
- Il motivo? rispose Ellery, stringendosi nelle spalle-. Lei il motivo lo conosce.
(Ellery Queen, «Avventura nella Casa delle Tenebre»)
Le guerre dicono di esserci per nobili ragioni: la sicurezza internazionale, la dignità nazionale, la democrazia, la libertà, l'ordine, il mandato della Civiltà o la volontà di Dio. Nessuno ha l'onestà di confessare: «Io uccido per rubare».
In Congo, nel corso della guerra dei quattro anni che è in sospeso dalla fine del 2002, sono morti non meno di tre milioni di civili. Sono morti per il coltan, ma neppure loro lo sapevano. Il coltan è un minerale raro, e il suo strano nome designa la mescolanza di due rari minerali chiamati columbio e tantalio. Il coltan valeva poco o nulla, finché si scoprì che era imprescindibile per la fabbricazione di telefoni cellulari, navi spaziali, computer e missili; e allora è diventato più caro dell'oro.
Quasi tutte le riserve conosciute di coltan sono nelle sabbie del Congo. Più di quarant'anni fa, Patricio Lumumba fu sacrificato su un altare d'oro e di diamanti. Il suo paese torna ad ucciderlo ogni giorno.
Il Congo, paese poverissimo, è molto ricco di minerali, e questo regalo della natura continua a rivelarsi una maledizione della storia.
Gli africani chiamano il petrolio «merda del diavolo». Nel 1978 venne scoperto il petrolio nel sud del Sudan. Si sa che sette anni dopo le riserve erano già più del doppio, e la maggior quantità giace nell'ovest del paese, nella regione del Darfur. Là, di recente, c'è stata, e continua a esserci, un'altra strage. Molti contadini neri, due milioni secondo alcune stime, sono fuggiti o sono stati uccisi dai proiettili, dai coltelli o dalla fame, al passaggio delle milizie arabe che il governo appoggia con carri armati ed elicotteri. Questa guerra si traveste da conflitto etnico e religioso fra i pastori arabi, islamici, e i contadini neri, cristiani e animisti. Ma il fatto è che i villaggi incendiati e i campi distrutti erano dove adesso cominciano ad ergersi le torri petrolifere che perforano la terra. La negazione dell'evidenza, ingiustamente attribuita agli ubriachi, è la più nota abitudine del presidente del pianeta, che, grazie a dio, non beve nemmeno un goccio. Lui continua ad affermare che la sua guerra in Iraq non ha niente a che vedere con il petrolio.
«Ci hanno ingannato occultando sistematicamente informazione», scriveva dall'Iraq, nel lontano 1920, un certo Lawrence d'Arabia: «Il popolo inglese è stato portato in Mesopotamia per cadere in una trappola dalla quale sarà difficile uscire con dignità e con onore».
Lo so che la storia non si ripete, ma a volte ne dubito.
E l'ossessione contro Chávez? Non ha proprio niente a che vedere con il petrolio del Venezuela questa campagna forsennata che minaccia di uccidere, in nome della democrazia, il dittatore che ha vinto nove elezioni pulite?
E le continue grida d'allarme per il pericolo nucleare iraniano non hanno proprio niente a che vedere con il fatto che l'Iran contenga una delle riserve di gas più ricche del mondo? E se no, come si spiega la faccenda del pericolo nucleare? È stato forse l'Iran il Paese che ha gettato le bombe nucleari sulla popolazione civile di Hiroshima e Nagasaki?
L'impresa Bechtel, con sede in California, aveva ricevuto in concessione, per quarant'anni, l'acqua di Cochabamba. Tutta l'acqua, compresa l'acqua piovana. Non appena si fu installata, triplicò le tariffe. Scoppiò una rivolta popolare e l'impresa dovette andarsene dalla Bolivia.
Il presidente Bush si impietosì per l'espulsione, e la consolò concedendole l'acqua dell'Iraq.
Davvero generoso da parte sua. L'Iraq non è degno di essere distrutto solo per la sua favolosa ricchezza petrolifera: questo paese, irrigato dal Tigri e dall'Eufrate, si merita il peggio anche perché è la pozza d'acqua dolce più ricca di tutto il Medio Oriente.
Il mondo è assetato. I veleni chimici imputridiscono i fiumi e la siccità li stermina, la società dei consumi consuma sempre più acqua, l'acqua è sempre meno potabile e sempre più scarsa. Tutti lo sanno: le guerre del petrolio saranno, domani, guerre dell'acqua.
In realtà, le guerre dell'acqua sono già in corso. Sono guerre di conquista, ma gli invasori non gettano bombe, né fanno sbarcare truppe. I tecnocrati internazionali, che mettono i paesi poveri in stato d'assedio ed esigono privatizzazione o morte, viaggiano in abiti civili. Le loro armi, mortali strumenti di estorsione e di castigo, non si vedono e non si sentono.
La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, due ganasce della stessa morsa, hanno imposto, in questi ultimi anni, la privatizzazione dell'acqua in sedici paesi poveri. Fra essi, alcuni dei più poveri del mondo, come il Benin, la Nigeria, il Mozambico, il Ruanda, lo Yemen, la Tanzania, il Camerun, l'Honduras, il Nicaragua... L'argomento era irrefutabile: o consegnano l'acqua o non ci sarà clemenza per i debiti o nuovi prestiti.
Gli esperti hanno anche avuto la pazienza di spiegare che non lo facevano per smantellare sovranità nazionali, bensì per aiutare la modernizzazione dei paesi che languivano nell'arretratezza per l'inefficienza dello stato. E se le bollette dell'acqua privatizzata non potevano essere pagate dalla maggioranza della popolazione, tanto meglio: magari così si sarebbe finalmente svegliata la loro assopita volontà di lavoro e di superamento personale.
Chi comanda in democrazia? I funzionari internazionali dell'alta finanza, che nessuno ha votato? Alla fine dell'ottobre dell'anno scorso, un referendum ha deciso il destino dell'acqua in Uruguay. La maggior parte della popolazione ha votato, con una maggioranza mai vista, confermando che l'acqua è un servizio pubblico e un diritto di tutti. È stata una vittoria della democrazia contro la tradizione dell'impotenza, che ci insegna che siamo incapaci di gestire l'acqua o qualsiasi altra cosa, e contro la cattiva fama della proprietà pubblica, screditata dai politici che l'hanno usata e maltrattata come se ciò che è di tutti non fosse di nessuno.
Il referendum dell'Uruguay non ha avuto nessuna ripercussione internazionale. I grandi media non sono venuti a conoscenza di questa battaglia della guerra dell'acqua, persa da quelli che vincono sempre; e l'esempio non ha contagiato nessun paese del mondo. Questo è stato il primo referendum dell'acqua e finora, che si sappia, è stato anche l'ultimo.
copyright ips - il manifesto(traduzione di Marcella Trambaioli)
ilmanifesto.it
- Ma il motivo... disse il signor Duval. Un uomo non uccide per niente.
- Il motivo? rispose Ellery, stringendosi nelle spalle-. Lei il motivo lo conosce.
(Ellery Queen, «Avventura nella Casa delle Tenebre»)
Le guerre dicono di esserci per nobili ragioni: la sicurezza internazionale, la dignità nazionale, la democrazia, la libertà, l'ordine, il mandato della Civiltà o la volontà di Dio. Nessuno ha l'onestà di confessare: «Io uccido per rubare».
In Congo, nel corso della guerra dei quattro anni che è in sospeso dalla fine del 2002, sono morti non meno di tre milioni di civili. Sono morti per il coltan, ma neppure loro lo sapevano. Il coltan è un minerale raro, e il suo strano nome designa la mescolanza di due rari minerali chiamati columbio e tantalio. Il coltan valeva poco o nulla, finché si scoprì che era imprescindibile per la fabbricazione di telefoni cellulari, navi spaziali, computer e missili; e allora è diventato più caro dell'oro.
Quasi tutte le riserve conosciute di coltan sono nelle sabbie del Congo. Più di quarant'anni fa, Patricio Lumumba fu sacrificato su un altare d'oro e di diamanti. Il suo paese torna ad ucciderlo ogni giorno.
Il Congo, paese poverissimo, è molto ricco di minerali, e questo regalo della natura continua a rivelarsi una maledizione della storia.
Gli africani chiamano il petrolio «merda del diavolo». Nel 1978 venne scoperto il petrolio nel sud del Sudan. Si sa che sette anni dopo le riserve erano già più del doppio, e la maggior quantità giace nell'ovest del paese, nella regione del Darfur. Là, di recente, c'è stata, e continua a esserci, un'altra strage. Molti contadini neri, due milioni secondo alcune stime, sono fuggiti o sono stati uccisi dai proiettili, dai coltelli o dalla fame, al passaggio delle milizie arabe che il governo appoggia con carri armati ed elicotteri. Questa guerra si traveste da conflitto etnico e religioso fra i pastori arabi, islamici, e i contadini neri, cristiani e animisti. Ma il fatto è che i villaggi incendiati e i campi distrutti erano dove adesso cominciano ad ergersi le torri petrolifere che perforano la terra. La negazione dell'evidenza, ingiustamente attribuita agli ubriachi, è la più nota abitudine del presidente del pianeta, che, grazie a dio, non beve nemmeno un goccio. Lui continua ad affermare che la sua guerra in Iraq non ha niente a che vedere con il petrolio.
«Ci hanno ingannato occultando sistematicamente informazione», scriveva dall'Iraq, nel lontano 1920, un certo Lawrence d'Arabia: «Il popolo inglese è stato portato in Mesopotamia per cadere in una trappola dalla quale sarà difficile uscire con dignità e con onore».
Lo so che la storia non si ripete, ma a volte ne dubito.
E l'ossessione contro Chávez? Non ha proprio niente a che vedere con il petrolio del Venezuela questa campagna forsennata che minaccia di uccidere, in nome della democrazia, il dittatore che ha vinto nove elezioni pulite?
E le continue grida d'allarme per il pericolo nucleare iraniano non hanno proprio niente a che vedere con il fatto che l'Iran contenga una delle riserve di gas più ricche del mondo? E se no, come si spiega la faccenda del pericolo nucleare? È stato forse l'Iran il Paese che ha gettato le bombe nucleari sulla popolazione civile di Hiroshima e Nagasaki?
L'impresa Bechtel, con sede in California, aveva ricevuto in concessione, per quarant'anni, l'acqua di Cochabamba. Tutta l'acqua, compresa l'acqua piovana. Non appena si fu installata, triplicò le tariffe. Scoppiò una rivolta popolare e l'impresa dovette andarsene dalla Bolivia.
Il presidente Bush si impietosì per l'espulsione, e la consolò concedendole l'acqua dell'Iraq.
Davvero generoso da parte sua. L'Iraq non è degno di essere distrutto solo per la sua favolosa ricchezza petrolifera: questo paese, irrigato dal Tigri e dall'Eufrate, si merita il peggio anche perché è la pozza d'acqua dolce più ricca di tutto il Medio Oriente.
Il mondo è assetato. I veleni chimici imputridiscono i fiumi e la siccità li stermina, la società dei consumi consuma sempre più acqua, l'acqua è sempre meno potabile e sempre più scarsa. Tutti lo sanno: le guerre del petrolio saranno, domani, guerre dell'acqua.
In realtà, le guerre dell'acqua sono già in corso. Sono guerre di conquista, ma gli invasori non gettano bombe, né fanno sbarcare truppe. I tecnocrati internazionali, che mettono i paesi poveri in stato d'assedio ed esigono privatizzazione o morte, viaggiano in abiti civili. Le loro armi, mortali strumenti di estorsione e di castigo, non si vedono e non si sentono.
La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, due ganasce della stessa morsa, hanno imposto, in questi ultimi anni, la privatizzazione dell'acqua in sedici paesi poveri. Fra essi, alcuni dei più poveri del mondo, come il Benin, la Nigeria, il Mozambico, il Ruanda, lo Yemen, la Tanzania, il Camerun, l'Honduras, il Nicaragua... L'argomento era irrefutabile: o consegnano l'acqua o non ci sarà clemenza per i debiti o nuovi prestiti.
Gli esperti hanno anche avuto la pazienza di spiegare che non lo facevano per smantellare sovranità nazionali, bensì per aiutare la modernizzazione dei paesi che languivano nell'arretratezza per l'inefficienza dello stato. E se le bollette dell'acqua privatizzata non potevano essere pagate dalla maggioranza della popolazione, tanto meglio: magari così si sarebbe finalmente svegliata la loro assopita volontà di lavoro e di superamento personale.
Chi comanda in democrazia? I funzionari internazionali dell'alta finanza, che nessuno ha votato? Alla fine dell'ottobre dell'anno scorso, un referendum ha deciso il destino dell'acqua in Uruguay. La maggior parte della popolazione ha votato, con una maggioranza mai vista, confermando che l'acqua è un servizio pubblico e un diritto di tutti. È stata una vittoria della democrazia contro la tradizione dell'impotenza, che ci insegna che siamo incapaci di gestire l'acqua o qualsiasi altra cosa, e contro la cattiva fama della proprietà pubblica, screditata dai politici che l'hanno usata e maltrattata come se ciò che è di tutti non fosse di nessuno.
Il referendum dell'Uruguay non ha avuto nessuna ripercussione internazionale. I grandi media non sono venuti a conoscenza di questa battaglia della guerra dell'acqua, persa da quelli che vincono sempre; e l'esempio non ha contagiato nessun paese del mondo. Questo è stato il primo referendum dell'acqua e finora, che si sappia, è stato anche l'ultimo.
copyright ips - il manifesto(traduzione di Marcella Trambaioli)
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5.9.05
Thoreau antenato di Unabomber
Sulla base di una mitologia artificiosamente costruita c'è chi ha riscontrato alcune analogie tra il criminale Ted Kaczynski e lo scrittore Henry D. Thoreau. L'uno si era ritirato in una capanna per combattere la sua battaglia contro la società dell'industria tecnologica, l'altro si insediò nella austera dimora di Concord il 4 luglio 1845 per ribadire la sua indipendenza. Il resoconto di quell'isolamento nei boschi viene ora ritradotto da Donzelli con il titolo Walden
Le pagine di Walden hanno indicato la strada a intere generazioni di giovani ribelli, e il libro è una pietra miliare delle fantasie libertarie americane
TOMMASO PINCIO
Jack London riteneva che, in determinati momenti, antichi e sopiti istinti possono risvegliarsi e spingere un uomo verso la solitudine delle foreste, lontano dalle città rumorose, per uccidere. Espresse questa convinzione nel suo romanzo più famoso, Il richiamo della foresta, senza troppi giri di parole, con il linguaggio diretto e tempestoso tipico di un «realista selvaggio». Chissà se gli agenti dello Fbi furono attraversati pensieri dello stesso tenore quando nell'aprile del 1996 fecero irruzione in una capanna nel Montana e arrestarono Ted Kaczynski con l'accusa di essere l'infame «Unabomber», il terrorista che nel corso di quasi un ventennio spedì plichi esplosivi uccidendo tre persone e ferendone ventinove. La spartana dimora in cui egli si era ritirato per combattere una solitaria battaglia contro la società dell'industria tecnologica avrebbe potuto autorizzare simili paragoni e fu addirittura trasportata a Sacramento, sede del processo, affinché la giuria potesse prenderne visione quale prova inconfutabile che l'uomo era profondamente disturbato. La mitologia sorta intorno a quella capanna fu in buona parte costruita dai mezzi di informazione ma non è uno specchio fedele della realtà. Il luogo in cui era situata non era poi così isolato, tuttavia i giornalisti non esitarono a parlare di «wilderness», un termine che nell'immaginario americano evoca quanto di più distante ci possa essere dall'idea di civiltà. Sorvolando bellamente sul fatto che vivere a quattro miglia da una città è tutt'altro che insolito in uno stato come il Montana, la stampa fece della capanna il simbolo dello stile di vita di un individuo che parlava poco o niente, non portava orologio, non faceva sesso e girava in bicicletta in pieno inverno. «Eccentriche» abitudini che avrebbero dovuto attestare in termini inequivocabili uno stato di irrimediabile alienazione.
Dimostrare che Ted Kaczynski fosse pazzo era però impresa tutt'altro che agevole. Il rapporto psichiatrico con cui al dibattimento si pretese di dimostrare una volta per tutte che egli era malato di mente ruotava in sostanza attorno a due argomenti o, per essere più precisi, due convinzioni dell'imputato. Kazcynski credeva che la sua esistenza fosse controllata dalla tecnologia e che i genitori avessero commesso gravi errori. Ma quante persone pensano cose simili? «C'è un po' di Unambomber in ognuno di noi» si lesse all'epoca sulle pagine del Time, un'affermazione che non parve affatto stonata, soprattutto se si prendeva in considerazione l'esperienza di coloro che a partire dalla fine degli anni Sessanta scelsero di abbandonare i centri abitati per fare ritorno alla natura.
Certo, spedire plichi esplosivi non è da tutti ma a parte ciò, ridotta all'osso, la storia di quest'uomo non era poi così atipica: dopo esseri laureato in matematica a Harvard, nel 1969 Kaczynski lasciò un buon posto di insegnante presso l'università di Berkeley e se ne andò a vivere lontano da tutto come un eremita. Una storia a tal punto simile a quella di tanti hippy e ambientalisti che la destra americana se ne servì per dimostrare come le malsane idee degli ambientalisti e di chiunque osa criticare il progresso tecnologico siano destinate sfociare in violenza e anarchia. Ci fu anche chi si spinse ben oltre, vedendo in Unabomber una sorta di gemello cattivo di Al Gore, vicepresidente durante l'amministrazione Clinton e autore di Earth in Balance, una riflessione dai toni certamente non estremisti su inquinamento e sfruttamento sconsiderato del pianeta.
A rappresentare un problema erano le tesi esposte da Kaczynski nella Società industriale e il suo futuro, il cosiddetto «manifesto» pubblicato da New York Times e Washigton Post nel settembre del 1995 dietro suggerimento dello Fbi nella speranza che qualche lettore potesse riconoscere lo stile della scrittura e fornire elementi utili alla cattura del terrorista. Il nocciolo del prolisso pamphlet era che il progresso tecnologico porta con sé tali e tanti effetti negativi per cui si rende necessario arrestarlo affinché l'umanità possa far ritorno ad abitudini di vita più semplici e in armonia con la natura. Idee che somigliavano tremendamente a quelle degli attivisti di Earth First! e per giunta argomentate in modo razionale.
Alla fine degli anni Novanta lo psicoterapista Gary Greenberg intraprese un carteggio con Kaczynski al fine di chiedergli il permesso di scrivere una sua biografia. Il resoconto dello scambio epistolare è poi diventato oggetto di una sorta racconto pubblicato in The best of McSweeney's (minimum fax, pp. 337, 14). Nella prima lettera spedita a Unambomber presso il carcere di massima sicurezza dove era rinchiuso, Greenberg scrive: «Come molti nostri coetanei, ho trascorso qualche anno in una capanna in mezzo ai boschi senza acqua corrente né elettricità, cercando di vivere solo dei prodotti della terra... Non dimenticherò mai come la gente che non riusciva a capire quello che stavo facendo mi considerasse con sospetto se non addirittura con ripugnanza... Non vorrei apparire presuntuoso, ma credo che la sua storia sia in parte anche la mia e nella sua decisione di adottare questo stile di vita riconosco una forma d'integrità per la quale nutro un profondo rispetto». L'intento dello psicoterapeuta era evidentemente quello di blandire. Egli diceva tuttavia qualcosa di molto vero affermando che la «visione del mondo che sottende e rende possibile l'invenzione di macchinari e apparecchiature... non tollera proteste radicali. Essa coopta l'opposizione o la estirpa, uccidendola senza mezzi termini oppure semplicemente screditandola». Bollare Kaczynski come un folle «prodotto degli anni Sessanta» non era infatti solo un modo per puntare l'indice contro hippy e ambientalisti, sottintendeva pure che mettere in discussione i fondamenti della società tecnologica è una eresia intollerabilmente pericolosa.
Del resto, non stiamo di certo parlando del primo caso di strumentalizzazione. Si pensi per esempio al tragico massacro avvenuto nel 1969 nei sobborghi di Los Angeles in cui perse la vita la giovane attrice Sharon Tate. L'acceso dibattito che seguì l'arresto di Charles Manson e di alcuni appartenenti della sua comune asserragliata in una zona sperduta e desertica della Death Valley fu in buona parte teso a dimostrare a quali forme di abiezione e violenza potessero condurre le idee del Movimento. Lo stesso presidente di allora dichiarò pubblicamente colpevole Manson prima ancora che il processo fosse iniziato. Infischiandosene della presunzione d'innocenza, principio imprescindibile di uno Stato di diritto, Nixon condannò di fatto un'intera generazione di contestatori del sistema e pose le basi per un sano ritorno all'ordine costituito, a suo avviso di gran lunga preferibile e più sano di qualunque ritorno alla natura.
Le ragioni per cui dovremmo accettare l'assunto che una civiltà tecnologicamente avanzata rappresenterebbe quanto di meglio si possa desiderare sono note. Le macchine offrono sicurezza, comodità e soprattutto incrementano la produzione di «cose» da consumare ovvero fanno bene all'economia di mercato, un bene che dovrebbe far passare in secondo piano tanti mali minori quali l'impatto ambientale o la considerazione che l'esistenza non è fatta solo di «cose» ma anche di amore, amicizia e - perché no? - dell'eventuale aspirazione a stili di vita meno utilitaristici e artificiali. Tali ragioni sono note da così tanto tempo che già all'epoca in cui la società industriale era ancora agli inizi uomini come Henry D. Thoreau lamentarono che in un mondo di macchine molta gente è costretta a vivere una vita di quieta disperazione.
È una vecchia storia: gli argomenti di critica ai fondamenti del sistema vengono immancabilmente bollati come assurdi malgrado siano spesso più che ragionevoli. Non bisogna essere dei geni per capire che la vera assurdità è il raggiungimento del profitto a qualunque costo, eppure il principio che regola l'economia e condiziona drammaticamente la democrazia rimane comunque lo stesso: espansione, espansione e poi ancora espansione. Com'è possibile tutto ciò? Come si spiega una simile macroscopica contraddizione?
Una risposta plausibile potrebbe essere cercata nell'avidità e in una lunga serie di altre e poco edificanti inclinazioni quali egoismo, ignavia e pigrizia. Mettendola in termini espliciti, quella parte di umanità che dispone del potere di cambiare le cose non vuole o non sa rinunciare a vivere nel più completo benessere. È però una spiegazione sufficiente? Senza dubbio dice molto, ma non proprio tutto. C'è infatti anche dell'altro. C'è per esempio la paradossale dinamica in base alla quale funziona l'economia di mercato, il motore che ha determinato il primato della tecnologia. Il sistema occidentale, quello americano in particolare, fa leva sull'individuo, lo esalta, lo colloca al centro di un universo il cui unico senso sembra essere il raggiungimento della felicità personale, e con ciò lo incita a fare di tutto pur di soddisfare i propri desideri. In realtà, nonostante gli sforzi, non tutti gli individui ottengono quel che gli viene promesso. Ma per il sistema una simile inadempienza rappresenta un peccato veniale in quanto il suo vero scopo non è il benessere dei singoli bensì quello del mercato nel suo complesso.
Fu proprio Henry Thoreau il primo a rendere evidente il contrasto tra la piena realizzazione di ogni individuo e una società tecnologicamente organizzata. Thoreau, il precursore di tutti gli americani che prima e dopo l'era hippy hanno fatto ritorno alla natura opponendo un'economia della frugalità al consumismo forsennato. Mezzo secolo prima di Jack London egli avvertì il richiamo della foresta e nella primavera del 1845 si recò sulle rive del lago di Walden, a Concord, nel Massachusetts. Usando un'ascia presa a prestito abbatté alcuni pini bianchi per ricavarne legname con cui costruirsi un'austera dimora nella quale avrebbe vissuto per due anni, due mesi e due giorni. Si insediò stabilmente nella nuova casa il 4 luglio. Non a caso scelse il giorno della Dichiarazione d'Indipendenza, perché proprio questo è ciò che egli voleva diventare: indipendente.
Walden, resoconto del periodo trascorso nei boschi (ora riproposto da Donzelli in una nuova traduzione curata da Salvatore Proietti pp. 246, 21), non è soltanto un libro «con descrizioni di scoiattoli e nevicate». Come giustamente rileva Wu Ming 2 nell'introduzione al volume il lato seducente dei passaggi prettamente naturalistici «non basta a se stesso». Walden è anche un trattato di economia dell'autosufficienza, l'esperimento di un uomo che rifiuta le regole di un sistema concepito per renderci schiavi di noi stessi. «Si parla della divinità dell'uomo!» scrive Thoreau. «Guardate il carrettiere sulla strada, che va al mercato di giorno e di notte; ci può essere una qualche divinità in lui? Il suo più alto dovere è dare foraggio e acqua ai suoi cavalli! Per lui, cosa può contare il proprio destino, paragonato agli interessi di trasporto? Quanto sarà divino, quanto sarà immortale? Vedete come si abbassa e striscia, come passa tutta la giornata vagamente impaurito, senza essere immortale né divino, ma schiavo e prigioniero dell'opinione che ha di se stesso, una fama guadagnata con le proprie azioni. L'opinione pubblica è un tiranno debole, se paragonato con la nostra opinione privata».
Walden ha indicato la strada a intere generazioni di giovani ribelli diventando una pietra miliare dell'immaginario libertario americano. Quand'era ancora in vita Thoreau non godette però di un apprezzamento altrettanto unanime. Molti dei suoi contemporanei lo giudicavano una persona un po' matta che sconvolgeva i valori del vivere comune. Gli agricoltori di Condord lo guardavano con sospetto perché nella sua vita quotidiana metteva in pratica una verità cui essi si abbandonavano soltanto nei giorni di festa. Perfino uno scrittore come Robert Louis Stevenson, che pure doveva molto all'opera di Thoreau, riscontrò in lui la vigliaccheria di chi non vuole prendersi alcuna responsabilità. Non aveva tutti i torti. Malgrado il suo profondo rigore morale e filosofico, sebbene avesse dimostrato di sapere fare anche l'imprenditore contribuendo a risollevare le sorti della fabbrica di matite del padre, Thoreau era un individualista per il quale non esistevano doveri se non quelli riconosciuti da lui stesso. Ma è forse possibile un'autentica pienezza di vita senza una certa dose di quell'egotismo che traspare in controluce anche nelle esperienze di chi, dai beat agli hippy, raccolse la sua eredità?
Tornando alla mitologia artificiosamente costruita intorno alla capanna di Unambomber, qualcuno ha riscontrato alcune analogie tra la dimora di Kaczynski e quella di Thoreau. Nemmeno questa è una totale assurdità. Nessuna delle costruzioni era infatti davvero immersa nella wilderness; Thoreau si recava a piedi dal calzolaio per farsi riparare le scarpe. Inoltre, sia Thoreau che Kaczynski usavano il termine «esperimento» per definire le loro radicali scelte di vita. Entrambi erano poi considerati tipi eccentrici dai rispettivi contemporanei. Ovviamente è necessario ribadire che esiste una differenza tra chi uccide e chi, come Thoreau, si limita a rifiutarsi di pagare le tasse. Rimane tuttavia un dato essenziale: l'individuo che si isola dalla comunità per contestarne i valori rappresenta una minaccia e quindi deve essere fatto passare per pazzo.
Henry Miller vedeva in Thoreau «un genuino rappresentante dell'America» ma sosteneva pure che «chi, nel nostro paese osasse assumere l'atteggiamento di Thoreau di fronte a qualche problema cruciale del nostro tempo sarebbe senza dubbio condannato alla prigionia a vita». Questo perché egli «apparteneva a quella categoria di uomini che, se soltanto fossero più numerosi, provocherebbero la caduta naturale di ogni governo». Che dire allora di Manson e Kaczynski? Sono anche loro genuini rappresentanti dell'America? Indignarsi di fronte a una simile affermazione è troppo facile e offre il fianco a quei conservatori che non si fanno scrupolo di usare il percorso di alcuni criminali come strumento per screditare ogni forma di legittimo dissenso. La verità è che usando lo stesso metro logico si potrebbe smascherare l'imbroglio nascosto dietro il tanto decantato diritto della «ricerca della felicità» che sulla carta l'America garantisce a tutti ma nei fatti concede solo a chi è grado di stare nel mercato. Si potrebbe dire, cioè, che è il sistema fondato su un'esasperante individualismo a dar vita al dissenso e alle sue degenerazioni.
Così il cerchio si chiuderebbe, ma sarebbe il classico cerchio del serpente che si morde la coda. Per giunta è un cerchio che non gioverebbe a nessuno, perché non possiamo far finta di dimenticare che quel serpente siamo noi e che nostra è quella coda. Ciò non toglie però che Thoreau avesse ragione a dire quel che una volta disse a Emerson. «Cosa ci fai lì dentro?» domandò Emerson che era andato a trovare l'amico in carcere. «E tu cosa ci fai là fuori?» rispose Thoreau che era stato arrestato per non aver voluto pagare una tassa destinata a finanziare una delle tante giuste guerre del governo americano.
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Le pagine di Walden hanno indicato la strada a intere generazioni di giovani ribelli, e il libro è una pietra miliare delle fantasie libertarie americane
TOMMASO PINCIO
Jack London riteneva che, in determinati momenti, antichi e sopiti istinti possono risvegliarsi e spingere un uomo verso la solitudine delle foreste, lontano dalle città rumorose, per uccidere. Espresse questa convinzione nel suo romanzo più famoso, Il richiamo della foresta, senza troppi giri di parole, con il linguaggio diretto e tempestoso tipico di un «realista selvaggio». Chissà se gli agenti dello Fbi furono attraversati pensieri dello stesso tenore quando nell'aprile del 1996 fecero irruzione in una capanna nel Montana e arrestarono Ted Kaczynski con l'accusa di essere l'infame «Unabomber», il terrorista che nel corso di quasi un ventennio spedì plichi esplosivi uccidendo tre persone e ferendone ventinove. La spartana dimora in cui egli si era ritirato per combattere una solitaria battaglia contro la società dell'industria tecnologica avrebbe potuto autorizzare simili paragoni e fu addirittura trasportata a Sacramento, sede del processo, affinché la giuria potesse prenderne visione quale prova inconfutabile che l'uomo era profondamente disturbato. La mitologia sorta intorno a quella capanna fu in buona parte costruita dai mezzi di informazione ma non è uno specchio fedele della realtà. Il luogo in cui era situata non era poi così isolato, tuttavia i giornalisti non esitarono a parlare di «wilderness», un termine che nell'immaginario americano evoca quanto di più distante ci possa essere dall'idea di civiltà. Sorvolando bellamente sul fatto che vivere a quattro miglia da una città è tutt'altro che insolito in uno stato come il Montana, la stampa fece della capanna il simbolo dello stile di vita di un individuo che parlava poco o niente, non portava orologio, non faceva sesso e girava in bicicletta in pieno inverno. «Eccentriche» abitudini che avrebbero dovuto attestare in termini inequivocabili uno stato di irrimediabile alienazione.
Dimostrare che Ted Kaczynski fosse pazzo era però impresa tutt'altro che agevole. Il rapporto psichiatrico con cui al dibattimento si pretese di dimostrare una volta per tutte che egli era malato di mente ruotava in sostanza attorno a due argomenti o, per essere più precisi, due convinzioni dell'imputato. Kazcynski credeva che la sua esistenza fosse controllata dalla tecnologia e che i genitori avessero commesso gravi errori. Ma quante persone pensano cose simili? «C'è un po' di Unambomber in ognuno di noi» si lesse all'epoca sulle pagine del Time, un'affermazione che non parve affatto stonata, soprattutto se si prendeva in considerazione l'esperienza di coloro che a partire dalla fine degli anni Sessanta scelsero di abbandonare i centri abitati per fare ritorno alla natura.
Certo, spedire plichi esplosivi non è da tutti ma a parte ciò, ridotta all'osso, la storia di quest'uomo non era poi così atipica: dopo esseri laureato in matematica a Harvard, nel 1969 Kaczynski lasciò un buon posto di insegnante presso l'università di Berkeley e se ne andò a vivere lontano da tutto come un eremita. Una storia a tal punto simile a quella di tanti hippy e ambientalisti che la destra americana se ne servì per dimostrare come le malsane idee degli ambientalisti e di chiunque osa criticare il progresso tecnologico siano destinate sfociare in violenza e anarchia. Ci fu anche chi si spinse ben oltre, vedendo in Unabomber una sorta di gemello cattivo di Al Gore, vicepresidente durante l'amministrazione Clinton e autore di Earth in Balance, una riflessione dai toni certamente non estremisti su inquinamento e sfruttamento sconsiderato del pianeta.
A rappresentare un problema erano le tesi esposte da Kaczynski nella Società industriale e il suo futuro, il cosiddetto «manifesto» pubblicato da New York Times e Washigton Post nel settembre del 1995 dietro suggerimento dello Fbi nella speranza che qualche lettore potesse riconoscere lo stile della scrittura e fornire elementi utili alla cattura del terrorista. Il nocciolo del prolisso pamphlet era che il progresso tecnologico porta con sé tali e tanti effetti negativi per cui si rende necessario arrestarlo affinché l'umanità possa far ritorno ad abitudini di vita più semplici e in armonia con la natura. Idee che somigliavano tremendamente a quelle degli attivisti di Earth First! e per giunta argomentate in modo razionale.
Alla fine degli anni Novanta lo psicoterapista Gary Greenberg intraprese un carteggio con Kaczynski al fine di chiedergli il permesso di scrivere una sua biografia. Il resoconto dello scambio epistolare è poi diventato oggetto di una sorta racconto pubblicato in The best of McSweeney's (minimum fax, pp. 337, 14). Nella prima lettera spedita a Unambomber presso il carcere di massima sicurezza dove era rinchiuso, Greenberg scrive: «Come molti nostri coetanei, ho trascorso qualche anno in una capanna in mezzo ai boschi senza acqua corrente né elettricità, cercando di vivere solo dei prodotti della terra... Non dimenticherò mai come la gente che non riusciva a capire quello che stavo facendo mi considerasse con sospetto se non addirittura con ripugnanza... Non vorrei apparire presuntuoso, ma credo che la sua storia sia in parte anche la mia e nella sua decisione di adottare questo stile di vita riconosco una forma d'integrità per la quale nutro un profondo rispetto». L'intento dello psicoterapeuta era evidentemente quello di blandire. Egli diceva tuttavia qualcosa di molto vero affermando che la «visione del mondo che sottende e rende possibile l'invenzione di macchinari e apparecchiature... non tollera proteste radicali. Essa coopta l'opposizione o la estirpa, uccidendola senza mezzi termini oppure semplicemente screditandola». Bollare Kaczynski come un folle «prodotto degli anni Sessanta» non era infatti solo un modo per puntare l'indice contro hippy e ambientalisti, sottintendeva pure che mettere in discussione i fondamenti della società tecnologica è una eresia intollerabilmente pericolosa.
Del resto, non stiamo di certo parlando del primo caso di strumentalizzazione. Si pensi per esempio al tragico massacro avvenuto nel 1969 nei sobborghi di Los Angeles in cui perse la vita la giovane attrice Sharon Tate. L'acceso dibattito che seguì l'arresto di Charles Manson e di alcuni appartenenti della sua comune asserragliata in una zona sperduta e desertica della Death Valley fu in buona parte teso a dimostrare a quali forme di abiezione e violenza potessero condurre le idee del Movimento. Lo stesso presidente di allora dichiarò pubblicamente colpevole Manson prima ancora che il processo fosse iniziato. Infischiandosene della presunzione d'innocenza, principio imprescindibile di uno Stato di diritto, Nixon condannò di fatto un'intera generazione di contestatori del sistema e pose le basi per un sano ritorno all'ordine costituito, a suo avviso di gran lunga preferibile e più sano di qualunque ritorno alla natura.
Le ragioni per cui dovremmo accettare l'assunto che una civiltà tecnologicamente avanzata rappresenterebbe quanto di meglio si possa desiderare sono note. Le macchine offrono sicurezza, comodità e soprattutto incrementano la produzione di «cose» da consumare ovvero fanno bene all'economia di mercato, un bene che dovrebbe far passare in secondo piano tanti mali minori quali l'impatto ambientale o la considerazione che l'esistenza non è fatta solo di «cose» ma anche di amore, amicizia e - perché no? - dell'eventuale aspirazione a stili di vita meno utilitaristici e artificiali. Tali ragioni sono note da così tanto tempo che già all'epoca in cui la società industriale era ancora agli inizi uomini come Henry D. Thoreau lamentarono che in un mondo di macchine molta gente è costretta a vivere una vita di quieta disperazione.
È una vecchia storia: gli argomenti di critica ai fondamenti del sistema vengono immancabilmente bollati come assurdi malgrado siano spesso più che ragionevoli. Non bisogna essere dei geni per capire che la vera assurdità è il raggiungimento del profitto a qualunque costo, eppure il principio che regola l'economia e condiziona drammaticamente la democrazia rimane comunque lo stesso: espansione, espansione e poi ancora espansione. Com'è possibile tutto ciò? Come si spiega una simile macroscopica contraddizione?
Una risposta plausibile potrebbe essere cercata nell'avidità e in una lunga serie di altre e poco edificanti inclinazioni quali egoismo, ignavia e pigrizia. Mettendola in termini espliciti, quella parte di umanità che dispone del potere di cambiare le cose non vuole o non sa rinunciare a vivere nel più completo benessere. È però una spiegazione sufficiente? Senza dubbio dice molto, ma non proprio tutto. C'è infatti anche dell'altro. C'è per esempio la paradossale dinamica in base alla quale funziona l'economia di mercato, il motore che ha determinato il primato della tecnologia. Il sistema occidentale, quello americano in particolare, fa leva sull'individuo, lo esalta, lo colloca al centro di un universo il cui unico senso sembra essere il raggiungimento della felicità personale, e con ciò lo incita a fare di tutto pur di soddisfare i propri desideri. In realtà, nonostante gli sforzi, non tutti gli individui ottengono quel che gli viene promesso. Ma per il sistema una simile inadempienza rappresenta un peccato veniale in quanto il suo vero scopo non è il benessere dei singoli bensì quello del mercato nel suo complesso.
Fu proprio Henry Thoreau il primo a rendere evidente il contrasto tra la piena realizzazione di ogni individuo e una società tecnologicamente organizzata. Thoreau, il precursore di tutti gli americani che prima e dopo l'era hippy hanno fatto ritorno alla natura opponendo un'economia della frugalità al consumismo forsennato. Mezzo secolo prima di Jack London egli avvertì il richiamo della foresta e nella primavera del 1845 si recò sulle rive del lago di Walden, a Concord, nel Massachusetts. Usando un'ascia presa a prestito abbatté alcuni pini bianchi per ricavarne legname con cui costruirsi un'austera dimora nella quale avrebbe vissuto per due anni, due mesi e due giorni. Si insediò stabilmente nella nuova casa il 4 luglio. Non a caso scelse il giorno della Dichiarazione d'Indipendenza, perché proprio questo è ciò che egli voleva diventare: indipendente.
Walden, resoconto del periodo trascorso nei boschi (ora riproposto da Donzelli in una nuova traduzione curata da Salvatore Proietti pp. 246, 21), non è soltanto un libro «con descrizioni di scoiattoli e nevicate». Come giustamente rileva Wu Ming 2 nell'introduzione al volume il lato seducente dei passaggi prettamente naturalistici «non basta a se stesso». Walden è anche un trattato di economia dell'autosufficienza, l'esperimento di un uomo che rifiuta le regole di un sistema concepito per renderci schiavi di noi stessi. «Si parla della divinità dell'uomo!» scrive Thoreau. «Guardate il carrettiere sulla strada, che va al mercato di giorno e di notte; ci può essere una qualche divinità in lui? Il suo più alto dovere è dare foraggio e acqua ai suoi cavalli! Per lui, cosa può contare il proprio destino, paragonato agli interessi di trasporto? Quanto sarà divino, quanto sarà immortale? Vedete come si abbassa e striscia, come passa tutta la giornata vagamente impaurito, senza essere immortale né divino, ma schiavo e prigioniero dell'opinione che ha di se stesso, una fama guadagnata con le proprie azioni. L'opinione pubblica è un tiranno debole, se paragonato con la nostra opinione privata».
Walden ha indicato la strada a intere generazioni di giovani ribelli diventando una pietra miliare dell'immaginario libertario americano. Quand'era ancora in vita Thoreau non godette però di un apprezzamento altrettanto unanime. Molti dei suoi contemporanei lo giudicavano una persona un po' matta che sconvolgeva i valori del vivere comune. Gli agricoltori di Condord lo guardavano con sospetto perché nella sua vita quotidiana metteva in pratica una verità cui essi si abbandonavano soltanto nei giorni di festa. Perfino uno scrittore come Robert Louis Stevenson, che pure doveva molto all'opera di Thoreau, riscontrò in lui la vigliaccheria di chi non vuole prendersi alcuna responsabilità. Non aveva tutti i torti. Malgrado il suo profondo rigore morale e filosofico, sebbene avesse dimostrato di sapere fare anche l'imprenditore contribuendo a risollevare le sorti della fabbrica di matite del padre, Thoreau era un individualista per il quale non esistevano doveri se non quelli riconosciuti da lui stesso. Ma è forse possibile un'autentica pienezza di vita senza una certa dose di quell'egotismo che traspare in controluce anche nelle esperienze di chi, dai beat agli hippy, raccolse la sua eredità?
Tornando alla mitologia artificiosamente costruita intorno alla capanna di Unambomber, qualcuno ha riscontrato alcune analogie tra la dimora di Kaczynski e quella di Thoreau. Nemmeno questa è una totale assurdità. Nessuna delle costruzioni era infatti davvero immersa nella wilderness; Thoreau si recava a piedi dal calzolaio per farsi riparare le scarpe. Inoltre, sia Thoreau che Kaczynski usavano il termine «esperimento» per definire le loro radicali scelte di vita. Entrambi erano poi considerati tipi eccentrici dai rispettivi contemporanei. Ovviamente è necessario ribadire che esiste una differenza tra chi uccide e chi, come Thoreau, si limita a rifiutarsi di pagare le tasse. Rimane tuttavia un dato essenziale: l'individuo che si isola dalla comunità per contestarne i valori rappresenta una minaccia e quindi deve essere fatto passare per pazzo.
Henry Miller vedeva in Thoreau «un genuino rappresentante dell'America» ma sosteneva pure che «chi, nel nostro paese osasse assumere l'atteggiamento di Thoreau di fronte a qualche problema cruciale del nostro tempo sarebbe senza dubbio condannato alla prigionia a vita». Questo perché egli «apparteneva a quella categoria di uomini che, se soltanto fossero più numerosi, provocherebbero la caduta naturale di ogni governo». Che dire allora di Manson e Kaczynski? Sono anche loro genuini rappresentanti dell'America? Indignarsi di fronte a una simile affermazione è troppo facile e offre il fianco a quei conservatori che non si fanno scrupolo di usare il percorso di alcuni criminali come strumento per screditare ogni forma di legittimo dissenso. La verità è che usando lo stesso metro logico si potrebbe smascherare l'imbroglio nascosto dietro il tanto decantato diritto della «ricerca della felicità» che sulla carta l'America garantisce a tutti ma nei fatti concede solo a chi è grado di stare nel mercato. Si potrebbe dire, cioè, che è il sistema fondato su un'esasperante individualismo a dar vita al dissenso e alle sue degenerazioni.
Così il cerchio si chiuderebbe, ma sarebbe il classico cerchio del serpente che si morde la coda. Per giunta è un cerchio che non gioverebbe a nessuno, perché non possiamo far finta di dimenticare che quel serpente siamo noi e che nostra è quella coda. Ciò non toglie però che Thoreau avesse ragione a dire quel che una volta disse a Emerson. «Cosa ci fai lì dentro?» domandò Emerson che era andato a trovare l'amico in carcere. «E tu cosa ci fai là fuori?» rispose Thoreau che era stato arrestato per non aver voluto pagare una tassa destinata a finanziare una delle tante giuste guerre del governo americano.
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