11.9.05

Effetti perversi delle ideologie

I teorici della critica letteraria americana nella stagione del pentimento /1

Appunti di viaggio dalle università americane. Passate le stagioni delle pretese totalizzanti avanzate dalla teoria letteraria, svanito l'entusiasmo per le teorizzazioni spericolate, oggi domina la sfiducia. E gli studi letterari e umanistici accusano una fase di declino
Tra un eccesso e l'altro Una antologia del dissenso a quattro mani, di Daphne Patai e Will H. Corral
Tempi moderni Un saggio di Elaine Marks titolato, non a caso, Effetti perversi del femminismo

REMO CESERANI

È arrivato il momento, nelle vicende della critica letteraria americana, delle recriminazioni e dei pentimenti. Era forse inevitabile. Dopo gli anni degli entusiasmi (lo sbarco dello strutturalismo francese nel 1966; l'arrivo del decostruzionismo nei primi anni Settanta con la conquista della cittadella di Yale; le battaglie in favore del femminismo, del riscatto delle minoranze etniche e dell'orgoglio gay; il lancio a Berkeley nei primi anni Ottanta del neo-storicismo; l'arrivo dall'Inghilterra negli anni Novanta dei «cultural studies»), dopo gli anni delle teorizzazioni spericolate e delle pretese totalizzanti della Teoria, scritta con la lettera maiuscola, sono arrivati la stagnazione teorica, l'indebolimento complessivo degli studi letterari e umanistici nelle Università, il disorientamento, la sfiducia. Riassume bene questa nuova situazione, raccogliendo le critiche, le autoanalisi spietate, le confessioni di scoraggiamento, un libro (725 fitte pagine) intitolato Theory's Empire. An Anthology of Dissent (Impero della teoria. Un'antologia del dissenso), a cura di Daphne Patai, una professoressa di letteratura brasiliana ad Amherst, e di Will H. Corral, un professore di letteratura ispano-americana a Sacramento (Columbia University Press, 2005, $ 29.50).

Foucault e fiocchi d'avena

Il libro porta sul controfrontespizio un cartoon di Jeff Reid, intitolato «Colazione teorica: una metodologia per ogni mattina», che già chiarisce bene quali sono gli obbiettivi polemici. Vi sono rappresentate tre scatole di fiocchi di cereali da immergere nel latte per la prima colazione, con titoli e pubblicità parodizzati. La prima scatola contiene i Toasties postmoderni, così reclamizzati: «Come tutto quello che avete avuto finora, ma ben mescolato». «Qualcosa di più di un fiocco di cereale, piuttosto un commento sulla natura della cerealità, e la teoria della cerealtività. Con un anello per la decodifica all'interno». La seconda scatola porta la scritta: «Alimenti per una colazione decostruzionista». «Contiene un'abbondante verbosità zuccherina». Due topolini dialogano fra loro. Il primo dice: «Molto secco e insapore, non ti pare?» E l'altro: «La tua domanda è formata, o piuttosto deformata, dai paradigmi cerealicoli delle convenzioni borghesi, che si fondano su nozioni esculatorie fuori moda come gusto, nutrimento e commestibilità?» La terza scatola offre «Fiocchi Foucault». Nella vignetta una voce fuori campo dice: «Ma è vuota!» e ottiene per risposta: «Naturalmente». Terza voce: «È francese, deve essere buona». Il messaggio pubblicitario così definisce il contenuto: «Finalmente, un prodotto per la colazione così complesso che avrete bisogno di un apparato teorico per digerirlo. Non sarà necessario mangiarlo, basterà leggerlo. Un vero tour de force letterario: la colazione come testo!».

Forse è utile commentare un paio di termini usati sul frontespizio dell'antologia. La parola Teoria, scritta con la maiuscola, è diventata un termine onnipresente e onnicomprensivo (imperialistico) nel sistema americano delle discipline. Anche da noi sono comparsi molti insegnamenti universitari con questo termine nel titolo: «Teoria della letteratura», «Teoria dell'arte», «Teoria dell'informazione», «Teoria della comunicazione», ecc. Ma non hanno mai preteso di sostituirsi, come è avvenuto nei dipartimenti di scienze umane delle università statunitensi, a discipline come l'estetica, la retorica o addirittura la filosofia nelle sue branche tradizionali: l'epistemologia, l'etica, e quant'altro. Ciò è avvenuto in seguito ad alcune differenze di fondo fra il sistema culturale americano e quello europeo: l'estetica, come branca della filosofia, si è di molto indebolita dai tempi di Dewey e fa ogni tanto qualche tentativo per risorgere, ma viene continuamente emarginata, così come l'etica. Entrambe vengono sottoposte ai severi controlli della filosofia analitica, vera disciplina dominante ormai da decenni nella cultura anglosassone. La teoria si riduce a metodologia e la storia della cultura ha subìto a sua volta una forte perdita di spessore. Il senso del passato, anche quello più drammatico e apocalittico, alla Benjamin, si è ridotto a rappresentazione piatta del presente, a pura elencazione statistica di eventi e fenomeni. La fortuna, dentro i dipartimenti di studi letterari, della teoria e, da un po' di tempo, dei cultural studies, si spiega anche come un bisogno insoddisfatto di filosofia, di senso della storia, di complessità dell'immaginario.

Dopo le grandi narrazioni

René Wellek, che è presente in questa antologia con un saggio-denuncia del 1983, intitolato significativamente Destroying Literary Studies (Distruggendo gli studi letterari), era arrivato negli Stati Uniti alla fine degli anni Trenta portando con sé la grande tradizione filosofica della fenomenologia tedesca, le esperienze del formalismo russo e dello strutturalismo praghese, il culto inglese della grande tradizione predicato da Leavis, la stilistica analitica di Spitzer e quella storicizzante di Auerbach e aveva dato un grosso contributo all'affermazione della nuova critica letteraria americana con un libro intitolato appunto Theory of Literature (Teoria della letteratura), nato con l'intenzione di dare spessore filosofico alle troppo impressionistiche pratiche di lettura in uso nelle università americane. Un giorno, alla fine degli anni Ottanta, mentre, passeggiando per i boschi del Connecticut discutevamo dell'improvvisa fortuna del decostruzionismo proprio nella sua università di Yale, proprio fra alcuni suoi allievi, si fermò di colpo, mi guardò sconsolato, e disse: «E pensare che io ho scritto un libro intitolato Teoria della letteratura. Adesso è dietro quella parola che si nascondono i più micidiali strumenti per uccidere la letteratura».

Colpisce, inoltre, il fatto che il termine «dissenso», con un improvviso e paradossale rovesciamento di fronte, venga impiegato nel titolo della antologia di Daphne Patai e Will H. Corral per riunire testi spesso classificati come conservatori, almeno dal punto di vista della politica accademica e delle lotte di potere (o di quegli scontri quasi cruenti che sono stati battezzati «guerre culturali»). Quelli che erano un tempo una minoranza innovatrice e dissenziente all'attacco delle cittadelle della tradizione, ora sono divenuti parte dell'istituzione e i conservatori di un tempo si sono trasformati nei portavoce del dissenso. La fine delle ideologie è divenuta essa stessa un'ideologia. L'inevitabile collasso delle grandi narrazioni è slittato esso stesso verso una grande narrazione.

I saggi raccolti nella antologia Theory's Empire, una cinquantina, sono stati scritti quasi tutti negli ultimi due decenni (qualcuno, come quello dello studioso del romanticismo M. H. Abrams, risale addirittura al 1977). Compaiono critici molto noti e autorevoli, qualcuno rimasto fedele a se stesso, come Wayne C. Booth, Frederick Crews, Frank Kermode, John R. Searle, Noam Chomsky, qualcuno incline al pentimento e al ripensamento come Tzvetan Todorov. Obbiettivi polemici comuni sono alcune parole d'ordine, come appunto «teoria», «potere», «identità», «relativismo», «testo», «testualità», «decostruzione», «social construction» (quest'ultima applicata alle cose più varie: non solo, per esempio, la moneta o la cittadinanza, ma anche la soggettività, l'identità sessuale, l'identità etnica, e così via). Lo slogan più gettonato è «Ritorno alla ragione». L'elenco dei cattivi maestri comprende alcuni grandi intellettuali francesi: Althusser, Lacan, Foucault, Derrida, Kristeva, Deleuze, Baudrillard e Bourdieu e alcuni americani considerati loro seguaci, fra cui soprattutto Spivak, Bhabha e Butler. (Certo, la denuncia della pretesa egemonia francese suona in questo momento non poco sospetta, dopo l'ondata di sentimenti antifrancesi scatenati dall'opposizione di Chirac alle decisioni politiche di Bush e dopo la contrapposizione, che si avverte sempre più forte negli ambienti conservatori americani, fra valori del fondamentalismo religioso e grande tradizione laica e illuministica).

Una fra le dichiarazioni aperte di pentitismo più peculiari è quella di Elaine Marks, una francesista che ha insegnato a Madison, ora in pensione, in passato molto attiva nel movimento femminista, che ha diretto il centro e il programma di Women's Studies all'Università del Wisconsin e ha curato varie pubblicazioni sulla teoria femminista francese e sull'omosessualità nella letteratura transalpina. Il suo saggio, uscito in origine sulla rivista femminista «Signs» nel 2000, è significativamente intitolato Effetti perversi del femminismo. La Marks dichiara esplicitamente la sua «insoddisfazione crescente nei confronti della politica e degli studi sull'identità, per la loro attenzione eccessiva alle differenze e la mancata attenzione alle cose condivise, per la separazione in due campi opposti degli studi culturali e degli studi letterari, che rispecchia la separazione ancor più preoccupante fra il politico e il poetico», cui aggiunge la separazione, nei programmi di studio, fra educazione linguistica ed educazione letteraria.

Valori e controvalori

La Marks dichiara con candore che da qualche tempo si sente più d'accordo con Harold Bloom, Richard Rorty, Robert Alter e altri difensori delle specificità e complessità dell'immaginazione letteraria che non con le posizioni da lei sostenute per anni. E racconta delle lezioni che ha tenuto alle sue studentesse sull'autobiografia di una scrittrice nera dell'Harlem Renaissance, Zora Neale Hurston, Dust Tracks on the Road, in cui viene restituita - col piglio della vera antropologa e in modo molto espressivo e pieno di sfumature attente alle complessità culturali delle comunità nere del Sud - la storia di oppressione di una donna nera cresciuta nell'Alabama all'inizio del ventesimo secolo. Le studentesse del corso, tutte ragazze e tutte bianche, incapaci di cogliere la ricchezza linguistica e le sfaccettature psicologiche del testo, si mostrarono impazienti e insoddisfatte, perché non vi trovavano quello che si aspettavano: una denuncia aperta e diretta dell'oppressione razzista e sessista. Non era colpa loro, dice la Marks, ma degli effetti perversi della teoria razzista e femminista nelle università americane.

La Marks cita, con totale approvazione, la difesa dell'immaginazione letteraria svolta da Robert Alter nel 1997, pronunciando il discorso d'apertura del convegno annuale della Alsc (l'Associazione degli studiosi e critici della letteratura), pubblicata sul «Times Literary Supplement» il 23 gennaio del 1998: «Se posso prendere a prestito la formulazione usata da un critico della Scuola di Francoforte, Leo Lowenthal, l'immaginazione letteraria è essenzialmente dialettica, portata a esprimere, con spirito di sfida, forti critiche alle ideologie dominanti, alle idee ricevute, ai valori e alle convenzioni letterarie tradizionali, o a sovvertirli in modo sottile. Le grandi opere della letteratura, perciò, continueranno a sorprenderci nella misura in cui non insisteremo a distorcerle per adattarle al letto di Procuste dei nostri pregiudizi; e sta in questo precisamente la fonte del piacere e delle conoscenze che otteniamo leggendole. Quando noi, come associazione, onoriamo la potenza dell'immaginazione letteraria, non facciamo nessun intervento mistificatorio, ma, al contrario, un'apertura empirica ai modi imprevisti in cui uno scrittore originale, pur con tutte le sue imperfezioni, può offrire una prospettiva sorprendente e illuminante su un tema familiare, rovesciare d'un colpo le nostre deboli presupposizioni, o rinnovare con nostra sorpresa gli strumenti stessi dell'espressione letteraria.»

La fondazione, nel 1994, dell'Association of Literary Scholars and Critics (Alsc: Associazione degli studiosi e critici della letteratura) è una tra le novità presentate dalla scena della critica letteraria americana negli ultimi anni, e ha raccolto attorno a sé quelli che possiamo chiamare - usando le parole del «New York Times» - i «letterati tradizionalisti», i difensori dell'autonomia letteraria e dei suoi valori dagli attacchi mossi da tante Teorie comparse nel frattempo. I promotori della nuova associazione (John Ellis, Norman Fruman, Gerald Gillespie, Ricardo Quinones, Paul Cantor, John Hollander, Robert Alter, Alfred Kazin) e il loro primo presidente, Roger Shattuck, hanno voluto prendere le distanze dall'antica e fortissima Modern Language Association (Mla), colpevole secondo loro di essere ormai dominata dal decostruzionismo, dal neostoricismo, dagli studi culturali, femministi, etnici, post-coloniali.

Alla destra dell'Association of Literary Scholars and Critics c'è poi un'altra associazione, di impianto decisamente conservatore, la U.S. National Association of Scholars, che non vale la pena di prendere in considerazione, anche se nel clima attualmente dominante a Washington può trovare spazio di azione e appoggi non piccoli nei circoli del fondamentalismo religioso e culturale.

L'Alsc ha ottenuto un qualche successo, giungendo a raccogliere più di 2000 membri (contro i 32.000 della Modern Language Association), ma ha anche deciso di non insistere sulle prese di posizione polemiche e di dedicarsi principalmente, nei convegni annuali e nelle pagine della rivista «Literary Imagination», fondata nel 1999, a una strategia di difesa delle qualità intrinseche all'immaginario letterario, dunque a uno studio della «letteratura come letteratura e non come qualcosa d'altro», secondo principi di base non molto diversi da quelli che erano stati fatti propri, negli anni prima dell'arrivo della Teoria, dal New Criticism.

Shattuck è progressista o conservatore?

Alla riunione convocata in occasione della fondazione dell'Associazione, avvenuta a Boston nel 1994, Shattuck lesse le «Diciannove tesi sulla letteratura», che, in stile paradossale, prendono le difese del valore educativo e conoscitivo della letteratura e respingono sia le più rigide concezioni teoriche dello specifico letterario di origine linguistica o testuale sia gli atteggiamenti più concilianti e arrendevoli, che immergono e sciolgono la letteratura nell'indifferenziato mare dei prodotti culturali.

Quella di Shattuck è una figura interessante: studioso del modernismo e delle avanguardie francesi, specialista di Proust, progressista in politica, egli respinge ogni tendenza a sottoporre la letteratura a interessi extra-letterari, compresi quelli politici. Di lui, come di parecchi altri che hanno fondato l'Association of Literary Scholars and Critics (Alfred Kazin, esponente della intellighenzia newyorchese, Robert Alter, famoso biblista e professore sia a Berkeley che a Gerusalemme), ci si può chiedere: sono progressisti o conservatori? Shattuck è un sostenitore della sperimentazione delle avanguardie o un difensore della grande tradizione letteraria? A queste domande si può rispondere soltanto ricordando la complessità e la contraddittorietà della carriera umana di Shattuck. Lui stesso, del resto, ha più volte sottolineato la peculiarità della sua posizione: progressista in politica, conservatore nel campo degli studi letterari e dell'educazione. Egli racconta, nella prefazione al suo libro Forbidden Knowledge (1996) un aneddoto, che conferma la sua consapevolezza di portarsi dentro una profonda contraddizione, vissuta in tutta la sua drammatica carica umana: quando gli Stati Uniti fecero cadere nell'agosto 1945 le due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, Shuttuck si trovava nello scacchiere bellico del Pacifico, da un anno pilota da combattimento sui B-25 e da pochi mesi a Okinawa, con una squadra che si stava addestrando a uno sbarco in Giappone, simile a quello avvenuto in Normandia. La prospettiva realistica era che almeno una metà degli effettivi impegnati nello sbarco sarebbero caduti nell'impresa, quindi ciascuno di loro, fra cui Shattuck, aveva la probabilità del 50% di sopravvivere. Lo sgancio delle due bombe ordinato da Truman gli apparve allora, da un punto di vista personale, una fortuna. Ma da un punto di vista morale, la distruzione delle due città (addirittura la scena della città distrutta di Hiroshima, vista personalmente da un B-25 in volo sulle isole giapponesi) gli apparve subito come inaccettabile, e lo spinse a partecipare nel 1961, sfidando una folla ostile, a dimostrazioni contro la fabbricazione e l'uso delle armi nucleari.

L'etica degli umanisti

Il dilemma di allora continua a tormentare Shattuck anche oggi e lo spinge a domandarsi, senza trovare risposte semplici, quale sia stato il senso della guerra fredda e il ruolo in essa del deterrente nucleare. Sembra chiaro, anche da questo esempio, che nelle posizioni sue e dei suoi colleghi continui a essere viva una tradizione americana che si può definire umanistica, con un forte spessore etico, sul quale tornerò nella prossima puntata di questo articolo.
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La letteratura insegue il rapporto con l'etica

Appunti americani dalla rivolta contro il culto della teoria e dei tecnicismi /2

Sulla critica statunitense si allunga ancora l'ombra delle polemiche seguite a tre fatti emblematici. Il primo riguarda lo scandalo suscitato dalle accuse di antisemitismo rivolte al decostruzionista Paul De Man. Il secondo è il premio per il peggior esempio di scrittura critica assegnato alla filosofa femminista Judy Butler. Il terzo è il tranello che lo studioso di fisica Alan Sokal ha teso ai due direttori della rivista «Social Text» inviando loro un articolo pieno di enormità pseudo-scientifiche. Che è stato regolarmente pubblicato

Il ritorno delle questioni etiche mi pare caratterizzi tre avvenimenti che hanno cambiato l'atmosfera nella situazione della critica americana dell'ultimo decennio: tre avvenimenti, tutti finiti sulle pagine dei grandi giornali, tutti doverosamente registrati e commentati nell'antologia di Patai e Corral Theory's Empire. An Anthology of Dissent (di cui ho parlato ieri, nella puntata precedente di questo articolo) che ci fornisce dunque l'occasione per rivisitare momenti cruciali della cultura americana. Si tratta dello scandalo suscitato dalla figura di Paul De Man, del premio per il peggior esempio di scrittura critica assegnato polemicamente alla filosofa femminista di Berkeley Judy Butler e del tranello che lo studioso di fisica della New York University Alan Sokal ha teso ai due direttori della rivista «Social Text», Stanley Aronowitz e Andrew Ross, inviando loro un articolo parodistico e pieno di enormità pseudo-scientifiche, di citazioni incredibili da Lacan, Lyotard, Kristeva e molti altri, di riferimenti alla matematica e alla fisica contemporanee e di pretenziose teorie filosofiche sulla «social construction» delle verità della scienza, intitolato «Transgressing the Boundaries: Toward a Transformative Hermeneutics of Quantum Gravity» (Trasgredendo i confini: verso un'ermeneutica trasformativi della gravità dei quantum). L'articolo, purtroppo, è stato imprudentemente accettato come cosa seria da Aronowitz e Ross e pubblicato dalla rivista nel 1996.

Così si mischia il vero con il falso

Dello scandalo su Paul De Man, cioè della scoperta, dopo la morte nel 1983 del grande critico di origine belga, esponente di spicco del decostruzionismo a Yale, di una serie di articoli contenenti dichiarazioni antisemite e di appoggio al nazismo, da lui scritti su giornali belgi negli anni 1941-42 e tenuti poi attentamente celati negli anni del grande successo americano, si è parlato molto. In difesa di De Man hanno scritto, dopo lo scoppio dello scandalo nel 1987, alcune voci autorevoli, fra cui, con un lungo, eloquente saggio su «Critical Inquiry» Jacques Derrida. Altri hanno continuato ad avanzare dubbi e a porre domande, in particolare a chiedersi se ci fosse una possibile connessione fra le idee sostenute in quegli articoli e soprattutto il modo reticente con cui De Man aveva nascosto quel suo passato e le pratiche ermeneutiche del decostruzionismo.

In un lungo saggio che fa parte di un intero libro e che è stato accolto in forma accorciata nell'antologia Empire Building, Alan Spitzer, professore di storia all'università dello Iowa, ritorna pazientemente sulla vicenda degli articoli di De Man (a quelli pubblicati su «Le Soir» e su «Het Vlaamsche Land» si sono aggiunti nel frattempo quelli usciti su «Bibliographie Dechenne»), smonta molte delle tecniche di difesa dei sostenitori di De Man e giunge anche a parodizzare la strategia retorica del saggio di Derrida (ammissione della gravità delle accusa, loro attenuazione sulla base delle circostanze, sottolineatura di possibili ambiguità, dichiarazioni doppie, significati nascosti); ma alla fine pone con molta forza il problema etico dei comportamenti umani: se è vero, egli sostiene, che le circostanze storiche come la forte impressione fatta sui popoli europei dai successi nazisti nel 1941, l'impossibilità di sottrarsi alle scelte drammatiche del presente, l'ignoranza degli sviluppi futuri possono giustificare il comportamento di De Man, meno giustificabili risultano le vere e proprie bugie che egli infilò in una lettera alla Society of Fellows di Harvard (nel frattempo ritrovata), scritta nel 1955 in risposta a una denuncia anonima, in cui sosteneva che lo zio Henri era suo padre, che lui aveva cessato di scrivere articoli nel 1941 dopo l'introduzione della censura nazista, quando invece ne pubblicò ancora molti nel 1942, e così via. Non si può, in ogni caso, dimenticare che altri, fra cui alcuni condiscepoli di De Man nel Circle du libre examen di Bruxelles, fecero una scelta diversa. L'imperativo etico mette in crisi il giustificazionismo ermeneutico che, nella lettura degli articoli di De Man, fa ricorso alla teoria decostruzionista dell'indeterminatezza dei significati di qualsiasi testo. Ci sono casi, sostiene Spitzer, in cui la lettura non può evitare i problemi del vero e del falso, del giusto e dell'ingiusto.

Questa non è filosofia

Il caso della premiazione scherzosa, nel 1998, da parte della rivista «Philosophy and Literature» di Judith Butler come autrice di un brano di discorso critico contorto e incomprensibile, tratto da un saggio nella rivista «Diacritics» intitolato Further Reflections on Conversations of Our Time è analizzato, nell'antologia Theory's Empire, dal critico D. G. Myers. La sua analisi, che insiste sulla responsabilità etica che ogni filosofo ha di scrivere limpido e chiaro, sottopone a un esame impietoso anche un intervento a propria difesa scritto dalla Butler per il «New York Times», il cui senso è che per esprimere concetti difficili è necessario usare un linguaggio difficile. Ma forse l'intervento più reciso e liquidatorio è venuto, con poche frasi pubblicate su «New Republic» nel febbraio 1999, dalla filosofa di Chicago, promotrice di una nuova etica (e ben nota anche da noi) Martha Nussbaum: quella della Butler sarebbe retorica sofistica, una parodia del pensiero, non filosofia. «Quando le sue idee sono espresse chiaramente e in modo succinto, ci si accorge che, senza molte altre distinzioni e argomentazioni, esse non vanno lontano, e non sono poi così nuove. Perciò l'oscurità riempie il vuoto lasciato da un'assenza di vera complessità del pensiero e del discorso. Il quietismo hip della Butler è una risposta comprensibile alla difficoltà di costruire la giustizia in America. Ma è una cattiva risposta. Collabora con il male. Il femminismo chiede di più e le donne meritano di meglio». Dopo lo scherzo fatto alla rivista «Social Texts», Alan Sokel ha scritto, con l'aiuto di Jean Bricmont, un libro contenente il saggio originario e molte delle reazioni suscitate. Il libro è uscito in Francia con il titolo Impostures intellectuelles (1997) e negli Stati Uniti con il titolo Fashionable Nonsense: Postmodern Intellectuals' Abuse of Science (1998). A questi documenti sono dedicati, nell'antologia, ben due articoli: uno degli stessi Sokel e Bricmont, uscito sul «Times Literary Supplement» come risposta alle reazioni francesi e l'altro di Thomas Nagel sull'intera vicenda. In occasione dell'uscita parigina del libro, Julia Kristeva non è riuscita a trattenersi e ha fatto una dichiarazione sicuramente esagerata e fuori tono, riportata in Italia dal «Corriere della Sera», nella quale ha accusato Sokal di essere un sandinista, i due autori di essere francofobi e di fare disinformazione, e ha loro raccomandato di sottoporsi a cure psichiatriche.

Tutti e tre gli episodi, a quanto pare, hanno contribuito a screditare il decostruzionismo, il culto per la Teoria, il tecnicismo ossessivo e il gergo pretenzioso di tanta critica letteraria americana. Ma, a parte questi affondo gustosi su questioni che sono state oggetto di polemica, sono molti i saggi raccolti nell'antologia Theory's Empire su cui varrebbe la pena di soffermarsi e ragionare: l'intervento ironico, per esempio, di Chomsky sulle assurdità di alcuni discorsi che ha sentito in materia di scienza e di linguistica; o la denuncia di Lee Singel di alcune ridicole interpretazioni che la «madre» dei gay o queer studies, Eva Kosofsky Sedwich ha dato dei testi di Henry James e Jane Austen in libri e saggi ormai famosi (Between Men, 1985 e Epistemology of the Closet, 1990) scoprendo, senza il minimo appoggio testuale, negli uni la presenza del tema escrementizio e negli altri quello della masturbazione femminile; o l'illustrazione molto chiara e convinta che Nancy Easterlink fa delle possibilità di fondare una teoria cognitivista e bioepistemologica della letteratura; o le pagine di Clara Clairborne Park su Roland Barthes, la morte dell'autore e il culto degli immortali in Francia; o quelle di Jeffrey Wallen su Edward Said e il contesto sociale delle opere letterarie; o il brillante ragionamento di Denis Donoghue sulle pretese egemoniche del decostruzionismo di Derrida e sulla necessità di distinguere fra teorie, o meglio principi di comportamento intellettuale e morale, e Teoria come disciplina e istituzione accademica; o le riflessioni e analisi di Vincent Descombes sul referente, quelle di Mark Bauerlein sul «social constructionism», quelle di Russell Jacoby su meriti, demeriti e fortuna critica del termine «thick description», lanciato dall'antropologo Clifford Geertz.

Una visione eclettica

Mi soffermo, piuttosto, su un saggio, che mi sembra pieno di buon senso e di osservazioni interessanti e che, nonostante tutto, non vuole abbandonarsi al pessimismo. È intitolato Crisis in the Humanities? (Crisi nelle facoltà umanistiche?) e l'autrice è una brillante studiosa di Stanford, Marjorie Perloff, ora in pensione, a suo tempo molto impegnata nella sperimentazione di nuovi programmi di studio nella sua Università. La Perloff passa in rassegna diverse concezioni della letteratura, da Aristotele ai giorni nostri, quella essenzialmente retorica che si occupa di come funziona il linguaggio (rapporto con la linguistica), quella che attribuisce ai testi letterari una potente capacità di esprimere conoscenza e verità (rapporto con la filosofia), quella che li considera oggetti estetici, prodotti di una tecnica artistica raffinata (rapporto con le arti e la musica), quella che li considera formazioni storiche e culturali con precisi messaggi ideologici da comunicare (rapporto con la politica). A ciascuna di queste concezioni fa risalire metodi diversi di studio. Dopo avere constatato che, negli ultimi due decenni, negli studi letterari americani è divenuta largamente prevalente la quarta concezione, quella sostanzialmente fatta propria dai Cultural studies, con i conseguenti cambiamenti nell'assetto disciplinare dei dipartimenti, nelle liste dei testi da leggere e nel metodo (divenuto metodo unico per leggerli), la Perloff propone una visione che si può definire eclettica o relativistica (René Wellek l'avrebbe definita prospettivistica). Secondo lei ognuna di quelle concezioni e ognuno di quei metodi di studio hanno una loro giustificazione e una loro utilità e una delle ragioni della crisi sta nella chiusura di ogni scuola e tendenza dentro un unico metodo e, aggiungerei io, nella tendenza dei Cultural studies ad adattarsi a una versione appiattita e banalizzante dello studio dei testi, allentando i legami con la tradizione britannica e con le correnti più aggiornate di storia della cultura.

La Perloff porta l'esempio dell'Ulysses di James Joyce. Nei primi decenni successivi alla sua pubblicazione, quel grande libro è stato letto come una moderna e parodica Odissea oppure come un raffinato esperimento in cui trama e personaggi erano subordinati a un eroico sfruttamento di tutte le possibilità creative ed espressive del linguaggio. La trama del romanzo, con la sua straordinaria rete di motivi ricorrenti, allusioni, riferimenti incrociati e percorsi simbolici è stata esaminata da tutti i possibili punti di vista. Poi sono venuti gli studi di William T. Noon e Kevin Sullivan sull'educazione ricevuta da Joyce presso i gesuiti e sull'importanza della teoria estetica di Tommaso d'Aquino per capire la concezione della poesia di Joyce. Poi è arrivato lo strutturalismo e ogni interesse per le idee dell'autore di un'opera letteraria è stato gettato dalla finestra e si è passati a un esame analitico spesso molto raffinato delle sue strutture narrative e dei suoi modelli intertestuali. Infine sono venuti, negli ultimi decenni, i Cultural Studies e Ulysses è stato letto come testo in cui le dinamiche della razza, del potere, dell'impero e della differenza sessuale si scontravano sullo sfondo di un'Irlanda ridotta a colonia inglese, per cui i temi prevalenti nelle interpretazioni del testo sono stati il nazionalismo, il colonialismo, l'imperialismo e la condizione della donna, divisa fra i due modelli contrapposti della vergine e della prostituta. Ma in che cosa, si chiede la Perloff, questo tipo di letture ispirate dai Cultural studies, che trovano sicuramente una conferma nel ricco sistema tematico e verbale di Ulysses, sono diverse o migliori di quelle che nello stesso testo hanno trovato le prove della presenza del linguaggio tomistico? Ed è proprio necessario, sembra chiedersi la Perloff, concentrarsi su questi aspetti di Ulysses e dimenticare tutto il lavoro di analisi della sua struttura narrativa e del suo linguaggio?

La sua posizione mi sembra chiara e mi sembra confermare un'impressione che credo valga anche per la situazione italiana, dove pure si nota una generale crisi di stanchezza e scoraggiamento negli studi letterari: l'impressione è che coloro che avvertono più drammaticamente la crisi sono quelli che si sono dedicati con fede assoluta a una sola concezione della letteratura e a un solo metodo, considerato l'unico e il migliore, per studiarla.

La Perloff, d'altra parte, pur essendo perfettamente consapevole della crisi, non solo degli studi letterari ma dell'intero sistema delle scienze umane, non rinuncia a una nota di ottimismo. Una spinta a vedere le cose con meno angoscia le viene dalla navigazione in Internet, nel corso della quale scopre l'esistenza di siti molto belli e interessanti: un sito interattivo, per esempio, che offre quasi tutte le opere di Beckett e una grande quantità di materiale biografico, critico, interpretativo, comprese sette parodie di Aspettando Godot; un sito inglese che offre quasi tutti i manifesti del futurismo, altrimenti difficili da trovare; gli utilissimi archivi Wittgenstein disponibili in un sito norvegese; uno straordinario sito Ubu, organizzato da Kenneth Goldsmith, un appassionato d'arte che non è collegato con nessuna università. Chi visita questi siti? si chiede la Perloff. E risponde: non solo studenti o i loro professori. Ci sono a quanto pare varie migliaia di persone, nel mondo, interessate a saperne di più delle opere dei Beckett, o dei Blake, o dei Proust e a condividere con altri le loro interpretazioni e il loro entusiasmo per la letteratura.

Un giuramento contro la crisi

Ma allora, conclude la Perloff, c'è o non c'è questa crisi? «Sì e no. Nell'università, e specialmente nei dipartimenti di letteratura, la crisi, purtroppo, è reale, come dimostrano il calo delle iscrizioni e le scarse occasioni del mercato del lavoro per i professori di letteratura. Ma questi fenomeni possono anche essere il sintomo di un'altra disfunzione: una scarsa corrispondenza fra programmi di studio ormai invecchiati e gli interessi reali di eventuali nuovi studenti. Il cambiamento principale dei programmi nei corsi d'inglese negli ultimi decenni è stato lo spostamento dell'attenzione dagli scrittori maggiori a quelli di minora importanza, con il risultato di far leggere molte poesie, racconti e romanzi scritti da esponenti di gruppi etnici o razziali di solito ignorati o di donne. Ma senza una ben definita nozione di perché è importante leggere testi di letteratura, sia di scrittori ben affermati sia di scrittori marginalizzati, lo studio della `letteratura' diventa solo un dovere, un modo per distribuire in qualche modo i crediti da raccogliere».

Non so se l'insistenza con cui, in questa antologia, viene usato il concetto di `eticità', come valore intrinseco dell'opera letteraria sia del tutto giustificato. Io sono pronto a riconoscere all'opera letteraria, pur con i mezzi suoi propri e grazie alla ricchezza di significati e di rappresentazioni che ne fanno la specificità, un valore ampiamente conoscitivo, di cui sicuramente fanno parte le decisioni e le azioni che compiono i personaggi e i giudizi che possono darne i lettori. Sono però più incline a parlare di eticità e responsabilità professionale dei critici e degli studiosi della letteratura. In appendice all'antologia di Patai e Corrall viene riportato un «giuramento ippocratico» pronunciato, fra il serio e lo scherzoso nel 1979 dal critico di Chicago Wayne C. Booth, specialista dei problemi della narrativa e anche, guarda caso, di quelli del rapporto fra narrativa ed etica. Primo comma del giuramento: «Prometto di non pubblicare nulla, né favorevole né sfavorevole, su libri o articoli che non ho letto interamente almeno una volta». Sulla base di questo principio, egli pensa che almeno un quarto dei libri o degli articoli di critica oggi correnti verrebbe scartato. Secondo comma: «Prometto di non pubblicare nulla su libri o articoli finché non li abbia capiti, vale a dire finché non abbia ragione di pensare che posso riassumerli in un modo che risulterebbe riconoscibile all'autore». Sulla base di questo secondo principio un altro quarto dei libri e degli articoli oggi correnti andrebbe al macero. Terzo comma: «Non accetterò di leggere le critiche rivolte da un critico a un altro critico se non sarò certo che egli avrà rispettato i primi due comandamenti». Quarto comma: «Non mi imbarcherò in nessun progetto di lavoro se non sarò certo di rispettare i primi tre giuramenti». A questo punto, quasi tutta la produzione critica oggi corrente è andata al macero. Quinto comma: «Non considererò le mie inevitabili violazioni delle prime quattro promesse con indulgenza maggiore di quella che riserverò a chiunque altro.».

Un sesto comma per l'Italia

I principi di Booth mi sembrano tutti sottoscrivibili e sottoponibili al giuramento di chi fa professione di critica anche in Italia. Aggiungerei, tenendo conto delle nostre specificità nazionali, un sesto comma (anch'io dovrei essere fra i primi a pronunciarlo): «Prometto di non scrivere nessuna storia letteraria prima di avere letto per intero tutte le opere prese in considerazione e di ignorare tutte le precedenti storie letterarie a meno di essere certo che chi le ha scritte ha letto veramente tutte le opere che ha preso in considerazione.»

ilmanifesto.it

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