8.9.05

Le guerre mentono

EDUARDO GALEANO
- Ma il motivo... disse il signor Duval. Un uomo non uccide per niente.

- Il motivo? rispose Ellery, stringendosi nelle spalle-. Lei il motivo lo conosce.

(Ellery Queen, «Avventura nella Casa delle Tenebre»)

Le guerre dicono di esserci per nobili ragioni: la sicurezza internazionale, la dignità nazionale, la democrazia, la libertà, l'ordine, il mandato della Civiltà o la volontà di Dio. Nessuno ha l'onestà di confessare: «Io uccido per rubare».

In Congo, nel corso della guerra dei quattro anni che è in sospeso dalla fine del 2002, sono morti non meno di tre milioni di civili. Sono morti per il coltan, ma neppure loro lo sapevano. Il coltan è un minerale raro, e il suo strano nome designa la mescolanza di due rari minerali chiamati columbio e tantalio. Il coltan valeva poco o nulla, finché si scoprì che era imprescindibile per la fabbricazione di telefoni cellulari, navi spaziali, computer e missili; e allora è diventato più caro dell'oro.

Quasi tutte le riserve conosciute di coltan sono nelle sabbie del Congo. Più di quarant'anni fa, Patricio Lumumba fu sacrificato su un altare d'oro e di diamanti. Il suo paese torna ad ucciderlo ogni giorno.

Il Congo, paese poverissimo, è molto ricco di minerali, e questo regalo della natura continua a rivelarsi una maledizione della storia.
Gli africani chiamano il petrolio «merda del diavolo». Nel 1978 venne scoperto il petrolio nel sud del Sudan. Si sa che sette anni dopo le riserve erano già più del doppio, e la maggior quantità giace nell'ovest del paese, nella regione del Darfur. Là, di recente, c'è stata, e continua a esserci, un'altra strage. Molti contadini neri, due milioni secondo alcune stime, sono fuggiti o sono stati uccisi dai proiettili, dai coltelli o dalla fame, al passaggio delle milizie arabe che il governo appoggia con carri armati ed elicotteri. Questa guerra si traveste da conflitto etnico e religioso fra i pastori arabi, islamici, e i contadini neri, cristiani e animisti. Ma il fatto è che i villaggi incendiati e i campi distrutti erano dove adesso cominciano ad ergersi le torri petrolifere che perforano la terra. La negazione dell'evidenza, ingiustamente attribuita agli ubriachi, è la più nota abitudine del presidente del pianeta, che, grazie a dio, non beve nemmeno un goccio. Lui continua ad affermare che la sua guerra in Iraq non ha niente a che vedere con il petrolio.

«Ci hanno ingannato occultando sistematicamente informazione», scriveva dall'Iraq, nel lontano 1920, un certo Lawrence d'Arabia: «Il popolo inglese è stato portato in Mesopotamia per cadere in una trappola dalla quale sarà difficile uscire con dignità e con onore».

Lo so che la storia non si ripete, ma a volte ne dubito.

E l'ossessione contro Chávez? Non ha proprio niente a che vedere con il petrolio del Venezuela questa campagna forsennata che minaccia di uccidere, in nome della democrazia, il dittatore che ha vinto nove elezioni pulite?

E le continue grida d'allarme per il pericolo nucleare iraniano non hanno proprio niente a che vedere con il fatto che l'Iran contenga una delle riserve di gas più ricche del mondo? E se no, come si spiega la faccenda del pericolo nucleare? È stato forse l'Iran il Paese che ha gettato le bombe nucleari sulla popolazione civile di Hiroshima e Nagasaki?

L'impresa Bechtel, con sede in California, aveva ricevuto in concessione, per quarant'anni, l'acqua di Cochabamba. Tutta l'acqua, compresa l'acqua piovana. Non appena si fu installata, triplicò le tariffe. Scoppiò una rivolta popolare e l'impresa dovette andarsene dalla Bolivia.

Il presidente Bush si impietosì per l'espulsione, e la consolò concedendole l'acqua dell'Iraq.

Davvero generoso da parte sua. L'Iraq non è degno di essere distrutto solo per la sua favolosa ricchezza petrolifera: questo paese, irrigato dal Tigri e dall'Eufrate, si merita il peggio anche perché è la pozza d'acqua dolce più ricca di tutto il Medio Oriente.

Il mondo è assetato. I veleni chimici imputridiscono i fiumi e la siccità li stermina, la società dei consumi consuma sempre più acqua, l'acqua è sempre meno potabile e sempre più scarsa. Tutti lo sanno: le guerre del petrolio saranno, domani, guerre dell'acqua.

In realtà, le guerre dell'acqua sono già in corso. Sono guerre di conquista, ma gli invasori non gettano bombe, né fanno sbarcare truppe. I tecnocrati internazionali, che mettono i paesi poveri in stato d'assedio ed esigono privatizzazione o morte, viaggiano in abiti civili. Le loro armi, mortali strumenti di estorsione e di castigo, non si vedono e non si sentono.

La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, due ganasce della stessa morsa, hanno imposto, in questi ultimi anni, la privatizzazione dell'acqua in sedici paesi poveri. Fra essi, alcuni dei più poveri del mondo, come il Benin, la Nigeria, il Mozambico, il Ruanda, lo Yemen, la Tanzania, il Camerun, l'Honduras, il Nicaragua... L'argomento era irrefutabile: o consegnano l'acqua o non ci sarà clemenza per i debiti o nuovi prestiti.

Gli esperti hanno anche avuto la pazienza di spiegare che non lo facevano per smantellare sovranità nazionali, bensì per aiutare la modernizzazione dei paesi che languivano nell'arretratezza per l'inefficienza dello stato. E se le bollette dell'acqua privatizzata non potevano essere pagate dalla maggioranza della popolazione, tanto meglio: magari così si sarebbe finalmente svegliata la loro assopita volontà di lavoro e di superamento personale.

Chi comanda in democrazia? I funzionari internazionali dell'alta finanza, che nessuno ha votato? Alla fine dell'ottobre dell'anno scorso, un referendum ha deciso il destino dell'acqua in Uruguay. La maggior parte della popolazione ha votato, con una maggioranza mai vista, confermando che l'acqua è un servizio pubblico e un diritto di tutti. È stata una vittoria della democrazia contro la tradizione dell'impotenza, che ci insegna che siamo incapaci di gestire l'acqua o qualsiasi altra cosa, e contro la cattiva fama della proprietà pubblica, screditata dai politici che l'hanno usata e maltrattata come se ciò che è di tutti non fosse di nessuno.

Il referendum dell'Uruguay non ha avuto nessuna ripercussione internazionale. I grandi media non sono venuti a conoscenza di questa battaglia della guerra dell'acqua, persa da quelli che vincono sempre; e l'esempio non ha contagiato nessun paese del mondo. Questo è stato il primo referendum dell'acqua e finora, che si sappia, è stato anche l'ultimo.

copyright ips - il manifesto(traduzione di Marcella Trambaioli)

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