19.9.05

Quel sesto senso che scandaglia lo stare nel mondo

Un'intervista con Claudio Sini. La filosofia non è solo la trasmissione di una dottrina millenaria, né il commento arguto dei testi della tradizione, ma pensiero in azione. Un percorso intellettuale in cui l'incontro con il «materialismo radicale» di Spinoza e la critica alla metafisica di Nietzsche sono le premesse per definire una «filosofia dell'evento»

ROBERTO CICCARELLI

Tutto è iniziato due anni fa, al teatro Franco Parenti di Milano dove, tra Febbraio e Novembre, vennero presentati alcuni volumi filosofici, dalla nuova traduzione di Sentieri Interrotti di Martin Heidegger a Stato di eccezione di Giorgio Agamben e Quando il verbo si fa carne di Paolo Virno. Normale attività di promozione editoriale, affermò qualcuno. Salvo poi, ricordano alcuni testimoni, constatare che il teatro era pieno all'inverosimile, trasformato in una specie di Palavobis della filosofia. Un successo inaspettato che ha prima fatto pensare alla nascita di una nuova moda, anche se qualcuno già si domandava se un seminario sul Timeo di Platone potesse essere più «in» di un reality show. Poi, davanti al ripetersi di queste iniziative, e al consolidarsi di festival dedicati alla filosofia, le considerazioni si sono fatte più serie e qualcuno ha iniziato a interrogarsi sul nuovo rapporto tra il pubblico e la filosofia. Trionfo del marketing filosofico? Ritorno al vecchio sogno illuministico di un'opinione pubblica colta che ama ritrovarsi nei teatri e nelle piazze per dialogare su temi nobili?

Anche Carlo Sini venne invitato una di quelle sere a presentare un volume. A Milano Sini è conosciuto non solo per il suo ruolo di professore di filosofia teoretica alla Statale ma anche per quello di brillante conferenziere. Un'attitudine alla filosofia, la sua, che ha più volte descritto nei termini di una «pedagogia», intesa non come l'attitudine del filosofo a insegnare delle verità intramontabili ad un pubblico indistinto, ma come un'etica che mostra a quel pubblico «lo stare nel mondo» del filosofo. C'è un libro di Fulvio Papi, Gli amati dintorni (Edizioni Ghibli, 2001) che ci consente di risalire alla storia intellettuale di questo filosofo e alla sua biografia.

Avviato inizialmente allo studio della fenomenologia, risultato dell'incontro con Enzo Paci, Sini con il tempo ha cambiato «orientamento». «Il problema della verità diventava per lui - scrive Papi - il dono filosofico di fare emergere la verità della cosa stessa al di là di ogni costruzione scientifica e intellettuale che la volesse riconoscere in ogni forma costituita». Dopo l'incontro con il pragmatismo americano (Charles S. Peirce) e con Derrida, Foucault e Deleuze, il suo rapporto con Nietzsche e Heidegger, lo spinsero a ridimensionare il soggettivismo della fenomenologia, ma anche a decostruire la metafisica da Aristotele in poi come una forma di metafisica e detronizzare il linguaggio «che altro non è che metafora» scrive ancora Papi. Carlo Sini è una figura ormai rara di filosofo, perché invita a fare filosofia, saltando a piè pari le sue divisioni metodologiche e le sue partizioni storiche. «Sini non ripete - scrive ancora Papi - non volgarizza, non importa in una terra della seconda mano le macchine delle altre filosofie. Non si identifica con una figura saliente del pensare contemporaneo».

Dall'uso dei registri diversi, dal gioco con i concetti e le idee, scaturisce dunque la figura di un filosofo capace di spiegare l'origine dei concetti, ma anche di guardare a ciò che accade fugacemente nel presente. Questa abilità di cogliere il sapore di un'epoca attraverso la filosofia Sini la spiega attraverso l'esercizio quotidiano (in uno dei sei volumi della sua monumentale Figure dell'enciclopedia filosofica, Jaca Book 2004-2005, parla di un vero e proprio «abito filosofico») del pensare e del domandare che si può riassumere in una filosofia dell'evento. «Per me la filosofia non è una disciplina dai confini rigidi - spiega Sini - il filosofo è piuttosto un mimo che mostra alla gente, con il suo agire, con il suo corpo, che cosa vuole dire porsi il problema della verità».

Oggi Carlo Sini è a Sassuolo per intervenire sul tema «sentire il mondo» al Festival della filosofia.



Piazze, teatri. Sono questi gli spazi dove si fa la filosofia, oggi?

A Milano, rispetto agli anni in cui l'amministrazione si poneva il problema dell'organizzazione delle attività culturali, c'è stato un grande cambiamento. Dopo il craxismo, con i vari sindaci, da Tognoli a Pillitteri, questa idea di politica culturale è andata sparendo. Certo, oggi ci sono iniziative come quelle del teatro Parenti, o questa di Modena, che riuniscono incredibili folle. Diciamo che rispetto a quegli anni, le iniziative culturali e quelle sulla filosofia si sono fatte più popolari. La cosa non mi sorprende più di tanto, ho sempre pensato che fosse normale per i filosofi incontrare la gente fuori dall'università.

Il suo si può definire un uso pubblico della filosofia?

Sì, perché la filosofia deve continuare a mantenere un senso pubblico e deve evitare di chiudersi nello specialismo. Correrebbe il rischio di perdere la sua ragion d'essere. Ma allo stesso tempo devo dire che non mi piacciono quegli intellettuali da prima pagina che intervengono per esprimere la loro opinione su ogni fatto di costume o di cronaca ed equivocano il senso di questa pubblicità della filosofia. Quando ho intravisto questo rischio io stesso ho rinunciato a continuare a collaborare con il Corriere della sera con il quale ho lavorato per undici anni.

Di fronte ai rischi di cui parla, come pensa di salvaguardare questo ruolo del filosofo?

Credo che bisogna avere saggezza e di fronte a queste platee non cedere all'illusione di pretendere che ti trovino sempre stimolante. Questa illusione pericolosa deriva da un equivoco, quello di credere che la nostra scommessa stia nel rendere popolare la filosofia e non di portare il pubblico alla filosofia. E' un'illusione che deriva anche dall'università e dall'organizzazione dei suoi studi. Naturalmente l'esigenza di farsi capire da tutti è giusta e la filosofia non deve rinunciarci. Ma in agguato c'è quell'illusione per cui tra chi parla e chi ascolta c'è sempre una democrazia. La filosofia non può ignorare questa differenza. Con questo non voglio dire che debba rassegnarsi al ruolo di trasmissione di una dottrina millenaria, al commento dei testi della tradizione, che rimane un'attività importante. Deve però adottare un'attitudine pedagogica con la quale io spiego il suo agire politico: chiamare i non filosofi alla partecipazione, alla costruzione in comune di un'etica.

Un'etica, dunque, non popolare ma che si rivolge ad ogni singolo componente del pubblico. Ma come avviene questa costruzione collettiva?

Non penso che avvenga davanti a delle grandi platee. I festival, i teatri sono solo dei momenti di presentazione della filosofia al pubblico. La costruzione di un'etica segue altri percorsi. La si può favorire attraverso seminari, ma alla base c'è qualcos'altro. Credo infatti che ogni volta ci sia un incontro, tra chi parla e chi ascolta. E' un evento che può spingere qualcuno ad approfondire. E' sempre stato così e non cambierà mai. E' difficile dire quando questo avvenga, ma certo solo l'evento può spingere qualcuno all'esercizio filosofico.

Oggi si diffonde l'idea che la filosofia serva a dare consigli sulla vita quotidiana, a risolvere problemi psicologici, a gestire le emozioni. Quando lei dice che la filosofia serve a «stare nel mondo» allude a questo oppure ad altro?

Sicuramente a qualcos'altro. E' condivisibile l'idea che la filosofia sia una forma di saggezza che trasformi il soggetto filosofante, ma questo non vuol dire che sia la ricetta per avere successo nella vita. La ridurremmo ad una rubrica per cuori solitari. La filosofia ha per oggetto la vita, ma anche la relazione con gli altri. Con questo voglio dire che chi fa filosofia si rivolge alla propria vita, ma la sua attività non è risolta nella vita, va oltre l'io ed è un incontro con l'Altro. L'incontro con la verità è la domanda che mi pongo in ogni momento della vita. Questo è il senso più alto della filosofia, comprendere la verità che è quell'evento in cui è iscritto il destino dell'uomo.

L'etica che lei propone può essere un antidoto contro quella tradizione che pensa che la filosofia abbia il ruolo di rigenerare le cose pubbliche e il potere di creare un popolo di filosofi?

Metta insieme un gruppo di filosofi e scoprirà che non sanno amministrare nemmeno un condominio. Sin dai tempi di Platone, quella del filosofo-re è un'idea utopistica e non è nemmeno augurabile. Il filosofo procede invece in senso opposto: attraverso il suo esercizio raggiunge l'autoconsapevolezza di cui tutti possono giovarsi. Il filosofo non è un re, è piuttosto un mimo della verità, mostra agli altri cosa vuol dire porsi il problema della verità, rimette in discussione le credenze, i significati, i discorsi. Questa attività continua d'interrogazione si rivolge all'evento, ma ha anche una ricaduta sulla vita del soggetto, sulle sue pratiche, sul modo in cui conduce la propria vita.

Oggi lei parla a Sassuolo sul tema «sentire il mondo». Di cosa si tratta?

Vorrei parlare di una specie di paradosso, o meglio di un vero e proprio errore in cui la cultura occidentale è incorsa: l'opposizione tra la conoscenza che deriva dai sensi e quella che proviene dalla mente. Questa opposizione continua nella scienza che ci dice che il mondo sensibile è fantasmatico e dai sensi non può che venire una percezione falsata del mondo. Ma non è così perché una delle nostre principali illusioni è quella di avere cinque sensi delimitati, fisiologicamente incompatibili tra di loro. Questo non ci aiuta a capire ad esempio l'arte della poesia che parla dei colori senza poterli mostrare, oppure la musica che parla senza utilizzare le parole. Io credo che per capire questo tipo di esperienze, noi abbiamo bisogno di un sesto senso, cioè di quell'esperienza originaria in cui la distinzione tra i cinque sensi è del tutto inattendibile. C'è infatti un terreno unitario di senso, che io chiamo appunto «il sentire del mondo», che ci permette di andare oltre la percezione dei cinque sensi.

In che modo si manifesta questo «sesto senso»?

Nell'esperienza del bambino appena nato, ad esempio, quando lui non avverte ancora l'esistenza della madre. In quel momento il bambino avverte la differenza tra lui e il mondo, il suo sesto senso lo aiuta a riconoscere cioè che tra lui e la madre c'è una distanza che deve essere colmata. Negli adulti questa distanza con il mondo viene mascherata intellettualmente, ma il sesto senso permette di conoscere con facoltà diversa da quella del pensiero. Si può ad esempio ascoltare con gli occhi, sentire con l'udito, ragionare con il tatto, vedere delle voci. I libri di Oliver Sachs sui muti, sui sordi sono esemplari da questo punto di vista. Queste persone che hanno perso l'uso di un senso tornano all'esperienza originaria, quella di sentire con il corpo. In un certo senso queste ricerche, come quelle più attuali dei neuofisiologi che hanno scoperto che i sensi possiedono una plasticità, possiedono cioè la capacità di adattarsi e di sviluppare altre capacità, dimostrano che le nostre scienze attuali sono ancora troppo cartesiane e poco spinoziane. L'ufficio della filosofia dovrebbe essere quello di richiamare le scienze allo spinozismo.

A proposito di Spinoza, nel suo ultimo libro, «Archivio Spinoza. La verità e la vita», lei scrive che è stato l'unico filosofo occidentale ad avere compreso la natura del mondo, ad avere capito cioè che cosa significa «sentire il mondo». Perché?

Perché quello di Spinoza è un materialismo radicale. Il suo mondo non è il mondo del cosmologo, né del teologo, né del metafisico. Il mondo è l'esistente puro e semplice, quello che lui chiama causa sui, quella che lui chiama «la sostanza». Spinoza rivela che il mondo è eterno, non parte da niente e non ha nessun presupposto, nel senso che non è creato da un dio. Tutti gli dèi sono pensieri del nostro mondo, non sono fuori dal mondo. Spinoza non si è limitato a mettere, come Cartesio, l'infinità del mondo all'opera nella scienza o nelle scienze umane (Kant). Spinoza è stato l'unico ad avere pensato il mondo come evento che sta accadendo. Per lui il mondo è evento del mondo, vivere nel mondo significa stare dentro l'evento. Da questa premessa è chiaro perché il suo «sentire il mondo» supera il dualismo mente/corpo, quello tra la conoscenza dei sensi e la conoscenza razionale.

Perché allora la filosofia del Novecento ha fatto così tanta fatica a leggere e a comprendere Spinoza?

Perché Spinoza ha pensato in maniera non tradizionale, fuori da ogni tradizione e da ogni filosofia, che il mondo è intrascendibile. Heidegger infatti lo considera un metafisico da lasciare nel Seicento. Husserl, la fenomenologia e l'esistenzialismo gli preferiscono Cartesio. Era l'eretico per definizione, sin da quando veniva chiamato «il cane Spinoza». Solo un altro eretico, Nietzsche, si è messo all'altezza di Spinoza dicendo: la metafisica che dice che l'essenza precede l'esistenza è finita. Il Novecento non lo ha capito perché Spinoza ha costruito un'etica e non un'ontologia. A lui non interessa che cos'è l'essere, per lui la cosa più importante è sapere come stare nel mondo, come si vive l'evento che è il mondo. E' ciò che io chiamo il suo «pensiero abissale».
ilmanifesto.it

Nessun commento: