Non solo plasmò il concetto di computer ma intuì prima di altri quanto fosse rischioso delegare alle macchine decisioni essenziali: Flo Conway e Jim Siegelman lo raccontano in L'eroe oscuro dell'era dell'informazione per Codice
TOMMASO PINCIO
Nell'autunno del 1906 un'importante testata americana, il «New York World», presentò al mondo il più giovane studente universitario della storia. Aveva appena undici anni, una pancetta ragguardevole dovuta a una dieta vegetariana ricca di amidi, una forte miopia frutto di sfrenate letture, uno scarso controllo motorio e una psiche alquanto provata dal programma di «sistematico sminuimento» con cui il padre aveva fatto di lui un piccolo genio. Il bambino era stato infatti allevato con metodi a dir poco militareschi, costretto a recitare le lezioni a memoria stando in piedi accanto al padre che, al minimo errore, lo riduceva verbalmente in polvere gridandogli «Bestia! Imbecille! Somaro!» in una delle quaranta lingue che parlava correntemente. La vita dei bambini prodigio, si sa, non è affatto rose e fiori. Non di rado ci si perde lungo il cammino e quel che in un primo tempo sembra una luminosa promessa può risolversi come niente nel più nero dei fallimenti. C'erano tutti i presupposti perché questo bambino rimanesse schiacciato dall'obbligo di diventare un genio. Per lungo tempo, quasi cieco e imbranato, fu tormentato da profondi dubbi sul proprio valore e perfino sulla sua identità. Identità, sì. Perché tra le altre cose, i genitori si erano guardati bene da metterlo al corrente delle sue origini ebraiche.
A diciannove anni, però, mentre si trovava a Gottinga e almanaccava sulle sottigliezze della logica matematica, acquisì una nuova consapevolezza. Smise di considerarsi una specie di orsacchiotto ammaestrato e divenne Norbert Wiener, un nome sconosciuto ai più ma le cui tracce sono bene impresse nel mondo in cui oggi viviamo, il nome di colui che per primo capì l'essenza della nuova materia nota come «informazione». Nel 1948, con la pubblicazione della Cibernetica: controllo e comunicazione nell'animale e nella macchina scatenò un'autentica rivoluzione scientifica e tecnologica. Successivamente guidò l'équipe medica che mise a punto il primo braccio bionico controllato dai pensieri del suo fruitore. Wiener ha plasmato il concetto di computer e conferito al termine feedback il suo significato moderno. Ma non solo. Ha anche intuito prima di altri i rischi di un sviluppo che avrebbe potuto indurre l'umanità a delegare alle macchine decisioni essenziali. Ciò lo ha spinto a dedicare la parte conclusiva della sua vita a un'opera di ammonimento, invocando una maggiore responsabilità morale di scienziati e tecnici. Proprio per le sue cupe quanto scomode predizioni, alla fine degli anni Cinquanta fu relegato nel dimenticatoio dai colleghi - per i quali era ormai un cervellone bizzarro e invecchiato - e, indirettamente, dai consumatori che si mostravano poco inclini a rinunciare alle nuove comodità offerte dalla tecnica.
L'eroe oscuro dell'era dell'informazione (Codice, traduzione di Paola Bonini, pp. 549, 32) è un ritratto a tutto tondo dell'eccentrica figura di Norbert Wiener. Flo Conway e Jim Siegelman hanno scritto la tipica biografia «indiscreta», volta a svelare le intime debolezze di una grande personalità. C'è da dire che il soggetto offre molte possibilità di indulgere in una simile direzione. Tormentato da un padre tirannico, Wiener non smise mai di patire violenti cambi di umore piombando spesso in lunghi periodi di profonda depressione a cui si alternavano fasi di esaltazione e frenetica attività. La donna che sposò - sempre per volere del padre - contribuì a complicargli ulteriormente la vita.
Se possibile, Margaret era un personaggio più strano dello stesso Norbert. Teneva due copie di Mein Kampf in bella mostra sul comodino, una in inglese e l'altra in tedesco, perché a suo modo di vedere Hitler e la Germania erano stati «terribilmente incompresi», sorvolando bellamente sull'Olocausto e soprattutto sul fatto che il marito fosse ebreo. Aberranti idee politiche a parte, Margaret gestiva il focolare domestico con efficiente frugalità. «Norbert si occupa della matematica e io dell'aritmetica» diceva, lasciando chiaramente intendere cosa significasse per lei quel matrimonio.
Definirla moglie fedele e protettiva sarebbe un eufemismo. Era gelosa di tutti e di tutto, finanche delle loro due figlie e dei rapporti professionali del marito. Diede il meglio di sé quando fece in modo che Norbert arrivasse a rinnegare la decennale amicizia con il neurofisiologo Warren McCulloch, lo scienziato che dopo di lui più si adoperò per la divulgazione della cibernetica. I due lavoravano insieme a un importante progetto di ricerca sul funzionamento del cervello e le possibili connessioni con la teoria del feedback. Il loro legame era così solido che per molto tempo i colleghi si domandarono cosa potesse aver spinto Wiener alla rottura.
Ebbene, sembra che Margaret avesse fatto al marito una terribile rivelazione. Secondo lei, alcuni giovani del gruppo di ricerca di McCulloch avevano approfittato a turno delle grazie di una delle due figlie - l'allora diciannovenne Barbara - durante un soggiorno in casa dello stesso McCulloch. Una storia incredibile, praticamente una balla, ma invece di verificare le gravissime accuse, come probabilmente avrebbe fatto una persona più equilibrata, Wiener non dubitò un solo istante della versione di Margaret né si peritò di parlarne con la diretta interessata, la figlia Barbara. Senza alcun indugio interruppe formalmente e per sempre ogni relazione con McCulloch e la sua squadra.
Parallelamente alla rivelazione di dettagli scabrosi - forniti perlopiù dalle figlie che in tutta probabilità avevano bisogno di scrollarsi di dosso il fardello di una vicenda familiare non facile - i biografi non mancano di restituire un quadro del percorso scientifico di Wiener che tra, luci e ombre, dopo Hiroshima si sentì chiamato a nuove responsabilità morali. «L'impatto della macchina pensante rappresenterà di certo uno shock di ordine paragonabile a quello della bomba atomica» disse a partire dalla fine anni Quaranta, passando poi a stigmatizzare la brama industriale di automatizzazione a esclusivi fini di lucro: «un fatto molto pericoloso. Se vogliamo tradire le aspettative dell'uomo e rimpiazzarlo, questo si trasformerà in un uomo molto rabbioso, e gli uomini rabbiosi sono un pericolo».
Non si limitò alle parole. La sua campagna di mobilitazione per preparare la società ai cambiamenti in arrivo fu tale che nel gennaio del 1947 l'ufficio Fbi di Boston aprì un dossier d'inchiesta denominato «Norbert Wiener alias Norbert Weiner» e classificato come «Questioni di sicurezza - C», categoria che designava le «persone sospettate di attività sovversive contro il governo degli Stati Uniti». Quando, nel 1964, la notizia della morte di Wiener fu pubblicata sul «Boston Globe», l'Fbi infilò il ritaglio stampa nel dossier. La partita tra il governo e lo scienziato ribelle giungeva così al capitolo finale. Restava però aperto il confronto delle idee di Wiener con la Storia, un confronto che ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, non può dirsi definitivamente archiviato.
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I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
18.11.05
13.11.05
La Repubblica smarrita senza forma
Un'intervista con Jean-Luc Nancy. Dalla rivolta nelle banlieue francesi alla crisi delle forme politiche della modernità. Dallo sfaldamento della sovranità alla necessità di decostruire il ruolo della religione nelle società contemporanee
Guerra interna «La Francia è in guerra con se stessa. Era già stato previsto da anni, ma ora assistiamo alla fine di un modello di accesso alla cittadinanza»
La comunità che non viene «La crisi della democrazia non può essere spiegata a partire dal concetto di popolo. Ma neanche quello di moltitudine riesce ad afferrare la posta in gioco»
ROBERTO CICCARELLI
«La Francia è in guerra con se stessa. Purtroppo. Quello che sta succedendo in questi giorni era stato previsto già da anni». Chi parla è Jean-Luc Nancy, a Roma per un convegno dedicato a Jacques Derrida organizzato dall'Università Roma Tre. Il filosofo francese ha lo sguardo ancora rivolto alle rivolte nelle banlieu francesi. «Il mio paese è in guerra - continua - perché sta vivendo la decomposizione del suo modello di integrazione che non si rivolge soltanto agli immigrati, ma è stato un modello politico». Un modello politico che però ha nascosto sotto il tappeto non solo le disuguaglianze sociali ed economiche, ma anche il suo stesso passato coloniale. «La Francia è il più vecchio paese agricolo d'Europa - aggiunge Nancy - E' stato probabilmente il paese che ha impiegato più tempo ad uscire dal suo passato coloniale. Ed è stata un'uscita niente affatto indolore. Basti ricordare la guerra in Algeria, i conflitti in Africa, l'altra guerra in Indocina. Questo ha creato nel paese una condizione che non rispecchia più quel sogno democratico che si concretizzava nell'uguaglianza dell'accesso alla cittadinanza. Per un certo periodo si è creduto che questa fosse l'eccezione francese. Che in realtà derivava dai giacobini, i quali rimangono i figli della monarchia assoluta».
Quali sono, dunque, le ragioni della crisi di questo modello di integrazione?
Le ragioni possono essere osservate a partire da una analisi del settore educativo. Da una parte ci sono le grandi scuole, o l'Ena, che formano le classi dirigenti. Io stesso le ho frequentate, e sono riconoscente al mio paese di poterlo aver fatto. E' però una scuola elitaria, totalmente separata dalle altre scuole in cui le condizioni sono davvero terribili, dove la gente vive in condizioni disperate. In più, rispetto a trent'anni fa, le classi sociali svantaggiate accedono sempre meno alle Grandes Écoles. Si è passati, se non mi sbaglio, dal 20 per cento al 5 per cento. Questa è la crisi di un modello sociale ispirato al centralismo dello stato. Ed è una crisi da cui non si sa come uscire.
Il primo ministro Dominique de Villepin ha spiegato che le violenze sono il risultato del comunitarismo che si è diffuso nelle banlieue. Ed ha poi aggiunto che il governo francese vuole difendere invece un modello sociale fondato sul riconoscimento dell'individuo. Comunitarismo contro laicità dello stato. E' questo lo scontro in atto secondo lei?
Sono un partigiano della laicità alla francese. Ho difeso la legge sul velo, anche se capisco molti dei dubbi espressi da alcuni amici molto vicini che sostengono che questa legge è una vera sciocchezza per i suoi aspetti coercitivi e imperativi. Ma non credo che il conflitto sia tra il comunitarismo e la laicità. E' vero che nelle banlieue c'è stata una diffusione del comunitarismo. E che ci sono degli Imam, a dire la verità pochi, che soffiano sul fuoco. Ma la rivolta in corso nelle banlieue non è un fenomeno religioso o etnico. Bisogna piuttosto parlare delle bande, un fenomeno che è molto forte in tutto il paese, nelle banlieue come anche nel centro di molte città. Queste bande sono quasi delle associazioni segrete che si creano attorno al commercio di haschisch, ad esempio. Ma allora dobbiamo domandarci se tutto ciò è comunitarismo. Probabilmente è il risultato dell'assenza di una comunità nazionale. E' dall'assenza di un luogo di identificazione che deriva l'enorme crescita dei comportamenti identitari nelle banlieue e altrove. Sono problemi che nascono in una società in cui il lavoro e la giustizia sociale sono assenti, mentre le disuguaglianze continuano a crescere.
In molte opere lei ha criticato questa idea di comunità nazionale a favore di un'idea dell'«essere-in-comune» che precede lo stesso spazio della politica. Alla luce degli avvenimenti nelle banlieue, come è possibile oggi quale rilanciare questa idea di comune?
Per fare questo è necessario superare l'idea di popolo. Il popolo è sempre ispirato ad un'idea di naturalità, di realtà etnica, ma nello stesso tempo bisogna dire che «c'è» un popolo. Alla parola popolo si accompagna tutta la pesantezza della tradizione che si ispira al concetto di Gemeinschaft, di Volk.
C'è chi avanza l'ipotesi della moltitudine per rovesciare il concetto moderno di popolo...
Non credo che la moltitudine sia la soluzione: è una prospettiva che non mi convince. Credo che ci sia bisogno di un concetto di unità che rimpiazzi quella fornita dal popolo. Quando si parla di moltitudine si parla di qualcosa che ha qualcosa a che fare con la singolarità. Mi sembra che Toni Negri intenda per moltitudine un insieme eterogeneo di uomini e donne che impone ai singoli una comunicazione costante ispirata alla creatività e all'erotismo. In questo modo per me è come se la moltitudine si trasformasse in una collettività amorosa che ha sempre bisogno di una forma e di una unità. Ho l'impressione che la creatività della moltitudine, in questa versione elaborata da Negri, riprenda qualcosa della creatività e della spontaneità dei situazionisti. E' un concetto fragile perché la fiducia nella creatività e nella spontaneità della moltitudine si appoggia all'idea di un soggetto tradizionale.
Intende dire che la moltitudine non porta fino in fondo la critica alla politica moderna?
Sì, ma a questo punto direi che il problema è quello della forma. La creatività non è una pura e semplice ebollizione e non è mai semplicemente individuale. La forma è l'espressione di un'epoca, mentre la creatività non è mai un'espressione individuale e non deriva da una programmazione. C'è sempre un equilibrio o uno squilibrio estremamente delicato tra una personalità e un'epoca che offre delle possibilità di creare delle forme. Non esiste un individuo creatore senza un'epoca che gli dia delle forme sulle quali operare.
In questo momento ho l'impressione che ci sia l'attesa che prendano corpo delle forme. Non si aspettano degli individui, dei grandi pensatori, degli artisti. E' proprio il contrario. I grandi pensatori, i grandi artisti arrivano quando le forme sono date ed è allora che essi entrano in scena. Effettivamente ci sono delle epoche che hanno delle forme e delle non forme. Il grande sforzo dell'arte contemporanea è quello di trovare le forme. Noi oggi siamo in una deformazione generale e questa deformazione è la realtà in cui viviamo.
Si riferisce anche alle forme politiche?
Certamente. Quotidianamente si ripete che la destra e la sinistra sono la stessa cosa. E si cerca anche di capire che cosa è di sinistra e che cosa è di destra. La destra e la sinistra sono delle forme e oggi hanno perso la loro definizione. Se questo è vero, allora credo che sia necessario oggi tornare a interrogarsi sul luogo stesso della politica. Bisogna ripensare il politico, che è l'essenza della politica, per poi arrivare a ripensare anche le forme della politica.
Ma allora che cos'è la politica?
Quello che posso dirle che la politica fino ad oggi è completamente dipendente dall'idea di fornire delle forme comuni dell'esistenza. E queste forme comuni dell'esistenza sono la democrazia, il comunismo e la repubblica. Ora, repubblica e comunismo sono delle forme finite. Il comunismo non si è mai realizzato se non nella forma del socialismo reale reale; comunismo è una parola che ancora rimane sospesa, senza forma. La democrazia invece si realizza sempre nella forma della democrazia rappresentativa. Ma c'è un tipo di democrazia che non ha una forma ed è quella della democrazia diretta, quella dei consigli, dei Soviet. Al di là della democrazia reale c'è dunque qualche altra forma politica da cercare. Ma la democrazia, come anche la politica in generale, mi sembra che non diano una forma a tutta l'esistenza.
Il giovane Marx nella Critica alla filosofia del diritto di Hegel dice invece che la politica avrebbe dovuto scomparire come forma separata e avrebbe dovuto invece impregnare tutte le sfere dell'esistenza sociale e questa è esattamente l'illusione, io credo, metafisica per eccellenza. Quella cioè che individua un'essenza che impregna l'intera esistenza degli uomini. Oggi credo sia necessario scoprire la pluralità e la differenza dell'esistenza e riconoscere che la politica rimane separata, ma permette allo stesso tempo di riconoscere la coesistenza di tutte le sfere dell'esistenza.
Dalla politica alla religione. E' in traduzione per Cronopio il suo ultimo, ambizioso, testo La Déclosion. Déconstruction du Christianisme I. Perchè decostruire il cristianesimo?
Perché tutta la nostra tradizione filosofica e politica ha pensato di mettere da parte la religione. A partire da Bodin, l'autorità politica e quella religiosa sono state distinte. Col secolo dei Lumi si è pensato di avere superato filosoficamente il problema della religione. Oggi la sovranità politica viene messa in discussione da una globalizzazione che mette in crisi il diritto internazionale con le operazioni di polizia, o con le guerre.
Filosoficamente lo stesso problema si pone in quella che definisco l'immagine della ragione sospesa. Abbiamo raggiunto il limite della razionalità, ma dobbiamo andare al fondo della nostra tradizione cristiana. Le faccio un esempio: le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, il cuore del cristianesimo, appartengono agli uomini anche senza fare riferimento a Dio o alla religione.
Che cos'è allora Dio nel cristianesimo?
Tutto tranne che un essere supremo. E non solo nel Cristianesimo, ma anche nell'ebraismo e nell'islamismo. Analizziamo i tre grandi momenti del Cristianesimo: l'incarnazione, la redenzione e la trinità. Possiamo dire tutto tranne che facciano riferimento a un Dio supremo. Schelling sosteneva che quando parliamo di monoteismo, parliamo di ateismo. In effetti il monoteismo sostituisce un unico Dio al posto della pluralità delle divinità.
In tutti i politeismi ci sono delle divinità che manifestano dei comportamenti umani. Il cristianesimo invece, in particolare nell'eucarestia, rende Dio presente in una maniera piuttosto strana. Perché il suo è un Dio assente. Ho provato a riflettere su questo Dio come assenza, su Dio inteso come non-Dio. E' molto importante farlo in un tempo in cui molta gente ritorna alla religione perché non c'è più il politico, non ci sono speranze politiche o sociali. E questo è un pericolo perché la religione sta tornando ad essere politica, anzi è la misura stessa della politica.
Quello che colpisce nella sua decostruzione è l'affinità tra il Cristianesimo e il nichilismo. Può spiegarne le ragioni?
In un certo senso si può dire che tutto il Cristianesimo contribuisce a svuotare il cielo dei valori e dei significati. Con una definizione potrei sintetizzare il Cristianesimo come l'idea di vivere nel mondo rinunciando al mondo stesso. E' questa la sua grande novità portata da Cristo: «io sono del Padre e non appartengo a questo mondo». Se lo vogliamo prendere sul serio, il Cristianesimo è la negazione di ogni valore che appartiene al mondo. E non per rimpiazzarlo con altri valori, ma con qualcosa che invita a vivere sempre al di fuori del mondo.
Nietzsche è stato il più grande pensatore del nichilismo perché ha compreso questa verità del Cristianesimo. Il nichilismo esclude dunque l'esistenza delle essenze, dei valori, ma non fa altro che confermare il Cristianesimo. Per Nietzsche non si può uscire dal nichilismo se non a partire dal nichilismo stesso. Cioè dalla sua idea che nel mondo non esistono più i valori. Introdurre un nuovo senso, questo è il nostro scopo. A condizione che sia chiaro che anche questo scopo non ha senso. Questo lo trovo straordinario. Pensi all'esperienza degli artisti, di quei poeti che hanno compreso che non esiste un senso ultimo delle cose. Eppure non c'è nulla di più importante per loro che portare a termine la loro opera. Hanno esperito il niente, ma lo hanno anche rovesciato. Nel senso che hanno capito che il senso del niente sta proprio nel passaggio tra il nascere e il morire, tra il niente e il niente.
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Guerra interna «La Francia è in guerra con se stessa. Era già stato previsto da anni, ma ora assistiamo alla fine di un modello di accesso alla cittadinanza»
La comunità che non viene «La crisi della democrazia non può essere spiegata a partire dal concetto di popolo. Ma neanche quello di moltitudine riesce ad afferrare la posta in gioco»
ROBERTO CICCARELLI
«La Francia è in guerra con se stessa. Purtroppo. Quello che sta succedendo in questi giorni era stato previsto già da anni». Chi parla è Jean-Luc Nancy, a Roma per un convegno dedicato a Jacques Derrida organizzato dall'Università Roma Tre. Il filosofo francese ha lo sguardo ancora rivolto alle rivolte nelle banlieu francesi. «Il mio paese è in guerra - continua - perché sta vivendo la decomposizione del suo modello di integrazione che non si rivolge soltanto agli immigrati, ma è stato un modello politico». Un modello politico che però ha nascosto sotto il tappeto non solo le disuguaglianze sociali ed economiche, ma anche il suo stesso passato coloniale. «La Francia è il più vecchio paese agricolo d'Europa - aggiunge Nancy - E' stato probabilmente il paese che ha impiegato più tempo ad uscire dal suo passato coloniale. Ed è stata un'uscita niente affatto indolore. Basti ricordare la guerra in Algeria, i conflitti in Africa, l'altra guerra in Indocina. Questo ha creato nel paese una condizione che non rispecchia più quel sogno democratico che si concretizzava nell'uguaglianza dell'accesso alla cittadinanza. Per un certo periodo si è creduto che questa fosse l'eccezione francese. Che in realtà derivava dai giacobini, i quali rimangono i figli della monarchia assoluta».
Quali sono, dunque, le ragioni della crisi di questo modello di integrazione?
Le ragioni possono essere osservate a partire da una analisi del settore educativo. Da una parte ci sono le grandi scuole, o l'Ena, che formano le classi dirigenti. Io stesso le ho frequentate, e sono riconoscente al mio paese di poterlo aver fatto. E' però una scuola elitaria, totalmente separata dalle altre scuole in cui le condizioni sono davvero terribili, dove la gente vive in condizioni disperate. In più, rispetto a trent'anni fa, le classi sociali svantaggiate accedono sempre meno alle Grandes Écoles. Si è passati, se non mi sbaglio, dal 20 per cento al 5 per cento. Questa è la crisi di un modello sociale ispirato al centralismo dello stato. Ed è una crisi da cui non si sa come uscire.
Il primo ministro Dominique de Villepin ha spiegato che le violenze sono il risultato del comunitarismo che si è diffuso nelle banlieue. Ed ha poi aggiunto che il governo francese vuole difendere invece un modello sociale fondato sul riconoscimento dell'individuo. Comunitarismo contro laicità dello stato. E' questo lo scontro in atto secondo lei?
Sono un partigiano della laicità alla francese. Ho difeso la legge sul velo, anche se capisco molti dei dubbi espressi da alcuni amici molto vicini che sostengono che questa legge è una vera sciocchezza per i suoi aspetti coercitivi e imperativi. Ma non credo che il conflitto sia tra il comunitarismo e la laicità. E' vero che nelle banlieue c'è stata una diffusione del comunitarismo. E che ci sono degli Imam, a dire la verità pochi, che soffiano sul fuoco. Ma la rivolta in corso nelle banlieue non è un fenomeno religioso o etnico. Bisogna piuttosto parlare delle bande, un fenomeno che è molto forte in tutto il paese, nelle banlieue come anche nel centro di molte città. Queste bande sono quasi delle associazioni segrete che si creano attorno al commercio di haschisch, ad esempio. Ma allora dobbiamo domandarci se tutto ciò è comunitarismo. Probabilmente è il risultato dell'assenza di una comunità nazionale. E' dall'assenza di un luogo di identificazione che deriva l'enorme crescita dei comportamenti identitari nelle banlieue e altrove. Sono problemi che nascono in una società in cui il lavoro e la giustizia sociale sono assenti, mentre le disuguaglianze continuano a crescere.
In molte opere lei ha criticato questa idea di comunità nazionale a favore di un'idea dell'«essere-in-comune» che precede lo stesso spazio della politica. Alla luce degli avvenimenti nelle banlieue, come è possibile oggi quale rilanciare questa idea di comune?
Per fare questo è necessario superare l'idea di popolo. Il popolo è sempre ispirato ad un'idea di naturalità, di realtà etnica, ma nello stesso tempo bisogna dire che «c'è» un popolo. Alla parola popolo si accompagna tutta la pesantezza della tradizione che si ispira al concetto di Gemeinschaft, di Volk.
C'è chi avanza l'ipotesi della moltitudine per rovesciare il concetto moderno di popolo...
Non credo che la moltitudine sia la soluzione: è una prospettiva che non mi convince. Credo che ci sia bisogno di un concetto di unità che rimpiazzi quella fornita dal popolo. Quando si parla di moltitudine si parla di qualcosa che ha qualcosa a che fare con la singolarità. Mi sembra che Toni Negri intenda per moltitudine un insieme eterogeneo di uomini e donne che impone ai singoli una comunicazione costante ispirata alla creatività e all'erotismo. In questo modo per me è come se la moltitudine si trasformasse in una collettività amorosa che ha sempre bisogno di una forma e di una unità. Ho l'impressione che la creatività della moltitudine, in questa versione elaborata da Negri, riprenda qualcosa della creatività e della spontaneità dei situazionisti. E' un concetto fragile perché la fiducia nella creatività e nella spontaneità della moltitudine si appoggia all'idea di un soggetto tradizionale.
Intende dire che la moltitudine non porta fino in fondo la critica alla politica moderna?
Sì, ma a questo punto direi che il problema è quello della forma. La creatività non è una pura e semplice ebollizione e non è mai semplicemente individuale. La forma è l'espressione di un'epoca, mentre la creatività non è mai un'espressione individuale e non deriva da una programmazione. C'è sempre un equilibrio o uno squilibrio estremamente delicato tra una personalità e un'epoca che offre delle possibilità di creare delle forme. Non esiste un individuo creatore senza un'epoca che gli dia delle forme sulle quali operare.
In questo momento ho l'impressione che ci sia l'attesa che prendano corpo delle forme. Non si aspettano degli individui, dei grandi pensatori, degli artisti. E' proprio il contrario. I grandi pensatori, i grandi artisti arrivano quando le forme sono date ed è allora che essi entrano in scena. Effettivamente ci sono delle epoche che hanno delle forme e delle non forme. Il grande sforzo dell'arte contemporanea è quello di trovare le forme. Noi oggi siamo in una deformazione generale e questa deformazione è la realtà in cui viviamo.
Si riferisce anche alle forme politiche?
Certamente. Quotidianamente si ripete che la destra e la sinistra sono la stessa cosa. E si cerca anche di capire che cosa è di sinistra e che cosa è di destra. La destra e la sinistra sono delle forme e oggi hanno perso la loro definizione. Se questo è vero, allora credo che sia necessario oggi tornare a interrogarsi sul luogo stesso della politica. Bisogna ripensare il politico, che è l'essenza della politica, per poi arrivare a ripensare anche le forme della politica.
Ma allora che cos'è la politica?
Quello che posso dirle che la politica fino ad oggi è completamente dipendente dall'idea di fornire delle forme comuni dell'esistenza. E queste forme comuni dell'esistenza sono la democrazia, il comunismo e la repubblica. Ora, repubblica e comunismo sono delle forme finite. Il comunismo non si è mai realizzato se non nella forma del socialismo reale reale; comunismo è una parola che ancora rimane sospesa, senza forma. La democrazia invece si realizza sempre nella forma della democrazia rappresentativa. Ma c'è un tipo di democrazia che non ha una forma ed è quella della democrazia diretta, quella dei consigli, dei Soviet. Al di là della democrazia reale c'è dunque qualche altra forma politica da cercare. Ma la democrazia, come anche la politica in generale, mi sembra che non diano una forma a tutta l'esistenza.
Il giovane Marx nella Critica alla filosofia del diritto di Hegel dice invece che la politica avrebbe dovuto scomparire come forma separata e avrebbe dovuto invece impregnare tutte le sfere dell'esistenza sociale e questa è esattamente l'illusione, io credo, metafisica per eccellenza. Quella cioè che individua un'essenza che impregna l'intera esistenza degli uomini. Oggi credo sia necessario scoprire la pluralità e la differenza dell'esistenza e riconoscere che la politica rimane separata, ma permette allo stesso tempo di riconoscere la coesistenza di tutte le sfere dell'esistenza.
Dalla politica alla religione. E' in traduzione per Cronopio il suo ultimo, ambizioso, testo La Déclosion. Déconstruction du Christianisme I. Perchè decostruire il cristianesimo?
Perché tutta la nostra tradizione filosofica e politica ha pensato di mettere da parte la religione. A partire da Bodin, l'autorità politica e quella religiosa sono state distinte. Col secolo dei Lumi si è pensato di avere superato filosoficamente il problema della religione. Oggi la sovranità politica viene messa in discussione da una globalizzazione che mette in crisi il diritto internazionale con le operazioni di polizia, o con le guerre.
Filosoficamente lo stesso problema si pone in quella che definisco l'immagine della ragione sospesa. Abbiamo raggiunto il limite della razionalità, ma dobbiamo andare al fondo della nostra tradizione cristiana. Le faccio un esempio: le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, il cuore del cristianesimo, appartengono agli uomini anche senza fare riferimento a Dio o alla religione.
Che cos'è allora Dio nel cristianesimo?
Tutto tranne che un essere supremo. E non solo nel Cristianesimo, ma anche nell'ebraismo e nell'islamismo. Analizziamo i tre grandi momenti del Cristianesimo: l'incarnazione, la redenzione e la trinità. Possiamo dire tutto tranne che facciano riferimento a un Dio supremo. Schelling sosteneva che quando parliamo di monoteismo, parliamo di ateismo. In effetti il monoteismo sostituisce un unico Dio al posto della pluralità delle divinità.
In tutti i politeismi ci sono delle divinità che manifestano dei comportamenti umani. Il cristianesimo invece, in particolare nell'eucarestia, rende Dio presente in una maniera piuttosto strana. Perché il suo è un Dio assente. Ho provato a riflettere su questo Dio come assenza, su Dio inteso come non-Dio. E' molto importante farlo in un tempo in cui molta gente ritorna alla religione perché non c'è più il politico, non ci sono speranze politiche o sociali. E questo è un pericolo perché la religione sta tornando ad essere politica, anzi è la misura stessa della politica.
Quello che colpisce nella sua decostruzione è l'affinità tra il Cristianesimo e il nichilismo. Può spiegarne le ragioni?
In un certo senso si può dire che tutto il Cristianesimo contribuisce a svuotare il cielo dei valori e dei significati. Con una definizione potrei sintetizzare il Cristianesimo come l'idea di vivere nel mondo rinunciando al mondo stesso. E' questa la sua grande novità portata da Cristo: «io sono del Padre e non appartengo a questo mondo». Se lo vogliamo prendere sul serio, il Cristianesimo è la negazione di ogni valore che appartiene al mondo. E non per rimpiazzarlo con altri valori, ma con qualcosa che invita a vivere sempre al di fuori del mondo.
Nietzsche è stato il più grande pensatore del nichilismo perché ha compreso questa verità del Cristianesimo. Il nichilismo esclude dunque l'esistenza delle essenze, dei valori, ma non fa altro che confermare il Cristianesimo. Per Nietzsche non si può uscire dal nichilismo se non a partire dal nichilismo stesso. Cioè dalla sua idea che nel mondo non esistono più i valori. Introdurre un nuovo senso, questo è il nostro scopo. A condizione che sia chiaro che anche questo scopo non ha senso. Questo lo trovo straordinario. Pensi all'esperienza degli artisti, di quei poeti che hanno compreso che non esiste un senso ultimo delle cose. Eppure non c'è nulla di più importante per loro che portare a termine la loro opera. Hanno esperito il niente, ma lo hanno anche rovesciato. Nel senso che hanno capito che il senso del niente sta proprio nel passaggio tra il nascere e il morire, tra il niente e il niente.
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11.11.05
Genova G8 «Così ci hanno massacrato»
G8, al processo per la Diaz il racconto di Lena Z. La testimonianza della giovane tedesca la cui foto con il volto coperto di sangue fece il giro del mondo. «Mi hanno bastonata e presa a calci, si divertivano a sentire i miei gemiti». Per lei costole fratturate e una riduzione della capacità polmonare del 30%
ALESSANDRO MANTOVANI
Racconta la fuga disperata al quarto piano, l'ultimo piano della scuola Diaz, «per creare il maggiore spazio possibile tra noi e la polizia». Ricorda di aver pensato a scappare dalle impalcature «ma rinunciammo - dice - perché temevamo che ci buttassero giù». Era in preda al panico mentre quelli sfondavano la porta. Quindi trovò un nascondiglio «in un piccolo locale vicino all'ascensore, una dispensa». Lei e il suo ragazzo decisero di presentarsi con le braccia alzate se la polizia li avesse trovati. Purtroppo non è bastato. Lena Z. ha 28 anni e ne aveva 24 al G8, quando è tornata a casa ad Amburgo con le costole fratturate e lesioni che comportano tuttora una riduzione della capacità polmonare del 30 per cento. Si occupa di botanica. Anche volendo non farebbe paura a nessuno, non certo a un poliziotto in assetto da guerra. E' più esile di quanto non sembri nella foto in barella all'uscita dalla Diaz, con il volto coperto di sangue, che fece il giro del mondo. E ieri è stata la prima delle 93 vittime della Diaz a testimoniare davanti al tribunale di Genova che sta processando i 29 dirigenti e funzionari della polizia accusati a vario titolo di falso, calunnia e lesioni per l'assalto alla Diaz e le prove fasulle (le due famose bottiglie molotov). «Nella dispensa - ha raccontato la giovane tedesca rispondendo al pm Enrico Zucca - siamo rimasti pochissimo, poi abbiamo sentito passi pesanti, di stivali, e altri rumori come se la polizia stesse picchiando con i bastoni sul muro. Sono arrivati e hanno aperto la porta. Il mio ragazzo è stato trascinato fuori subito, lo hanno circondato e hanno iniziato a colpirlo con il bastone. Quanti erano? Dieci-quindici... almeno dieci». C'è una contestazione dell'avvocato Porciani, uomo della destra milanese più estrema che c'è e legale dei capisquadra della celere romana: «Ha detto in ogni caso dieci, non almeno», sostiene l'avvocato. Il presidente Barone: «Se permette mi fido dell'interprete». Ma poco importa. Quel ragazzo fu massacrato da delinquenti in divisa, in sovrannumero e a volto coperto, non identificati e non più identificabili.
«Io - ha continuato Lena tenendo a bada il dolore dei ricordi e la tensione - ero rimasta lì, nella dispensa. Mi hanno tirata fuori per i capelli, credo di essere caduta quasi subito. Ero sdraiata e mi colpivano con i calci nella schiena e sul fianco con i bastoni. Ho sentito le mie costole che si fratturavano. Un poliziotto mi ha picchiato col ginocchio tra le gambe. Loro continuavano a picchiarmi e io sono scivolata di nuovo a terra. Avevo la sensazione che si stessero divertendo - ha esitato Lena - specie sentendo i rumori che facevo quando mi colpivano sullo sterno». «I suoi gemiti?», chiede il pm. «Sì, le mie grida, il mio respiro. Così ho deciso di non gridare più per non invogliarli a colpire ancora». Parole pesanti, pesantissime. Che però non hanno interrotto i feroci sghignazzi di alcuni degli avvocati dei superpoliziotti (non tutti, per carità, ma non facciamo nomi).
«Ero sdraiata contro il muro - ha proseguito la testimone/parte civile - Mi hanno spinta a calci verso le scale e mi hanno buttata giù, uno mi teneva per i capelli, avevo la testa all'altezza della sua anca e le gambe pendevano indietro. E da dietro altri poliziotti mi picchiavano ancora». Lena ricorda «una polvere bianca che bruciava sulle ferite, forse lacrimogeno». «Al secondo piano - prosegue - mi hanno gettata su altre due persone già a terra. Non si sono mossi. Ho chiesto loro in inglese se erano vivi o morti. Non mi hanno risposto. Lì mi sono accorta del sangue che scorreva sulla mia faccia, non riuscivo più a muovere il braccio destro. La polizia è passata più volte accanto a me e ognuno si fermava a sputarmi in faccia, alzandosi la visiera e togliendosi il fazzoletto rosso. Poi - altro particolare inquietante - hanno cercato di mettermi in un sacco di plastica nero, credo non volessero far vedere com'eravamo conciati». Alcuni difensori si sono opposti: «E' una valutazione della teste», hanno detto. Forse era un telo portato dai barellieri delle ambulanze, comunque non è decisivo. Il resto è chiarissimo e sarebbe bello se qualcuno trasmettesse in diretta questo processo, altro che "Un giorno in pretura". Qui infatti si misura la distanza tra la polizia reale e quella «democratica» e «di sicura affidabilità» di cui straparlano il ministro dell'interno Giuseppe Pisanu e i suoi aspiranti successori di centrosinistra. E misurarla è indispensabile se si vogliono rafforzare i poliziotti onesti e democratici, che per fortuna non mancano.
«Non mettiamo in dubbio che le cose siano andate così», questo l'esordio, significativo, del controesame dell'avvocato Romanelli che difende «Canterini and company» (parole sue), ovvero l'ex comandante della celere romana e i suoi capisquadra. Lena ha superato brillantemente i tentativi di trasformarla da vittima in imputata. «Lei e il suo ragazzo eravate state fermati nel pomeriggio, perché? Con chi era a Genova?», chiedeva Romanelli. «Ha detto di essere andata alla Diaz perché era un luogo sicuro per dormire, sicuro da cosa? Dai malviventi? Dai black bloc? Dalla polizia?». Ma lei risponde, schiva, chiarisce. Un buco nell'acqua dopo l'altro. «E' la vecchia tecnica dei processi per stupro», commenta un avvocato di parte civile che ha memoria lunga.
Sui manganelli ha detto «credo che fossero di gomma». Per la procura non era la risposta migliore perché i Canterini boys avevano i micidiali tonfa metallici, ben più duri della gomma, sperimentati al G8 e poi ritirati dal Viminale (i carabinieri ne usano una versione più leggera). Ma poi, quando Romanelli e Porciani hanno insistito sulle divise dei picchiatori, Lena ha indicato senza esitazione la divisa del settimo nucleo, diversa dalle altre per la cinta nera anziché bianca. «Avevano la cinta scura», ha detto, distinguendola da quella bianca dei poliziotti che la piantonarono successivamente in ospedale.
ilmanifesto.it
ALESSANDRO MANTOVANI
Racconta la fuga disperata al quarto piano, l'ultimo piano della scuola Diaz, «per creare il maggiore spazio possibile tra noi e la polizia». Ricorda di aver pensato a scappare dalle impalcature «ma rinunciammo - dice - perché temevamo che ci buttassero giù». Era in preda al panico mentre quelli sfondavano la porta. Quindi trovò un nascondiglio «in un piccolo locale vicino all'ascensore, una dispensa». Lei e il suo ragazzo decisero di presentarsi con le braccia alzate se la polizia li avesse trovati. Purtroppo non è bastato. Lena Z. ha 28 anni e ne aveva 24 al G8, quando è tornata a casa ad Amburgo con le costole fratturate e lesioni che comportano tuttora una riduzione della capacità polmonare del 30 per cento. Si occupa di botanica. Anche volendo non farebbe paura a nessuno, non certo a un poliziotto in assetto da guerra. E' più esile di quanto non sembri nella foto in barella all'uscita dalla Diaz, con il volto coperto di sangue, che fece il giro del mondo. E ieri è stata la prima delle 93 vittime della Diaz a testimoniare davanti al tribunale di Genova che sta processando i 29 dirigenti e funzionari della polizia accusati a vario titolo di falso, calunnia e lesioni per l'assalto alla Diaz e le prove fasulle (le due famose bottiglie molotov). «Nella dispensa - ha raccontato la giovane tedesca rispondendo al pm Enrico Zucca - siamo rimasti pochissimo, poi abbiamo sentito passi pesanti, di stivali, e altri rumori come se la polizia stesse picchiando con i bastoni sul muro. Sono arrivati e hanno aperto la porta. Il mio ragazzo è stato trascinato fuori subito, lo hanno circondato e hanno iniziato a colpirlo con il bastone. Quanti erano? Dieci-quindici... almeno dieci». C'è una contestazione dell'avvocato Porciani, uomo della destra milanese più estrema che c'è e legale dei capisquadra della celere romana: «Ha detto in ogni caso dieci, non almeno», sostiene l'avvocato. Il presidente Barone: «Se permette mi fido dell'interprete». Ma poco importa. Quel ragazzo fu massacrato da delinquenti in divisa, in sovrannumero e a volto coperto, non identificati e non più identificabili.
«Io - ha continuato Lena tenendo a bada il dolore dei ricordi e la tensione - ero rimasta lì, nella dispensa. Mi hanno tirata fuori per i capelli, credo di essere caduta quasi subito. Ero sdraiata e mi colpivano con i calci nella schiena e sul fianco con i bastoni. Ho sentito le mie costole che si fratturavano. Un poliziotto mi ha picchiato col ginocchio tra le gambe. Loro continuavano a picchiarmi e io sono scivolata di nuovo a terra. Avevo la sensazione che si stessero divertendo - ha esitato Lena - specie sentendo i rumori che facevo quando mi colpivano sullo sterno». «I suoi gemiti?», chiede il pm. «Sì, le mie grida, il mio respiro. Così ho deciso di non gridare più per non invogliarli a colpire ancora». Parole pesanti, pesantissime. Che però non hanno interrotto i feroci sghignazzi di alcuni degli avvocati dei superpoliziotti (non tutti, per carità, ma non facciamo nomi).
«Ero sdraiata contro il muro - ha proseguito la testimone/parte civile - Mi hanno spinta a calci verso le scale e mi hanno buttata giù, uno mi teneva per i capelli, avevo la testa all'altezza della sua anca e le gambe pendevano indietro. E da dietro altri poliziotti mi picchiavano ancora». Lena ricorda «una polvere bianca che bruciava sulle ferite, forse lacrimogeno». «Al secondo piano - prosegue - mi hanno gettata su altre due persone già a terra. Non si sono mossi. Ho chiesto loro in inglese se erano vivi o morti. Non mi hanno risposto. Lì mi sono accorta del sangue che scorreva sulla mia faccia, non riuscivo più a muovere il braccio destro. La polizia è passata più volte accanto a me e ognuno si fermava a sputarmi in faccia, alzandosi la visiera e togliendosi il fazzoletto rosso. Poi - altro particolare inquietante - hanno cercato di mettermi in un sacco di plastica nero, credo non volessero far vedere com'eravamo conciati». Alcuni difensori si sono opposti: «E' una valutazione della teste», hanno detto. Forse era un telo portato dai barellieri delle ambulanze, comunque non è decisivo. Il resto è chiarissimo e sarebbe bello se qualcuno trasmettesse in diretta questo processo, altro che "Un giorno in pretura". Qui infatti si misura la distanza tra la polizia reale e quella «democratica» e «di sicura affidabilità» di cui straparlano il ministro dell'interno Giuseppe Pisanu e i suoi aspiranti successori di centrosinistra. E misurarla è indispensabile se si vogliono rafforzare i poliziotti onesti e democratici, che per fortuna non mancano.
«Non mettiamo in dubbio che le cose siano andate così», questo l'esordio, significativo, del controesame dell'avvocato Romanelli che difende «Canterini and company» (parole sue), ovvero l'ex comandante della celere romana e i suoi capisquadra. Lena ha superato brillantemente i tentativi di trasformarla da vittima in imputata. «Lei e il suo ragazzo eravate state fermati nel pomeriggio, perché? Con chi era a Genova?», chiedeva Romanelli. «Ha detto di essere andata alla Diaz perché era un luogo sicuro per dormire, sicuro da cosa? Dai malviventi? Dai black bloc? Dalla polizia?». Ma lei risponde, schiva, chiarisce. Un buco nell'acqua dopo l'altro. «E' la vecchia tecnica dei processi per stupro», commenta un avvocato di parte civile che ha memoria lunga.
Sui manganelli ha detto «credo che fossero di gomma». Per la procura non era la risposta migliore perché i Canterini boys avevano i micidiali tonfa metallici, ben più duri della gomma, sperimentati al G8 e poi ritirati dal Viminale (i carabinieri ne usano una versione più leggera). Ma poi, quando Romanelli e Porciani hanno insistito sulle divise dei picchiatori, Lena ha indicato senza esitazione la divisa del settimo nucleo, diversa dalle altre per la cinta nera anziché bianca. «Avevano la cinta scura», ha detto, distinguendola da quella bianca dei poliziotti che la piantonarono successivamente in ospedale.
ilmanifesto.it
10.11.05
Modello periferia
ROSSANA ROSSANDA
Le periferie parigine sono in tumulto e Romano Prodi ha ammonito: le nostre non sono meno degradate. Forza Italia gli ha dato dell'incendiario. I sindaci gli hanno detto che no, le nostre sono diverse. Calderoli invece che sì, e bisogna cacciare gli immigrati. Pisanu non teme le periferie perché da noi il luogo del tumulto è la Val di Susa. L'opposizione ha obiettato «sì, ma». Adriano Sofri scrive arguzie sulle automobili. Ma Prodi ha ragione, variano soltanto le dimensioni, che non sono poca cosa. E' il grande agglomerato urbano che si è formato negli anni dell'espansione, alimentato dall'immigrazione interna ed esterna, che si separa in zone invalicabili, e più cresce più si separa per censo. La città europea è gerarchica. Attorno al nucleo dei signori si sono andati via via accumulando i poveri e i fragili. A Parigi il centro è dei signori e degli intellettuali che se lo possono permettere, oppure dei turisti, e resta governo, potere, cultura, arte, soldi. Lo circonda una grande fascia di gente assai per bene, come a Milano o a Roma, di quartieri borghesi che detestano i blocchi dormitorio che vengono per chilometri subito dopo, senza soluzione di continuità urbana, dove era una volta la cintura dei comuni rossi e fumavano le ciminiere delle grande aziende. Da essi si ritrae anche una quarta fascia di chi sarebbe disposto ad abitare luoghi più verdi, ma i comuni in cui arriva ancora qualche lembo di foresta si guardano bene dal costruire il venti per cento degli alloggi popolari che la legge prescrive (pena una multa di 150 euro) perché in questo caso la gente bene non ci verrebbe a stare. Quanto agli immigrati di ultimo arrivo non hanno quartiere, fanno gli squatter nelle case vecchie e disabitate dovunque siano, e succede come questa estate che vi muoiano per incendio nelle condoglianze di tutta la città. Questa la geografia di una capitale, ma non soltanto di Parigi.
E' la città tipica dell'Europa affluente, che oggi scricchiola. Il post industriale non ha bisogno di manodopera, i governi dismettono gli alloggi calmierati, e quelli che vi si trovano stentano a pagarsi gli affitti. Questa la geografia sociale che si può leggere nei blocchi ripetitivi di cemento, nella quantità di scuole che ci sono o non ci sono, degli insegnanti che ci vanno o non ci vanno, delle presenze o assenze di teatri, musei, locali, luoghi di cultura. Nella terza fascia il resto di Parigi non si inoltra mai. Chi vi era arrivato trenta o quaranta anni fa trovava lavoro e aveva qualche prospettiva, oggi i suoi rampolli non lo trovano, e non ne hanno nessuna. Sono nati in Francia, scolarizzati in Francia, parlano francese. Non frequentano né scuole né chiese né moschee, non amano una scuola che non gli promette nulla. Sono per le strade. In rottura con i genitori, che li rimproverano e con i quali il dialogo, ammesso che ci sia mai stato, è finito.
Sono in rottura con i simboli di quella ricchezza radiosa che li ammicca da tutte le parti, manifesti e tv, che gli è preclusa. Gli è venuta voglia di spaccarli tutti, non di spaccare tutto - sono dieci giorni che alcune periferie bruciano ma a nessuno viene in testa di prendere la Bastiglia. Sono indifferenti se quella che distruggono è l'auto o la motocicletta del vicino. Gareggiano, come l'età e il cinema vuole, fra quartiere e quartiere. Non hanno organizzazione, non è vero che siano infiltrati dalla criminalità della droga, più che non lo siano le periferie romana o milanese o torinese. Sono tagliati fuori dall'ascensore sociale, lo sanno e se lo sentono dire. Hanno cominciato con un solo slogan: «Rispetto, vogliamo rispetto». E quando il ministro degli interni li ha chiamati teppaglia è stato come versare benzina sul fuoco. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, il primo ministro è venuto alla tv e se occorre i prefetti decideranno il coprifuoco. Il primo ministro, diversamente da Sarkozy, ha balbettato di qualche causa sociale cui però nessuno è in grado di opporre facili rimedi. Vero, i rimedi sono i posti di lavoro che in questa fascia sociale mancano fino al cinquanta per cento dei richiedenti di quella età, mancano scuole qualificate, mancano case che non siano casermoni, manca una rete associativa e, soprattutto, manca la fine della discriminazione che si sentono addosso.
Non si fa in un giorno quel che si è reso precario per anni. Ma questa precarizzazione cresce un poco di più tutti i giorni. Chi se la sente di dire che, salvo le dimensioni, questo non succede anche a Milano, Roma o Bologna? Non è il modello di integrazione sociale francese che va a pezzi, vanno a pezzi tutti i modelli di crescita inseguiti da vent'anni a questa parte in Europa, e cari ai riformisti, una crescita a basso costo del lavoro, se non senza lavoro e a tagli vigorosi di welfare. Un terzo della popolazione ne viene tagliata fuori, emarginata. E oggi è sufficientemente acculturata da non sopportarlo. E sufficientemente scettica davanti allo spettacolo della politica da non vedere via d'uscita. Questo è il modello che anche i nostri riformisti ci propongono, e che in tempi di stagnazione, se non di recessione, diventa una tagliola crudele. Perché le istituzioni se ne accorgano ci vogliono le fiamme e i morti. E quando se ne accorgono altro non sanno fare che mandare i carabinieri e affollare le galere.
ilmanifesto.it
Le periferie parigine sono in tumulto e Romano Prodi ha ammonito: le nostre non sono meno degradate. Forza Italia gli ha dato dell'incendiario. I sindaci gli hanno detto che no, le nostre sono diverse. Calderoli invece che sì, e bisogna cacciare gli immigrati. Pisanu non teme le periferie perché da noi il luogo del tumulto è la Val di Susa. L'opposizione ha obiettato «sì, ma». Adriano Sofri scrive arguzie sulle automobili. Ma Prodi ha ragione, variano soltanto le dimensioni, che non sono poca cosa. E' il grande agglomerato urbano che si è formato negli anni dell'espansione, alimentato dall'immigrazione interna ed esterna, che si separa in zone invalicabili, e più cresce più si separa per censo. La città europea è gerarchica. Attorno al nucleo dei signori si sono andati via via accumulando i poveri e i fragili. A Parigi il centro è dei signori e degli intellettuali che se lo possono permettere, oppure dei turisti, e resta governo, potere, cultura, arte, soldi. Lo circonda una grande fascia di gente assai per bene, come a Milano o a Roma, di quartieri borghesi che detestano i blocchi dormitorio che vengono per chilometri subito dopo, senza soluzione di continuità urbana, dove era una volta la cintura dei comuni rossi e fumavano le ciminiere delle grande aziende. Da essi si ritrae anche una quarta fascia di chi sarebbe disposto ad abitare luoghi più verdi, ma i comuni in cui arriva ancora qualche lembo di foresta si guardano bene dal costruire il venti per cento degli alloggi popolari che la legge prescrive (pena una multa di 150 euro) perché in questo caso la gente bene non ci verrebbe a stare. Quanto agli immigrati di ultimo arrivo non hanno quartiere, fanno gli squatter nelle case vecchie e disabitate dovunque siano, e succede come questa estate che vi muoiano per incendio nelle condoglianze di tutta la città. Questa la geografia di una capitale, ma non soltanto di Parigi.
E' la città tipica dell'Europa affluente, che oggi scricchiola. Il post industriale non ha bisogno di manodopera, i governi dismettono gli alloggi calmierati, e quelli che vi si trovano stentano a pagarsi gli affitti. Questa la geografia sociale che si può leggere nei blocchi ripetitivi di cemento, nella quantità di scuole che ci sono o non ci sono, degli insegnanti che ci vanno o non ci vanno, delle presenze o assenze di teatri, musei, locali, luoghi di cultura. Nella terza fascia il resto di Parigi non si inoltra mai. Chi vi era arrivato trenta o quaranta anni fa trovava lavoro e aveva qualche prospettiva, oggi i suoi rampolli non lo trovano, e non ne hanno nessuna. Sono nati in Francia, scolarizzati in Francia, parlano francese. Non frequentano né scuole né chiese né moschee, non amano una scuola che non gli promette nulla. Sono per le strade. In rottura con i genitori, che li rimproverano e con i quali il dialogo, ammesso che ci sia mai stato, è finito.
Sono in rottura con i simboli di quella ricchezza radiosa che li ammicca da tutte le parti, manifesti e tv, che gli è preclusa. Gli è venuta voglia di spaccarli tutti, non di spaccare tutto - sono dieci giorni che alcune periferie bruciano ma a nessuno viene in testa di prendere la Bastiglia. Sono indifferenti se quella che distruggono è l'auto o la motocicletta del vicino. Gareggiano, come l'età e il cinema vuole, fra quartiere e quartiere. Non hanno organizzazione, non è vero che siano infiltrati dalla criminalità della droga, più che non lo siano le periferie romana o milanese o torinese. Sono tagliati fuori dall'ascensore sociale, lo sanno e se lo sentono dire. Hanno cominciato con un solo slogan: «Rispetto, vogliamo rispetto». E quando il ministro degli interni li ha chiamati teppaglia è stato come versare benzina sul fuoco. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, il primo ministro è venuto alla tv e se occorre i prefetti decideranno il coprifuoco. Il primo ministro, diversamente da Sarkozy, ha balbettato di qualche causa sociale cui però nessuno è in grado di opporre facili rimedi. Vero, i rimedi sono i posti di lavoro che in questa fascia sociale mancano fino al cinquanta per cento dei richiedenti di quella età, mancano scuole qualificate, mancano case che non siano casermoni, manca una rete associativa e, soprattutto, manca la fine della discriminazione che si sentono addosso.
Non si fa in un giorno quel che si è reso precario per anni. Ma questa precarizzazione cresce un poco di più tutti i giorni. Chi se la sente di dire che, salvo le dimensioni, questo non succede anche a Milano, Roma o Bologna? Non è il modello di integrazione sociale francese che va a pezzi, vanno a pezzi tutti i modelli di crescita inseguiti da vent'anni a questa parte in Europa, e cari ai riformisti, una crescita a basso costo del lavoro, se non senza lavoro e a tagli vigorosi di welfare. Un terzo della popolazione ne viene tagliata fuori, emarginata. E oggi è sufficientemente acculturata da non sopportarlo. E sufficientemente scettica davanti allo spettacolo della politica da non vedere via d'uscita. Questo è il modello che anche i nostri riformisti ci propongono, e che in tempi di stagnazione, se non di recessione, diventa una tagliola crudele. Perché le istituzioni se ne accorgano ci vogliono le fiamme e i morti. E quando se ne accorgono altro non sanno fare che mandare i carabinieri e affollare le galere.
ilmanifesto.it
7.11.05
L'intervista allo storico Le Goff
"L'odio è soprattutto rivolto
contro la società e contro uno dei suoi simboli di successo"
"La rivolta di una generazione
che non ha più avvenire"
"Le colpe del governo sono enormi"
di PIETRO DEL RE
"Più che ai moti studenteschi del Sessantotto, la violenza dei ragazzi di banlieue mi fa pensare alla rivolta dei Ciompi che vide opporsi nella Firenze del Trecento i lavoratori tessili alla borghesia cittadina", dice Jacques Le Goff, grande medievalista, raffinato scrittore ed esperto conoscitore della storia d'Italia. "Mi vengono in mente anche le sommosse dei chartists, durante i primi movimenti operai nell'Inghilterra appena industrializzata". La conversazione di Le Goff spazia da jacqueries a sanguinosissime repressioni, da insurrezioni a teste mozzate. Poi però il celebre studioso comincia a sparare a zero sullo stato francese e sulle colpe del suo massimo rappresentante, il presidente Jacques Chirac, che definisce una "nullità politica". "Non è il governo di centrodestra che ha creato la situazione attuale, ma è lui che l'ha aggravata".
Professor Le Goff, come si è giunti a questa crisi?
"È una situazione latente, che cova sotto le ceneri da diversi anni. Perché è esplosa proprio adesso? Per via delle drammatiche condizioni economiche, sociali e culturali in cui si trovano questi giovani che non sono minimamente integrati e che non hanno avvenire".
Ma che cosa ha scatenato il caos?
"Vede, non è esatto sostenere che la polizia francese sia interamente razzista, però è innegabile che tra le sue forze ci sia un certo numero di uomini razzisti e violenti. Qualche giorno fa due giovani banlieusards sono morti durante gli scontri: ebbene, il ruolo della polizia in quell'incidente è rimasto oscuro. Poi ci sono state le dichiarazioni del ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy, che ha trattato questi giovani di racaille (feccia, ndr). Quest'ultimo fatto ha modificato lo stato d'animo dei rivoltosi, i quali adesso si sentono abbandonati e insieme disprezzati".
Quali soluzioni suggerisce per riportare la calma?
"Bisognerebbe anzitutto trovare un lavoro ai disoccupati per integrarli in quella società che vorrebbero distruggere. Ma questo mi sembra un obbiettivo difficilmente raggiungibile perché le politiche sociali del governo francese sono disastrose".
Crede che le scuse del ministro Sarkozy, richieste sia da parte dei rivoltosi sia dall'opposizione, servirebbero a placare gli animi?
"Credo che i problemi di rispetto e di disprezzo siano fondamentali. Del resto, la ricerca del perdono è diventata una consuetudine politica. Va di moda. Giovanni Paolo II ha chiesto scusa agli ebrei per le persecuzioni subite durante l'inquisizione. Chirac, e questo è un punto sul quale si è comportato correttamente, ha chiesto scusa per gli eccessi della colonizzazione francese, soprattutto in Algeria. Molti europei esigono dai turchi che questi chiedano scusa per il genocidio degli armeni. Detto ciò, non credo che basterebbe un "mi dispiace" pronunciato da Sarkozy per risolvere la crisi".
E allora come rispondere a tanta violenza?
"L'ostilità dei giovani è rivolta anzitutto contro la polizia, poi contro il governo, infine contro l'insieme della società. È per questo che, sia pure in modo inconsapevole, scatenano il loro odio contro uno dei simboli del successo nella nostra società: l'automobile. L'atto simbolico della rivolta è incendiare le macchine".
Quindi?
"Le colpe prima del governo Raffarin e poi di quello Villepin sono enormi, poiché hanno fatto scomparire quelle strutture che servivano a smussare le tensioni. Mi riferisco, per esempio, alla polizia di quartiere che aveva anche il compito di discutere con i giovani. Oggi, nelle banlieues esiste soltanto una "polizia di repressione". Sono stati anche cancellati molti ruoli di mediazione. Penso a quegli operatori sociali incaricati di far regnare una certa pace sociale creando forme di dialogo tra le comunità".
Sono "organizzati" questi giovani, come sostengono le autorità?
"Non credo. Si tratta piuttosto di fenomeni di contagio, di imitazione, che fanno sì che le violenze si propaghino all'interno della regione parigina".
Come andrà a finire?
"Sono ottimista e ma anche pessimista: ottimista perché non credo che si arriverà a una violenza generalizzata; pessimista perché le cause profonde del disagio di questi giovani dureranno ancora a lungo, almeno fino al 2007, ovvero fino a quando al potere ci sarà Chirac. Fino a quella data, lo stato sarà incapace di trovare soluzioni adeguate".
Da Rio a Nairobi e da Parigi a Roma? Crede che un giorno non troppo lontano si parlerà di mondializzazione della violenza nelle periferie?
"Può darsi. Ma al momento quello che accade nelle favelas brasiliane è molto diverso da quanto accade nelle banlieues parigine. Ma non possiamo escludere che queste differenze vadano assottigliandosi".
Non pensa che nell'era della televisione uno dei motivi che spingono alla devastazione e al saccheggio sia quello di apparire in video?
"Sicuramente. Credo tuttavia che nelle periferie parigine la violenza non sia un fine ma un mezzo: è lo strumento di rivendicazione per portare i problemi di una generazione sulla pubblica piazza".
contro la società e contro uno dei suoi simboli di successo"
"La rivolta di una generazione
che non ha più avvenire"
"Le colpe del governo sono enormi"
di PIETRO DEL RE
"Più che ai moti studenteschi del Sessantotto, la violenza dei ragazzi di banlieue mi fa pensare alla rivolta dei Ciompi che vide opporsi nella Firenze del Trecento i lavoratori tessili alla borghesia cittadina", dice Jacques Le Goff, grande medievalista, raffinato scrittore ed esperto conoscitore della storia d'Italia. "Mi vengono in mente anche le sommosse dei chartists, durante i primi movimenti operai nell'Inghilterra appena industrializzata". La conversazione di Le Goff spazia da jacqueries a sanguinosissime repressioni, da insurrezioni a teste mozzate. Poi però il celebre studioso comincia a sparare a zero sullo stato francese e sulle colpe del suo massimo rappresentante, il presidente Jacques Chirac, che definisce una "nullità politica". "Non è il governo di centrodestra che ha creato la situazione attuale, ma è lui che l'ha aggravata".
Professor Le Goff, come si è giunti a questa crisi?
"È una situazione latente, che cova sotto le ceneri da diversi anni. Perché è esplosa proprio adesso? Per via delle drammatiche condizioni economiche, sociali e culturali in cui si trovano questi giovani che non sono minimamente integrati e che non hanno avvenire".
Ma che cosa ha scatenato il caos?
"Vede, non è esatto sostenere che la polizia francese sia interamente razzista, però è innegabile che tra le sue forze ci sia un certo numero di uomini razzisti e violenti. Qualche giorno fa due giovani banlieusards sono morti durante gli scontri: ebbene, il ruolo della polizia in quell'incidente è rimasto oscuro. Poi ci sono state le dichiarazioni del ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy, che ha trattato questi giovani di racaille (feccia, ndr). Quest'ultimo fatto ha modificato lo stato d'animo dei rivoltosi, i quali adesso si sentono abbandonati e insieme disprezzati".
Quali soluzioni suggerisce per riportare la calma?
"Bisognerebbe anzitutto trovare un lavoro ai disoccupati per integrarli in quella società che vorrebbero distruggere. Ma questo mi sembra un obbiettivo difficilmente raggiungibile perché le politiche sociali del governo francese sono disastrose".
Crede che le scuse del ministro Sarkozy, richieste sia da parte dei rivoltosi sia dall'opposizione, servirebbero a placare gli animi?
"Credo che i problemi di rispetto e di disprezzo siano fondamentali. Del resto, la ricerca del perdono è diventata una consuetudine politica. Va di moda. Giovanni Paolo II ha chiesto scusa agli ebrei per le persecuzioni subite durante l'inquisizione. Chirac, e questo è un punto sul quale si è comportato correttamente, ha chiesto scusa per gli eccessi della colonizzazione francese, soprattutto in Algeria. Molti europei esigono dai turchi che questi chiedano scusa per il genocidio degli armeni. Detto ciò, non credo che basterebbe un "mi dispiace" pronunciato da Sarkozy per risolvere la crisi".
E allora come rispondere a tanta violenza?
"L'ostilità dei giovani è rivolta anzitutto contro la polizia, poi contro il governo, infine contro l'insieme della società. È per questo che, sia pure in modo inconsapevole, scatenano il loro odio contro uno dei simboli del successo nella nostra società: l'automobile. L'atto simbolico della rivolta è incendiare le macchine".
Quindi?
"Le colpe prima del governo Raffarin e poi di quello Villepin sono enormi, poiché hanno fatto scomparire quelle strutture che servivano a smussare le tensioni. Mi riferisco, per esempio, alla polizia di quartiere che aveva anche il compito di discutere con i giovani. Oggi, nelle banlieues esiste soltanto una "polizia di repressione". Sono stati anche cancellati molti ruoli di mediazione. Penso a quegli operatori sociali incaricati di far regnare una certa pace sociale creando forme di dialogo tra le comunità".
Sono "organizzati" questi giovani, come sostengono le autorità?
"Non credo. Si tratta piuttosto di fenomeni di contagio, di imitazione, che fanno sì che le violenze si propaghino all'interno della regione parigina".
Come andrà a finire?
"Sono ottimista e ma anche pessimista: ottimista perché non credo che si arriverà a una violenza generalizzata; pessimista perché le cause profonde del disagio di questi giovani dureranno ancora a lungo, almeno fino al 2007, ovvero fino a quando al potere ci sarà Chirac. Fino a quella data, lo stato sarà incapace di trovare soluzioni adeguate".
Da Rio a Nairobi e da Parigi a Roma? Crede che un giorno non troppo lontano si parlerà di mondializzazione della violenza nelle periferie?
"Può darsi. Ma al momento quello che accade nelle favelas brasiliane è molto diverso da quanto accade nelle banlieues parigine. Ma non possiamo escludere che queste differenze vadano assottigliandosi".
Non pensa che nell'era della televisione uno dei motivi che spingono alla devastazione e al saccheggio sia quello di apparire in video?
"Sicuramente. Credo tuttavia che nelle periferie parigine la violenza non sia un fine ma un mezzo: è lo strumento di rivendicazione per portare i problemi di una generazione sulla pubblica piazza".
Il rap dell'illegalità nelle nostre città
Alle volte il diavolo dell'illegalità si nasconde nei dettagli. Sentite questa: la Federcalcio vorrebbe giocare un amichevole della Nazionale a Firenze, in ricordo di Ferruccio Valcareggi. Ma non può. Non il sindaco, non il governatore, non il consiglio comunale o quelle regionale, non il presidente della Fiorentina negano il permesso, ma i capi dei club ultrà dei tifosi.
«E' una decisione irresponsabile, chi la prende se ne assume tutte le responsabilità, non siamo in grado di gestire una situazione così a rischio», comunicano Marzio Brazzini, del Gruppo Storico, e Stefano Sartoni, del Collettivo. Detenendo il monopolio della violenza allo stadio e intorno allo stadio, gli ultrà perpetuano il bando all'azzurro che per vecchie ruggini con Carraro dura ormai da dodici anni. Dunque abbiamo una grande città italiana off limits per la Nazionale. Le «no go areas», luoghi pubblici dai quali la legge dello Stato è esclusa, non si trovano solo nella banlieu parigina, anche se non sempre bruciano.
La cosa singolare è che se chiedete a un cittadino di sinistra, ben educato ai valori della Weltanschauung democratica, diciamo a un Sansonetti, un giudizio sul caso di Firenze, vi risponderà che è un assurdo, un sopruso e uno scandalo. Allo stesso modo quel Sansonetti sarebbe pronto a manifestare perché la legalità si affermi ogni qual volta riguardi Previti, i processi a Berlusca, la 'ndrangheta o la mafia, ma si ribella se si applica a un centro sociale. In Sicilia il Sansonetti è pronto a votare la sorella di un magistrato in nome della legalità, ma a Milano storce il naso se deve votare un prefetto. Se a stringere di assedio la Camera dei Deputati fossero stati dei giovani fascisti, non avrebbe esitato a chiedere l'intervento della forza pubblica, che ha deplorato trattandosi di giovani di sinistra. E' deciso a smantellare i centri di permanenza temporanea degli immigrati clandestini perché sono dei lager, ma non è disposto a smantellare le baraccopoli di clandestini sul Lungoreno, che erano un lager per giunta abusivo.
Il buon cittadino di sinistra cerca la causa sociale dell'illegalità, o la Causa politica ideale: se la trova, è disposto a chiudere un occhio. Chi si ribella, deve essere un emarginato; chi insorge, deve essere un oppresso. I deboli hanno solo diritti, lo Stato solo doveri. La responsabilità individuale è sempre secondaria di fronte alla colpa della Società. Nel frattempo che non cambia la Società, si può solo dialogare, solidarizzare, comprendere. La repressione dell'illegalità è rimozione dell'effetto, non della causa: perciò o è inutile o è dannosa.
Il buon cittadino di sinistra si interroga sui casseurs di Parigi, vuol capirne le motivazioni sociologiche, etniche, generazionali. Non si chiede però di chi sono le 24 mila auto bruciate in un anno. Si deve presumere che appartengano ad altri deboli, se vivono negli stessi ghetti dei maghrebini. Nel centro di Parigi non vola una mosca, i turisti fanno shopping natalizio, gli chauffeur portano le signore ai beauty center. Dovunque c'è una illegalità, c'è un debole che ne paga il prezzo. I forti, i ricchi, i protetti possono tranquillamente infischiarsene.
Così imbevuto di ideologia, il buon cittadino di sinistra non vede l'ideologia nell'occhio iniettato di sangue di chi odia anche lui. Guai a dire che i rivoltosi di Parigi sono islamici, anche se lo sono. Guai a parlare di generazione Jihad, nella quale la guerra santa si fa personale e individuale, perché offre una ideologia allo spaesamento culturale, alla discriminazione sociale, al conflitto generazionale, e trasforma la diversità da umiliazione in orgoglio. Per essere politicamente corretti bisogna negare che l'islam sia diventato il nuovo rap dei ghetti d'Europa. Bisogna negare l'esistenza di un conflitto identitario, e cavarsela con la storia dell'emarginazione, come se tutti gli emarginati del mondo assaltassero gli autobus di notte.
Perché ragionando altrimenti si arriverebbe al colmo del politicamente scorretto. Bisognerebbe dirsi che le risposte della superiore civiltà europea, siano esse integrazioniste alla francese o comunitarie all'inglese, stanno fallendo. Bisognerebbe dire che l'America è meglio. Bisognerebbe rivalutare le politiche delle quote, della «discriminazione positiva», dell'«affermative action», che la sinistra americana inventava negli anni Settanta mentre la sinistra europea sfilava per la rivoluzione. Non ci possiamo chiedere perché il ministro degli Esteri degli Stati Uniti è una donna, nera, dell'Alabama, e quello precedente era un uomo, nero, repubblicano; mentre nelle scuole francesi d'élite come l'Ena e il Polythecnique, tanto care alla sinistra nostrana, gli studenti maghrebini sono come le mosche bianche. Bisognerebbe prendere atto che retorica, buonismo e tolleranza non valgono una efficace legge contro la discriminazione. Perché non c'è progresso senza legge e dunque non c'è cura dell'illegalità che non cominci dalla sua repressione.
«E' una decisione irresponsabile, chi la prende se ne assume tutte le responsabilità, non siamo in grado di gestire una situazione così a rischio», comunicano Marzio Brazzini, del Gruppo Storico, e Stefano Sartoni, del Collettivo. Detenendo il monopolio della violenza allo stadio e intorno allo stadio, gli ultrà perpetuano il bando all'azzurro che per vecchie ruggini con Carraro dura ormai da dodici anni. Dunque abbiamo una grande città italiana off limits per la Nazionale. Le «no go areas», luoghi pubblici dai quali la legge dello Stato è esclusa, non si trovano solo nella banlieu parigina, anche se non sempre bruciano.
La cosa singolare è che se chiedete a un cittadino di sinistra, ben educato ai valori della Weltanschauung democratica, diciamo a un Sansonetti, un giudizio sul caso di Firenze, vi risponderà che è un assurdo, un sopruso e uno scandalo. Allo stesso modo quel Sansonetti sarebbe pronto a manifestare perché la legalità si affermi ogni qual volta riguardi Previti, i processi a Berlusca, la 'ndrangheta o la mafia, ma si ribella se si applica a un centro sociale. In Sicilia il Sansonetti è pronto a votare la sorella di un magistrato in nome della legalità, ma a Milano storce il naso se deve votare un prefetto. Se a stringere di assedio la Camera dei Deputati fossero stati dei giovani fascisti, non avrebbe esitato a chiedere l'intervento della forza pubblica, che ha deplorato trattandosi di giovani di sinistra. E' deciso a smantellare i centri di permanenza temporanea degli immigrati clandestini perché sono dei lager, ma non è disposto a smantellare le baraccopoli di clandestini sul Lungoreno, che erano un lager per giunta abusivo.
Il buon cittadino di sinistra cerca la causa sociale dell'illegalità, o la Causa politica ideale: se la trova, è disposto a chiudere un occhio. Chi si ribella, deve essere un emarginato; chi insorge, deve essere un oppresso. I deboli hanno solo diritti, lo Stato solo doveri. La responsabilità individuale è sempre secondaria di fronte alla colpa della Società. Nel frattempo che non cambia la Società, si può solo dialogare, solidarizzare, comprendere. La repressione dell'illegalità è rimozione dell'effetto, non della causa: perciò o è inutile o è dannosa.
Il buon cittadino di sinistra si interroga sui casseurs di Parigi, vuol capirne le motivazioni sociologiche, etniche, generazionali. Non si chiede però di chi sono le 24 mila auto bruciate in un anno. Si deve presumere che appartengano ad altri deboli, se vivono negli stessi ghetti dei maghrebini. Nel centro di Parigi non vola una mosca, i turisti fanno shopping natalizio, gli chauffeur portano le signore ai beauty center. Dovunque c'è una illegalità, c'è un debole che ne paga il prezzo. I forti, i ricchi, i protetti possono tranquillamente infischiarsene.
Così imbevuto di ideologia, il buon cittadino di sinistra non vede l'ideologia nell'occhio iniettato di sangue di chi odia anche lui. Guai a dire che i rivoltosi di Parigi sono islamici, anche se lo sono. Guai a parlare di generazione Jihad, nella quale la guerra santa si fa personale e individuale, perché offre una ideologia allo spaesamento culturale, alla discriminazione sociale, al conflitto generazionale, e trasforma la diversità da umiliazione in orgoglio. Per essere politicamente corretti bisogna negare che l'islam sia diventato il nuovo rap dei ghetti d'Europa. Bisogna negare l'esistenza di un conflitto identitario, e cavarsela con la storia dell'emarginazione, come se tutti gli emarginati del mondo assaltassero gli autobus di notte.
Perché ragionando altrimenti si arriverebbe al colmo del politicamente scorretto. Bisognerebbe dirsi che le risposte della superiore civiltà europea, siano esse integrazioniste alla francese o comunitarie all'inglese, stanno fallendo. Bisognerebbe dire che l'America è meglio. Bisognerebbe rivalutare le politiche delle quote, della «discriminazione positiva», dell'«affermative action», che la sinistra americana inventava negli anni Settanta mentre la sinistra europea sfilava per la rivoluzione. Non ci possiamo chiedere perché il ministro degli Esteri degli Stati Uniti è una donna, nera, dell'Alabama, e quello precedente era un uomo, nero, repubblicano; mentre nelle scuole francesi d'élite come l'Ena e il Polythecnique, tanto care alla sinistra nostrana, gli studenti maghrebini sono come le mosche bianche. Bisognerebbe prendere atto che retorica, buonismo e tolleranza non valgono una efficace legge contro la discriminazione. Perché non c'è progresso senza legge e dunque non c'è cura dell'illegalità che non cominci dalla sua repressione.
3.11.05
Fiaccole romane
ROSSANA ROSSANDA
Cominciamo con l'eliminare le bassezze. Un esponente della comunità ebraica romana ha dichiarato che chiunque non sarà al suo fianco a manifestare davanti all'ambasciata dell'Iran giovedì sera non soltanto è nemico di Israele ma di tutti gli ebrei, e deve sapere che sarà tenuto sotto osservazione. Il saggio amico Amos Luzzatto ha cercato di rimediare osservando che qualcuno sarà impedito di esserci perché ammalato o all'estero. Io sono in questa condizione. E però non a Pacifici, che una volta mi ha additato come terrorista alle sassate dei suoi seguaci, ma a Luzzatto voglio dire che non sarei andata alla fiaccolata neanche se fossi a Roma e sana come un pesce. Primo, perché nessuno mi farà andare o non andare a una manifestazione sotto minaccia di essere schedata, e non preciserò che cosa questo mi ricordi; secondo, perché non vedo ragioni di essere a fianco di Calderoli e di Fini e sotto l'egida del Foglio. E con ciò chiuso. Che qualcuno della comunità ebraica possa definirmi per questo antisemita è un problema della medesima comunità. Delle intemperanze del Foglio, che sta varcando il limite tra provocazione e stupidità, non meriterebbe parlare se troppi e troppe non fossero frementi di frequentarne la scena. E veniamo alle cose serie. Politicamente grave è stata l'uscita di Ahmadinejad sulla necessità di cancellare Israele dalla carta geografica, e miserrimo il rattoppo: «Ma non sarà l'Iran a cominciare, e del resto sono cose che Khomeini e Khamenei hanno detto per vent'anni». Grave che una folla di giovani e meno giovani e financo di donne, trattate come sono da quel regime, si sia inebriata per le strade di Tehran di questa minaccia simbolica.
Perché è un mero simbolo, ancorché pessimo. Non solo Israele è uno degli stati più difesi, più armati e per certi versi più aggressivi del mondo, e quindi non è certo messa in pericolo dall'Iran, ma quel che gli ebrei hanno subito nel `900 fa dell'esistenza di una terra loro, dove non possano mai sentirsi perseguitati o indesiderati, il minimo che l'umanità deve a se stessa. Se c'è qualcosa da cancellare è l'incapacità di molte comunità della diaspora di liberarsi dal senso di essere in un ghetto, di essere isolata e perseguitata, e la parallela incapacità di Israele di presentarsi come in stato d'assedio e quindi di agire in modo conseguente per uscire da quel conflitto in medioriente, nel quale sia ebrei sia palestinesi, spossessati della loro terra, hanno perduto troppe vite e stanno dando il peggio di sé. Non è vero che un forsennato presidente iraniano voglia cancellare lo stato di Israele mente il saggio Sharon riconosce pienamente l'esistenza di uno stato palestinese. Ambedue rifiutano di riconoscersi, si rilanciano minacce di sterminio che fortunatamente non possono mettere in atto, svicolano dai loro problemi reali e danno corda ai reciproci fondamentalismi.
Su questo l'appello a partecipare al presidio di giovedì non dice né solo né tutta la verità. E' una manovra che fa comodo alla destra, viene da uno dei suoi uomini, pretende di misurare la temperatura democratica della sinistra di fronte a uno dei problemi più dolorosi del tempo nostro. Soprattutto è una misera cosa davanti al vero problema di civiltà dal quale è impossibile stornare ormai lo sguardo. Da tutte le parti del mondo ci viene infatti un'analoga immagine: al venir meno di un conflitto civilizzato come è stata e vissuta nel `900 la lotta di classe e quella di emancipazione dei popoli, sono conseguite da parte della sinistra l'abbandono di ogni principio, e nei paesi terzi la retrocessione dalla emancipazione all'identità di sangue e terra. E' giocoforza constatare che alla fine di un messianesimo terrestre per ingenuo che fosse, dai primi illuministi all'ambizione di creare un soggetto sociale rivoluzionario internazionalista, è sopravvenuta non altro che una regressione dell'una e dell'altra molto al di qua del punto da cui si era partiti.
La fine dei laicismi arabi è una catastrofe per quei paesi: davvero solo gli ayatollah potevano liberare l'Iran dalla modernità poliziesca e filoamericana dello scià? Davvero solo la disperazione dei kamikaze può ormai far fronte a Sharon? O Al Qaeda e la sue ramificazioni al venire meno di ogni progressismo arabo? E sono lo sette fondamentaliste, musulmane o indu, che si danno reciprocamente fuoco ma convincono e spesso organizzano i reietti della crescita indiana. Ma anche in occidente sembra che alla mera forza della tecnica del mercato non possa opporsi che la mera visceralità. Non è questa che ha dato spazio negli Stati Uniti ai neocons, in Francia a Le Pen, a Bossi in Italia, ai Kaczynski in Polonia, e si potrebbe continuare? Il modello occidentale trionfante moltiplica i reietti, e i reietti non sono - su questo ha ragione Dahrendorf - il terreno delle rivoluzioni. Sono terreno del populismo. Così quel che potrebbe essere stato, anche nel caso del presidente iraniano, un dibattito serio nel conflitto politico italiano degenera di colpo in una brutta commedia. Bisognerà pure che qualcuno si decida a dirlo.
ilmanifesto.it
Cominciamo con l'eliminare le bassezze. Un esponente della comunità ebraica romana ha dichiarato che chiunque non sarà al suo fianco a manifestare davanti all'ambasciata dell'Iran giovedì sera non soltanto è nemico di Israele ma di tutti gli ebrei, e deve sapere che sarà tenuto sotto osservazione. Il saggio amico Amos Luzzatto ha cercato di rimediare osservando che qualcuno sarà impedito di esserci perché ammalato o all'estero. Io sono in questa condizione. E però non a Pacifici, che una volta mi ha additato come terrorista alle sassate dei suoi seguaci, ma a Luzzatto voglio dire che non sarei andata alla fiaccolata neanche se fossi a Roma e sana come un pesce. Primo, perché nessuno mi farà andare o non andare a una manifestazione sotto minaccia di essere schedata, e non preciserò che cosa questo mi ricordi; secondo, perché non vedo ragioni di essere a fianco di Calderoli e di Fini e sotto l'egida del Foglio. E con ciò chiuso. Che qualcuno della comunità ebraica possa definirmi per questo antisemita è un problema della medesima comunità. Delle intemperanze del Foglio, che sta varcando il limite tra provocazione e stupidità, non meriterebbe parlare se troppi e troppe non fossero frementi di frequentarne la scena. E veniamo alle cose serie. Politicamente grave è stata l'uscita di Ahmadinejad sulla necessità di cancellare Israele dalla carta geografica, e miserrimo il rattoppo: «Ma non sarà l'Iran a cominciare, e del resto sono cose che Khomeini e Khamenei hanno detto per vent'anni». Grave che una folla di giovani e meno giovani e financo di donne, trattate come sono da quel regime, si sia inebriata per le strade di Tehran di questa minaccia simbolica.
Perché è un mero simbolo, ancorché pessimo. Non solo Israele è uno degli stati più difesi, più armati e per certi versi più aggressivi del mondo, e quindi non è certo messa in pericolo dall'Iran, ma quel che gli ebrei hanno subito nel `900 fa dell'esistenza di una terra loro, dove non possano mai sentirsi perseguitati o indesiderati, il minimo che l'umanità deve a se stessa. Se c'è qualcosa da cancellare è l'incapacità di molte comunità della diaspora di liberarsi dal senso di essere in un ghetto, di essere isolata e perseguitata, e la parallela incapacità di Israele di presentarsi come in stato d'assedio e quindi di agire in modo conseguente per uscire da quel conflitto in medioriente, nel quale sia ebrei sia palestinesi, spossessati della loro terra, hanno perduto troppe vite e stanno dando il peggio di sé. Non è vero che un forsennato presidente iraniano voglia cancellare lo stato di Israele mente il saggio Sharon riconosce pienamente l'esistenza di uno stato palestinese. Ambedue rifiutano di riconoscersi, si rilanciano minacce di sterminio che fortunatamente non possono mettere in atto, svicolano dai loro problemi reali e danno corda ai reciproci fondamentalismi.
Su questo l'appello a partecipare al presidio di giovedì non dice né solo né tutta la verità. E' una manovra che fa comodo alla destra, viene da uno dei suoi uomini, pretende di misurare la temperatura democratica della sinistra di fronte a uno dei problemi più dolorosi del tempo nostro. Soprattutto è una misera cosa davanti al vero problema di civiltà dal quale è impossibile stornare ormai lo sguardo. Da tutte le parti del mondo ci viene infatti un'analoga immagine: al venir meno di un conflitto civilizzato come è stata e vissuta nel `900 la lotta di classe e quella di emancipazione dei popoli, sono conseguite da parte della sinistra l'abbandono di ogni principio, e nei paesi terzi la retrocessione dalla emancipazione all'identità di sangue e terra. E' giocoforza constatare che alla fine di un messianesimo terrestre per ingenuo che fosse, dai primi illuministi all'ambizione di creare un soggetto sociale rivoluzionario internazionalista, è sopravvenuta non altro che una regressione dell'una e dell'altra molto al di qua del punto da cui si era partiti.
La fine dei laicismi arabi è una catastrofe per quei paesi: davvero solo gli ayatollah potevano liberare l'Iran dalla modernità poliziesca e filoamericana dello scià? Davvero solo la disperazione dei kamikaze può ormai far fronte a Sharon? O Al Qaeda e la sue ramificazioni al venire meno di ogni progressismo arabo? E sono lo sette fondamentaliste, musulmane o indu, che si danno reciprocamente fuoco ma convincono e spesso organizzano i reietti della crescita indiana. Ma anche in occidente sembra che alla mera forza della tecnica del mercato non possa opporsi che la mera visceralità. Non è questa che ha dato spazio negli Stati Uniti ai neocons, in Francia a Le Pen, a Bossi in Italia, ai Kaczynski in Polonia, e si potrebbe continuare? Il modello occidentale trionfante moltiplica i reietti, e i reietti non sono - su questo ha ragione Dahrendorf - il terreno delle rivoluzioni. Sono terreno del populismo. Così quel che potrebbe essere stato, anche nel caso del presidente iraniano, un dibattito serio nel conflitto politico italiano degenera di colpo in una brutta commedia. Bisognerà pure che qualcuno si decida a dirlo.
ilmanifesto.it
1.11.05
Nel cuore di ogni romanzo un palpito di orrore
Non c'è narrativa senza fantasmi, siano essi creature soprannaturali o esseri dotati di consistenza reale. Ultimi titoli nel segno dell'orrore, Lunar Park di Bret Easton Ellis, e Casa di foglie di Mark Danielewski. A proposito, buona Halloween
TOMMASO PINCIO
Chi non ha presente quelle ragazze dal seno prosperoso che dopo essersi appartate nei boschi per fare sesso si ritrovano con il fidanzato sbudellato e un mostruoso maniaco armato di motosega seriamente intenzionato a fare scempio del loro appetitoso corpicino? Stiamo parlando, tanto per essere chiari, di quelle incaute ragazze che costituiscono un ingrediente base di certi sanguinolenti film senza troppe pretese. Ebbene, quelle ragazze non devono trarre in inganno. Il romanzo dell'orrore non è un genere letterario così popolare e dozzinale come potrebbe sembrare. Quantomeno non lo è sempre stato. Il romanzo dell'orrore ha nobili e ambiziose origini; origini a tal punto intrecciate alla nascita del romanzo tout court da farne il cuore della narrativa così come ancora oggi la conosciamo. Letteratura gotica e forma romanzesca si sono affacciate sulla scena più o meno simultaneamente nell'Inghilterra di fine Settecento. Anche volendo ignorare il fattore comunque rilevante del livello generale di istruzione, nella ormai lontana epoca dei lumi e della fede assoluta nella ragione i libri non erano affatto roba alla portata di tutti. Per la stragrande maggioranza della popolazione, l'acquisto di un romanzo di Ann Radcliffe o Matthew Gregory Lewis, gli Stephen King di allora, rappresentava un'impresa quasi impossibile sul piano finanziario. Il costo medio di un volume si aggirava intorno ai tre scellini ovvero quel che riuscivano a mettersi in tasca operai e domestici in una settimana di duro lavoro. Spesso, poi, le opere di narrativa constavano di tre tomi se non più, il che li rendeva inavvicinabili perfino ad artigiani e piccoli commercianti i quali avrebbero dovuto fare mesi e mesi di economie se mai avessero voluto diventare proprietari di un romanzo completo.
I sentimenti cercano riscatto
Ma i prezzi proibitivi non costituivano l'unico limite. La complessa prosa con cui si esprimevano gli autori gotici presupponeva conoscenze molto superiori alla semplice alfabetizzazione. I romanzi di allora contenevano come niente fosse allusioni e riferimenti alla cultura classica e a Shakespeare. Pure il Frankenstein di Mary Shelley, sebbene più accessibile e pubblicato in epoca leggermente più tarda, è un testo la cui piena comprensione è tutt'altro che immediata. Ovviamente esistevano notevoli differenze tra le esotiche storie di castelli infestati da fantasmi e i romanzi di ambientazione più realistica, differenze che dovevano certamente avere il loro peso visto che il tempo ha finito con il trasformare il racconto dell'orrore in un genere minore. Ciò nonostante, queste differenze si relativizzano alquanto se soltanto si guarda al sentimentalismo di cui nessuna opera romanzesca, nemmeno la più alta, può dirsi del tutto scevra. Forse è soltanto un'ipotesi ancora da dimostrare, ma molte cose fanno pensare che il romanzo sia nato e si sia affermato come una sorta di compensazione per ciò che scienza e rivoluzione industriale andavano sottraendo all'animo umano. Quello di fine Settecento era un mondo nuovo dove i sentimenti cominciavano a essere sacrificati sugli altari del progresso e della ragione. Ma proprio per questo, proprio perché mortificati e compressi, sentimenti e emozioni si fecero ancor più evidenti e necessitarono di essere affermati e descritti. Sentimenti ed emozioni chiesero dignità e risarcimento, reclamarono un loro spazio, un luogo organizzato sì con raziocinio e pragmatismo - come si conveniva al mutato segno dei tempi - ma dove, comunque, fosse loro riconosciuto un valore irrinunciabile in quanto strumento di conoscenza, un luogo dove magari fosse anche possibile trovare una qualche armonia con i ben più algidi strumenti del nuovo mondo.
Questo anelito non si è affatto estinto e ancora oggi, per un verso o per l'altro, il cosiddetto «mainstream» di ambientazione realistica può essere considerato alla stregua di un romanzo sentimentale, e dunque di genere. Il che implica un'altra considerazione: ovvero che, per un verso o per l'altro, qualsiasi forma romanzesca presuppone la letteratura di genere e in una certa misura inevitabilmente vi tende. Non è dunque così assurdo affermare che tutti i romanzi sono, ciascuno a suo modo, romanzi dell'orrore. Ma l'orrore non è soltanto il capostipite di ogni genere, dal poliziesco al fantascientifico. È molto di più. Perché è in sentimenti di orrore e di angoscia che piomba l'animo umano ogni qualvolta viene messo alla prova da pulsioni ed emozioni che trascendono l'assunto per cui la ragione è la strada maestra di giustizia e verità. Alla resa dei conti l'orrore è dunque il cuore tenebroso che batte nell'intimo di tutta la letteratura di stampo romanzesco; un cuore che può rivelarsi estremamente rivelatore, per dirla con un celebre racconto di Edgar Alla Poe.
Non è certamente un caso, se i protagonisti dei romanzi più riusciti di Stephen King sono perlopiù scrittori. Anzi, a ben guardare non sono nemmeno loro i veri protagonisti, bensì il puro atto di scrivere. Perché il protagonista di Shining si scopra in tutta la sua follia omicida deve scrivere un romanzo. Ed è sempre per via dei suoi romanzi se lo scrittore di Misery si ritrova prigioniero di un incubo, ovvero di una lettrice letteralmente pazza di lui. Similmente, è meno che mai un caso il fatto che un romanzo indiscutibilmente «mainstream» di recente pubblicazione sia al contempo una sinistra caricatura del suo autore e un implicito tributo all'opera di Stephen King.
In Lunar Park (Einaudi, traduzione di Giuseppe Culicchia, pp. 332, 18) Breat Easton Ellis sollecita l'ingranaggio più oliato e consolidato della forma romanzesca - l'ambientazione realistica - fino al punto di farlo implodere. Qui non si tratta più di uno scrittore che racconta di un verosimile scrittore qualunque; qui lo scrittore di successo Breat Easton Ellis ha eletto quale protagonista del suo nuovo romanzo nientemeno che «lo scrittore di successo Breat Easton Ellis» in persona. Le coincidenze tra lo scrittore e il suo doppio rasentano la specularità assoluta. L'Ellis personaggio è l'autore degli stessi romanzi dell'Ellis reale, come altrettanto reali sono le sue frequentazioni - l'amico rivale Jay McInerney, l'agente Binky Urban, l'editor Gary Fisketjon. Anche alcuni importanti lati privati sono fedelmente rappresentati, a cominciare dai conflitti con il padre cui il romanzo è dedicato. Il lettore si troverebbe dunque di fronte a una confessione dell'autore non fosse per il fatto che in Lunar Park Ellis si descrive sposato a una stella del cinema e padre di famiglia, due dettagli nient'affatto marginali che però non corrispondono al vero: elementi fittizi che costituiscono le premesse per un deragliamento nell'irrealtà. Dopo una festa di Halloween, in casa Ellis iniziano infatti a verificarsi strani e terrificanti fenomeni che volgono il romanzo in un tripudio di citazioni cinematografiche, in una storia dell'orrore che scimmiotta i cliché più tipici del genere. Quella che in un primo momento sembrava essere una confessione si rivela così la verità ridotta a teatrino. Qual è lo scopo di un meccanismo così perverso? Se questo fosse un romanzo dell'orrore come tanti altri, si potrebbe pensare che l'autore abbia semplicemente esaltato un espediente fondamentale del genere: partire da un forte dato di realtà per rendere verosimile l'irruzione nel quotidiano di eventi poco o nulla credibili. Ma siccome questo è un romanzo dell'orrore firmato Breat Easton Ellis è ancor più lecito concludere che la compenetrazione di verità e invenzione serve, in effetti, a mettere in piedi una sofisticata sciarada. Quale delle due, quindi? Ebbene, né l'una né l'altra. O meglio, entrambe le due ipotesi sono valide purché una non escluda l'altra.
Se Ellis riempie il suo romanzo di creature rubate all'immaginario orrorifico più popolare è per dare consistenza narrativa ai fantasmi che lo tormentano nella vita reale; in particolare ai fantasmi del padre e a quello del romanzo che lo ha reso famoso. Padre e romanzo sono però strettamente connessi perché Patrick Bateman, il folle omicida di American Psycho, è stato modellato sul carattere Robert Martin Ellis, il padre dello scrittore. Alla resa dei conti, il fantasma è dunque uno soltanto: il passato con cui Ellis non ha fatto i conti se non per le vie traverse della finzione e che ora bussa alla porta per vendicarsi, trasformando angosce e tormenti dello scrittore nella caricatura di un film dell'orrore. In Lunar Park Ellis ribalta le fondamenta su cui era edificata la letteratura gotica degli inizi, stravolgendo in maniera quasi impercettibile la regola in base alla quale l'irruzione soprannaturale nel reale serve a ridare voce a sentimenti ed emozioni oppressi da un raziocino imperante. Ellis sa bene che nel nostro tempo l'industria dell'intrattenimento ci ha chiuso in una gabbia di sentimenti ed emozioni sempre più preconfezionati; sa che sono proprio quelle creature della finzione nate per regalarci rigeneranti evasioni e catarsi a renderci sempre più prigionieri di un patetico simulacro di noi stessi; sa che oggi non sono più le nostre case a essere minacciate da un'infestazione di fantasmi ma che siamo noi a infestare le loro, un po' come avviene in quel film straordinario che è The Others di Alejandro Amenàbar. Un po' come avviene anche in Lunar Park, dove il fantasma del vero Breat Easton Ellis irrompe nell'edificio romanzesco seminando inquietudine, facendo scricchiolare sinistramente i capisaldi della storia di finzione ad ambientazione realistica. Con questo libro, a oggi il suo più audace e rischioso, Ellis non si è limitato a dipingere un ritratto impietoso di ciò che di irrisolto c'è nel suo passato; è tornato pure alle gotiche origini del romanzo, dimostrando che ogni romanzo è, per un verso o per l'altro, un racconto dell'orrore.
Un percorso simile è quello seguito da Mark Danielewski nella sua prova d'esordio, frutto di dieci anni di lavoro. Non è difficile capire perché la critica statunitense abbia definito Casa di foglie (Mondadori, traduzione di Anzelmo, Brugnatelli e Strazzeri, pp. 814, 22) «il più importante romanzo sperimentale del nuovo millennio». Nella sua più che considerevole mole trovano infatti posto l'utilizzo alternato di una mezza dozzina di caratteri tipografici diversi, quattrocentocinquanta note, svariate liste, citazioni di ogni sorta da Omero a Stanley Kubrick, una bibliografia, tre appendici, alcune illustrazioni, un indice e molto altro ancora. Un simile mastodontico impianto sarebbe più che sufficiente per richiamare alla mente David Foster Wallace e dintorni, ma costituisce soltanto una faccia del labirinto. L'altra è data da una fitta trama di scatole di cinesi nella quale perdersi è quasi inevitabile.
Quel che racconta «Casa di foglie»
Riassumendo, abbiamo un giovanotto di nome Johnny Truant che lavora in un negozio di tatuaggi a Los Angeles. Costui trova un voluminoso manoscritto nell'appartamento di un certo Zampanò, un vecchio cieco morto da poco. Incuriosito, decide di portarselo a casa e nel leggerlo scopre che si tratta di una densa dissertazione critica su un film documentario nel quale il fotoreporter Will Navidson racconta la raccapricciante storia di ciò che è accaduto a lui e alla sua famiglia dopo il trasferimento in una casa in Virginia. Il testo di Zampanò si rivela oltremodo confusionario, del resto si tratta pur sempre di un cieco che scrive di un film, una incongruenza assoluta. Ciò nonostante Johnny ne rimane prima irretito, poi letteralmente ossessionato. Le sue notti cominciano a popolarsi di incubi tremendi, mentre di giorno non riesce più a uscire di casa. L'intera sua esistenza inizia a sfuggirgli di mano portandolo sull'orlo di un baratro; tutto per via di questo manoscritto che racconta del documentario, che a sua volta racconta della casa in Virginia: apparentemente è un edificio come tanti altri ma a un esame più attento mostra stranezze di non poco conto. Tanto per dirne una, l'interno della casa è molto più grande di quanto l'esterno lascerebbe supporre. Sempre all'interno, poi, ci sono porte di cui non si ha traccia all'esterno, ma soprattutto c'è una sala di inusitate dimensioni con al centro una scala a spirale che sembra scendere in uno scantinato senza fondo e che il fotoreporter decide di esplorare con una troupe. L'impresa assume presto i contorni della classica ricerca del Minotauro ma con una particolarità: mostro e labirinto sono la stessa cosa. Date le premesse è quantomeno fatale che gli esploratori finiscano per perdersi nei meandri di un'architettura di orrori in continua espansione.
Sempre riassumendo, tutto ciò è però soltanto l'inizio. L'esplorazione della casa è a sua volta un contenitore di storie che riguardano la problematica relazione del fotoreporter con sua moglie Karen e, più in generale, con i profondi e mutevoli abissi della psiche femminile, con quel pozzo ancestrale che è «la ragazza delle ragazze», la mamma. L'intrico e la complessità dei vari piani narrativi sono tali che il lettore rischia di trovarsi nella stessa situazione dei personaggi del romanzo, irrimediabilmente smarrito. Il romanzo Casa di foglie somiglia infatti terribilmente alla casa di foglie di cui racconta: anch'esso è un corpo vivo che seduce e minaccia al contempo, un buco nero che prima ti accoglie e poi ti fagocita.
Dei fantasmi non si può fare a meno
È attorno a due ingredienti fin troppo triti - il ritrovamento di un manoscritto e la casa stregata - che Mark Danielewski ha costruito il suo edificio letterario dove la distinzione tra scrittura e lettura, tra l'atto di inventare storie e quello di crederci, viene ridotta al minimo se non addirittura ribaltata. Il confine tra il mondo interno al romanzo e quello esterno è labile, costituito da una sorta di specchio magnetico che riflette soltanto il lato mostruoso delle cose e delle persone, reali o fittizie che siano. Analogamente al Lunar Park di Ellis, la Casa di foglie di Danielewski riporta la forma romanzesca alle sue origini più oscure e paurose, al suo cuore rivelatore, ai fantasmi che infestato la fantasie degli scrittori e dei loro lettori. Fantasmi che a volte possono essere i nostri padri e altre volte le nostre madri, ma che fantasmi comunque sono e rimangono. Perché sono proprio loro, i fantasmi, l'ingrediente di cui ogni romanzo non può fare assolutamente a meno. Perché alla resa dei conti, per un verso o per l'altro, qualunque cosa racconti e comunque la racconti, ogni romanzo è e sempre rimarrà un romanzo dell'orrore.
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TOMMASO PINCIO
Chi non ha presente quelle ragazze dal seno prosperoso che dopo essersi appartate nei boschi per fare sesso si ritrovano con il fidanzato sbudellato e un mostruoso maniaco armato di motosega seriamente intenzionato a fare scempio del loro appetitoso corpicino? Stiamo parlando, tanto per essere chiari, di quelle incaute ragazze che costituiscono un ingrediente base di certi sanguinolenti film senza troppe pretese. Ebbene, quelle ragazze non devono trarre in inganno. Il romanzo dell'orrore non è un genere letterario così popolare e dozzinale come potrebbe sembrare. Quantomeno non lo è sempre stato. Il romanzo dell'orrore ha nobili e ambiziose origini; origini a tal punto intrecciate alla nascita del romanzo tout court da farne il cuore della narrativa così come ancora oggi la conosciamo. Letteratura gotica e forma romanzesca si sono affacciate sulla scena più o meno simultaneamente nell'Inghilterra di fine Settecento. Anche volendo ignorare il fattore comunque rilevante del livello generale di istruzione, nella ormai lontana epoca dei lumi e della fede assoluta nella ragione i libri non erano affatto roba alla portata di tutti. Per la stragrande maggioranza della popolazione, l'acquisto di un romanzo di Ann Radcliffe o Matthew Gregory Lewis, gli Stephen King di allora, rappresentava un'impresa quasi impossibile sul piano finanziario. Il costo medio di un volume si aggirava intorno ai tre scellini ovvero quel che riuscivano a mettersi in tasca operai e domestici in una settimana di duro lavoro. Spesso, poi, le opere di narrativa constavano di tre tomi se non più, il che li rendeva inavvicinabili perfino ad artigiani e piccoli commercianti i quali avrebbero dovuto fare mesi e mesi di economie se mai avessero voluto diventare proprietari di un romanzo completo.
I sentimenti cercano riscatto
Ma i prezzi proibitivi non costituivano l'unico limite. La complessa prosa con cui si esprimevano gli autori gotici presupponeva conoscenze molto superiori alla semplice alfabetizzazione. I romanzi di allora contenevano come niente fosse allusioni e riferimenti alla cultura classica e a Shakespeare. Pure il Frankenstein di Mary Shelley, sebbene più accessibile e pubblicato in epoca leggermente più tarda, è un testo la cui piena comprensione è tutt'altro che immediata. Ovviamente esistevano notevoli differenze tra le esotiche storie di castelli infestati da fantasmi e i romanzi di ambientazione più realistica, differenze che dovevano certamente avere il loro peso visto che il tempo ha finito con il trasformare il racconto dell'orrore in un genere minore. Ciò nonostante, queste differenze si relativizzano alquanto se soltanto si guarda al sentimentalismo di cui nessuna opera romanzesca, nemmeno la più alta, può dirsi del tutto scevra. Forse è soltanto un'ipotesi ancora da dimostrare, ma molte cose fanno pensare che il romanzo sia nato e si sia affermato come una sorta di compensazione per ciò che scienza e rivoluzione industriale andavano sottraendo all'animo umano. Quello di fine Settecento era un mondo nuovo dove i sentimenti cominciavano a essere sacrificati sugli altari del progresso e della ragione. Ma proprio per questo, proprio perché mortificati e compressi, sentimenti e emozioni si fecero ancor più evidenti e necessitarono di essere affermati e descritti. Sentimenti ed emozioni chiesero dignità e risarcimento, reclamarono un loro spazio, un luogo organizzato sì con raziocinio e pragmatismo - come si conveniva al mutato segno dei tempi - ma dove, comunque, fosse loro riconosciuto un valore irrinunciabile in quanto strumento di conoscenza, un luogo dove magari fosse anche possibile trovare una qualche armonia con i ben più algidi strumenti del nuovo mondo.
Questo anelito non si è affatto estinto e ancora oggi, per un verso o per l'altro, il cosiddetto «mainstream» di ambientazione realistica può essere considerato alla stregua di un romanzo sentimentale, e dunque di genere. Il che implica un'altra considerazione: ovvero che, per un verso o per l'altro, qualsiasi forma romanzesca presuppone la letteratura di genere e in una certa misura inevitabilmente vi tende. Non è dunque così assurdo affermare che tutti i romanzi sono, ciascuno a suo modo, romanzi dell'orrore. Ma l'orrore non è soltanto il capostipite di ogni genere, dal poliziesco al fantascientifico. È molto di più. Perché è in sentimenti di orrore e di angoscia che piomba l'animo umano ogni qualvolta viene messo alla prova da pulsioni ed emozioni che trascendono l'assunto per cui la ragione è la strada maestra di giustizia e verità. Alla resa dei conti l'orrore è dunque il cuore tenebroso che batte nell'intimo di tutta la letteratura di stampo romanzesco; un cuore che può rivelarsi estremamente rivelatore, per dirla con un celebre racconto di Edgar Alla Poe.
Non è certamente un caso, se i protagonisti dei romanzi più riusciti di Stephen King sono perlopiù scrittori. Anzi, a ben guardare non sono nemmeno loro i veri protagonisti, bensì il puro atto di scrivere. Perché il protagonista di Shining si scopra in tutta la sua follia omicida deve scrivere un romanzo. Ed è sempre per via dei suoi romanzi se lo scrittore di Misery si ritrova prigioniero di un incubo, ovvero di una lettrice letteralmente pazza di lui. Similmente, è meno che mai un caso il fatto che un romanzo indiscutibilmente «mainstream» di recente pubblicazione sia al contempo una sinistra caricatura del suo autore e un implicito tributo all'opera di Stephen King.
In Lunar Park (Einaudi, traduzione di Giuseppe Culicchia, pp. 332, 18) Breat Easton Ellis sollecita l'ingranaggio più oliato e consolidato della forma romanzesca - l'ambientazione realistica - fino al punto di farlo implodere. Qui non si tratta più di uno scrittore che racconta di un verosimile scrittore qualunque; qui lo scrittore di successo Breat Easton Ellis ha eletto quale protagonista del suo nuovo romanzo nientemeno che «lo scrittore di successo Breat Easton Ellis» in persona. Le coincidenze tra lo scrittore e il suo doppio rasentano la specularità assoluta. L'Ellis personaggio è l'autore degli stessi romanzi dell'Ellis reale, come altrettanto reali sono le sue frequentazioni - l'amico rivale Jay McInerney, l'agente Binky Urban, l'editor Gary Fisketjon. Anche alcuni importanti lati privati sono fedelmente rappresentati, a cominciare dai conflitti con il padre cui il romanzo è dedicato. Il lettore si troverebbe dunque di fronte a una confessione dell'autore non fosse per il fatto che in Lunar Park Ellis si descrive sposato a una stella del cinema e padre di famiglia, due dettagli nient'affatto marginali che però non corrispondono al vero: elementi fittizi che costituiscono le premesse per un deragliamento nell'irrealtà. Dopo una festa di Halloween, in casa Ellis iniziano infatti a verificarsi strani e terrificanti fenomeni che volgono il romanzo in un tripudio di citazioni cinematografiche, in una storia dell'orrore che scimmiotta i cliché più tipici del genere. Quella che in un primo momento sembrava essere una confessione si rivela così la verità ridotta a teatrino. Qual è lo scopo di un meccanismo così perverso? Se questo fosse un romanzo dell'orrore come tanti altri, si potrebbe pensare che l'autore abbia semplicemente esaltato un espediente fondamentale del genere: partire da un forte dato di realtà per rendere verosimile l'irruzione nel quotidiano di eventi poco o nulla credibili. Ma siccome questo è un romanzo dell'orrore firmato Breat Easton Ellis è ancor più lecito concludere che la compenetrazione di verità e invenzione serve, in effetti, a mettere in piedi una sofisticata sciarada. Quale delle due, quindi? Ebbene, né l'una né l'altra. O meglio, entrambe le due ipotesi sono valide purché una non escluda l'altra.
Se Ellis riempie il suo romanzo di creature rubate all'immaginario orrorifico più popolare è per dare consistenza narrativa ai fantasmi che lo tormentano nella vita reale; in particolare ai fantasmi del padre e a quello del romanzo che lo ha reso famoso. Padre e romanzo sono però strettamente connessi perché Patrick Bateman, il folle omicida di American Psycho, è stato modellato sul carattere Robert Martin Ellis, il padre dello scrittore. Alla resa dei conti, il fantasma è dunque uno soltanto: il passato con cui Ellis non ha fatto i conti se non per le vie traverse della finzione e che ora bussa alla porta per vendicarsi, trasformando angosce e tormenti dello scrittore nella caricatura di un film dell'orrore. In Lunar Park Ellis ribalta le fondamenta su cui era edificata la letteratura gotica degli inizi, stravolgendo in maniera quasi impercettibile la regola in base alla quale l'irruzione soprannaturale nel reale serve a ridare voce a sentimenti ed emozioni oppressi da un raziocino imperante. Ellis sa bene che nel nostro tempo l'industria dell'intrattenimento ci ha chiuso in una gabbia di sentimenti ed emozioni sempre più preconfezionati; sa che sono proprio quelle creature della finzione nate per regalarci rigeneranti evasioni e catarsi a renderci sempre più prigionieri di un patetico simulacro di noi stessi; sa che oggi non sono più le nostre case a essere minacciate da un'infestazione di fantasmi ma che siamo noi a infestare le loro, un po' come avviene in quel film straordinario che è The Others di Alejandro Amenàbar. Un po' come avviene anche in Lunar Park, dove il fantasma del vero Breat Easton Ellis irrompe nell'edificio romanzesco seminando inquietudine, facendo scricchiolare sinistramente i capisaldi della storia di finzione ad ambientazione realistica. Con questo libro, a oggi il suo più audace e rischioso, Ellis non si è limitato a dipingere un ritratto impietoso di ciò che di irrisolto c'è nel suo passato; è tornato pure alle gotiche origini del romanzo, dimostrando che ogni romanzo è, per un verso o per l'altro, un racconto dell'orrore.
Un percorso simile è quello seguito da Mark Danielewski nella sua prova d'esordio, frutto di dieci anni di lavoro. Non è difficile capire perché la critica statunitense abbia definito Casa di foglie (Mondadori, traduzione di Anzelmo, Brugnatelli e Strazzeri, pp. 814, 22) «il più importante romanzo sperimentale del nuovo millennio». Nella sua più che considerevole mole trovano infatti posto l'utilizzo alternato di una mezza dozzina di caratteri tipografici diversi, quattrocentocinquanta note, svariate liste, citazioni di ogni sorta da Omero a Stanley Kubrick, una bibliografia, tre appendici, alcune illustrazioni, un indice e molto altro ancora. Un simile mastodontico impianto sarebbe più che sufficiente per richiamare alla mente David Foster Wallace e dintorni, ma costituisce soltanto una faccia del labirinto. L'altra è data da una fitta trama di scatole di cinesi nella quale perdersi è quasi inevitabile.
Quel che racconta «Casa di foglie»
Riassumendo, abbiamo un giovanotto di nome Johnny Truant che lavora in un negozio di tatuaggi a Los Angeles. Costui trova un voluminoso manoscritto nell'appartamento di un certo Zampanò, un vecchio cieco morto da poco. Incuriosito, decide di portarselo a casa e nel leggerlo scopre che si tratta di una densa dissertazione critica su un film documentario nel quale il fotoreporter Will Navidson racconta la raccapricciante storia di ciò che è accaduto a lui e alla sua famiglia dopo il trasferimento in una casa in Virginia. Il testo di Zampanò si rivela oltremodo confusionario, del resto si tratta pur sempre di un cieco che scrive di un film, una incongruenza assoluta. Ciò nonostante Johnny ne rimane prima irretito, poi letteralmente ossessionato. Le sue notti cominciano a popolarsi di incubi tremendi, mentre di giorno non riesce più a uscire di casa. L'intera sua esistenza inizia a sfuggirgli di mano portandolo sull'orlo di un baratro; tutto per via di questo manoscritto che racconta del documentario, che a sua volta racconta della casa in Virginia: apparentemente è un edificio come tanti altri ma a un esame più attento mostra stranezze di non poco conto. Tanto per dirne una, l'interno della casa è molto più grande di quanto l'esterno lascerebbe supporre. Sempre all'interno, poi, ci sono porte di cui non si ha traccia all'esterno, ma soprattutto c'è una sala di inusitate dimensioni con al centro una scala a spirale che sembra scendere in uno scantinato senza fondo e che il fotoreporter decide di esplorare con una troupe. L'impresa assume presto i contorni della classica ricerca del Minotauro ma con una particolarità: mostro e labirinto sono la stessa cosa. Date le premesse è quantomeno fatale che gli esploratori finiscano per perdersi nei meandri di un'architettura di orrori in continua espansione.
Sempre riassumendo, tutto ciò è però soltanto l'inizio. L'esplorazione della casa è a sua volta un contenitore di storie che riguardano la problematica relazione del fotoreporter con sua moglie Karen e, più in generale, con i profondi e mutevoli abissi della psiche femminile, con quel pozzo ancestrale che è «la ragazza delle ragazze», la mamma. L'intrico e la complessità dei vari piani narrativi sono tali che il lettore rischia di trovarsi nella stessa situazione dei personaggi del romanzo, irrimediabilmente smarrito. Il romanzo Casa di foglie somiglia infatti terribilmente alla casa di foglie di cui racconta: anch'esso è un corpo vivo che seduce e minaccia al contempo, un buco nero che prima ti accoglie e poi ti fagocita.
Dei fantasmi non si può fare a meno
È attorno a due ingredienti fin troppo triti - il ritrovamento di un manoscritto e la casa stregata - che Mark Danielewski ha costruito il suo edificio letterario dove la distinzione tra scrittura e lettura, tra l'atto di inventare storie e quello di crederci, viene ridotta al minimo se non addirittura ribaltata. Il confine tra il mondo interno al romanzo e quello esterno è labile, costituito da una sorta di specchio magnetico che riflette soltanto il lato mostruoso delle cose e delle persone, reali o fittizie che siano. Analogamente al Lunar Park di Ellis, la Casa di foglie di Danielewski riporta la forma romanzesca alle sue origini più oscure e paurose, al suo cuore rivelatore, ai fantasmi che infestato la fantasie degli scrittori e dei loro lettori. Fantasmi che a volte possono essere i nostri padri e altre volte le nostre madri, ma che fantasmi comunque sono e rimangono. Perché sono proprio loro, i fantasmi, l'ingrediente di cui ogni romanzo non può fare assolutamente a meno. Perché alla resa dei conti, per un verso o per l'altro, qualunque cosa racconti e comunque la racconti, ogni romanzo è e sempre rimarrà un romanzo dell'orrore.
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