1.11.05

Nel cuore di ogni romanzo un palpito di orrore

Non c'è narrativa senza fantasmi, siano essi creature soprannaturali o esseri dotati di consistenza reale. Ultimi titoli nel segno dell'orrore, Lunar Park di Bret Easton Ellis, e Casa di foglie di Mark Danielewski. A proposito, buona Halloween

TOMMASO PINCIO

Chi non ha presente quelle ragazze dal seno prosperoso che dopo essersi appartate nei boschi per fare sesso si ritrovano con il fidanzato sbudellato e un mostruoso maniaco armato di motosega seriamente intenzionato a fare scempio del loro appetitoso corpicino? Stiamo parlando, tanto per essere chiari, di quelle incaute ragazze che costituiscono un ingrediente base di certi sanguinolenti film senza troppe pretese. Ebbene, quelle ragazze non devono trarre in inganno. Il romanzo dell'orrore non è un genere letterario così popolare e dozzinale come potrebbe sembrare. Quantomeno non lo è sempre stato. Il romanzo dell'orrore ha nobili e ambiziose origini; origini a tal punto intrecciate alla nascita del romanzo tout court da farne il cuore della narrativa così come ancora oggi la conosciamo. Letteratura gotica e forma romanzesca si sono affacciate sulla scena più o meno simultaneamente nell'Inghilterra di fine Settecento. Anche volendo ignorare il fattore comunque rilevante del livello generale di istruzione, nella ormai lontana epoca dei lumi e della fede assoluta nella ragione i libri non erano affatto roba alla portata di tutti. Per la stragrande maggioranza della popolazione, l'acquisto di un romanzo di Ann Radcliffe o Matthew Gregory Lewis, gli Stephen King di allora, rappresentava un'impresa quasi impossibile sul piano finanziario. Il costo medio di un volume si aggirava intorno ai tre scellini ovvero quel che riuscivano a mettersi in tasca operai e domestici in una settimana di duro lavoro. Spesso, poi, le opere di narrativa constavano di tre tomi se non più, il che li rendeva inavvicinabili perfino ad artigiani e piccoli commercianti i quali avrebbero dovuto fare mesi e mesi di economie se mai avessero voluto diventare proprietari di un romanzo completo.

I sentimenti cercano riscatto

Ma i prezzi proibitivi non costituivano l'unico limite. La complessa prosa con cui si esprimevano gli autori gotici presupponeva conoscenze molto superiori alla semplice alfabetizzazione. I romanzi di allora contenevano come niente fosse allusioni e riferimenti alla cultura classica e a Shakespeare. Pure il Frankenstein di Mary Shelley, sebbene più accessibile e pubblicato in epoca leggermente più tarda, è un testo la cui piena comprensione è tutt'altro che immediata. Ovviamente esistevano notevoli differenze tra le esotiche storie di castelli infestati da fantasmi e i romanzi di ambientazione più realistica, differenze che dovevano certamente avere il loro peso visto che il tempo ha finito con il trasformare il racconto dell'orrore in un genere minore. Ciò nonostante, queste differenze si relativizzano alquanto se soltanto si guarda al sentimentalismo di cui nessuna opera romanzesca, nemmeno la più alta, può dirsi del tutto scevra. Forse è soltanto un'ipotesi ancora da dimostrare, ma molte cose fanno pensare che il romanzo sia nato e si sia affermato come una sorta di compensazione per ciò che scienza e rivoluzione industriale andavano sottraendo all'animo umano. Quello di fine Settecento era un mondo nuovo dove i sentimenti cominciavano a essere sacrificati sugli altari del progresso e della ragione. Ma proprio per questo, proprio perché mortificati e compressi, sentimenti e emozioni si fecero ancor più evidenti e necessitarono di essere affermati e descritti. Sentimenti ed emozioni chiesero dignità e risarcimento, reclamarono un loro spazio, un luogo organizzato sì con raziocinio e pragmatismo - come si conveniva al mutato segno dei tempi - ma dove, comunque, fosse loro riconosciuto un valore irrinunciabile in quanto strumento di conoscenza, un luogo dove magari fosse anche possibile trovare una qualche armonia con i ben più algidi strumenti del nuovo mondo.

Questo anelito non si è affatto estinto e ancora oggi, per un verso o per l'altro, il cosiddetto «mainstream» di ambientazione realistica può essere considerato alla stregua di un romanzo sentimentale, e dunque di genere. Il che implica un'altra considerazione: ovvero che, per un verso o per l'altro, qualsiasi forma romanzesca presuppone la letteratura di genere e in una certa misura inevitabilmente vi tende. Non è dunque così assurdo affermare che tutti i romanzi sono, ciascuno a suo modo, romanzi dell'orrore. Ma l'orrore non è soltanto il capostipite di ogni genere, dal poliziesco al fantascientifico. È molto di più. Perché è in sentimenti di orrore e di angoscia che piomba l'animo umano ogni qualvolta viene messo alla prova da pulsioni ed emozioni che trascendono l'assunto per cui la ragione è la strada maestra di giustizia e verità. Alla resa dei conti l'orrore è dunque il cuore tenebroso che batte nell'intimo di tutta la letteratura di stampo romanzesco; un cuore che può rivelarsi estremamente rivelatore, per dirla con un celebre racconto di Edgar Alla Poe.

Non è certamente un caso, se i protagonisti dei romanzi più riusciti di Stephen King sono perlopiù scrittori. Anzi, a ben guardare non sono nemmeno loro i veri protagonisti, bensì il puro atto di scrivere. Perché il protagonista di Shining si scopra in tutta la sua follia omicida deve scrivere un romanzo. Ed è sempre per via dei suoi romanzi se lo scrittore di Misery si ritrova prigioniero di un incubo, ovvero di una lettrice letteralmente pazza di lui. Similmente, è meno che mai un caso il fatto che un romanzo indiscutibilmente «mainstream» di recente pubblicazione sia al contempo una sinistra caricatura del suo autore e un implicito tributo all'opera di Stephen King.

In Lunar Park (Einaudi, traduzione di Giuseppe Culicchia, pp. 332, 18) Breat Easton Ellis sollecita l'ingranaggio più oliato e consolidato della forma romanzesca - l'ambientazione realistica - fino al punto di farlo implodere. Qui non si tratta più di uno scrittore che racconta di un verosimile scrittore qualunque; qui lo scrittore di successo Breat Easton Ellis ha eletto quale protagonista del suo nuovo romanzo nientemeno che «lo scrittore di successo Breat Easton Ellis» in persona. Le coincidenze tra lo scrittore e il suo doppio rasentano la specularità assoluta. L'Ellis personaggio è l'autore degli stessi romanzi dell'Ellis reale, come altrettanto reali sono le sue frequentazioni - l'amico rivale Jay McInerney, l'agente Binky Urban, l'editor Gary Fisketjon. Anche alcuni importanti lati privati sono fedelmente rappresentati, a cominciare dai conflitti con il padre cui il romanzo è dedicato. Il lettore si troverebbe dunque di fronte a una confessione dell'autore non fosse per il fatto che in Lunar Park Ellis si descrive sposato a una stella del cinema e padre di famiglia, due dettagli nient'affatto marginali che però non corrispondono al vero: elementi fittizi che costituiscono le premesse per un deragliamento nell'irrealtà. Dopo una festa di Halloween, in casa Ellis iniziano infatti a verificarsi strani e terrificanti fenomeni che volgono il romanzo in un tripudio di citazioni cinematografiche, in una storia dell'orrore che scimmiotta i cliché più tipici del genere. Quella che in un primo momento sembrava essere una confessione si rivela così la verità ridotta a teatrino. Qual è lo scopo di un meccanismo così perverso? Se questo fosse un romanzo dell'orrore come tanti altri, si potrebbe pensare che l'autore abbia semplicemente esaltato un espediente fondamentale del genere: partire da un forte dato di realtà per rendere verosimile l'irruzione nel quotidiano di eventi poco o nulla credibili. Ma siccome questo è un romanzo dell'orrore firmato Breat Easton Ellis è ancor più lecito concludere che la compenetrazione di verità e invenzione serve, in effetti, a mettere in piedi una sofisticata sciarada. Quale delle due, quindi? Ebbene, né l'una né l'altra. O meglio, entrambe le due ipotesi sono valide purché una non escluda l'altra.

Se Ellis riempie il suo romanzo di creature rubate all'immaginario orrorifico più popolare è per dare consistenza narrativa ai fantasmi che lo tormentano nella vita reale; in particolare ai fantasmi del padre e a quello del romanzo che lo ha reso famoso. Padre e romanzo sono però strettamente connessi perché Patrick Bateman, il folle omicida di American Psycho, è stato modellato sul carattere Robert Martin Ellis, il padre dello scrittore. Alla resa dei conti, il fantasma è dunque uno soltanto: il passato con cui Ellis non ha fatto i conti se non per le vie traverse della finzione e che ora bussa alla porta per vendicarsi, trasformando angosce e tormenti dello scrittore nella caricatura di un film dell'orrore. In Lunar Park Ellis ribalta le fondamenta su cui era edificata la letteratura gotica degli inizi, stravolgendo in maniera quasi impercettibile la regola in base alla quale l'irruzione soprannaturale nel reale serve a ridare voce a sentimenti ed emozioni oppressi da un raziocino imperante. Ellis sa bene che nel nostro tempo l'industria dell'intrattenimento ci ha chiuso in una gabbia di sentimenti ed emozioni sempre più preconfezionati; sa che sono proprio quelle creature della finzione nate per regalarci rigeneranti evasioni e catarsi a renderci sempre più prigionieri di un patetico simulacro di noi stessi; sa che oggi non sono più le nostre case a essere minacciate da un'infestazione di fantasmi ma che siamo noi a infestare le loro, un po' come avviene in quel film straordinario che è The Others di Alejandro Amenàbar. Un po' come avviene anche in Lunar Park, dove il fantasma del vero Breat Easton Ellis irrompe nell'edificio romanzesco seminando inquietudine, facendo scricchiolare sinistramente i capisaldi della storia di finzione ad ambientazione realistica. Con questo libro, a oggi il suo più audace e rischioso, Ellis non si è limitato a dipingere un ritratto impietoso di ciò che di irrisolto c'è nel suo passato; è tornato pure alle gotiche origini del romanzo, dimostrando che ogni romanzo è, per un verso o per l'altro, un racconto dell'orrore.

Un percorso simile è quello seguito da Mark Danielewski nella sua prova d'esordio, frutto di dieci anni di lavoro. Non è difficile capire perché la critica statunitense abbia definito Casa di foglie (Mondadori, traduzione di Anzelmo, Brugnatelli e Strazzeri, pp. 814, 22) «il più importante romanzo sperimentale del nuovo millennio». Nella sua più che considerevole mole trovano infatti posto l'utilizzo alternato di una mezza dozzina di caratteri tipografici diversi, quattrocentocinquanta note, svariate liste, citazioni di ogni sorta da Omero a Stanley Kubrick, una bibliografia, tre appendici, alcune illustrazioni, un indice e molto altro ancora. Un simile mastodontico impianto sarebbe più che sufficiente per richiamare alla mente David Foster Wallace e dintorni, ma costituisce soltanto una faccia del labirinto. L'altra è data da una fitta trama di scatole di cinesi nella quale perdersi è quasi inevitabile.

Quel che racconta «Casa di foglie»

Riassumendo, abbiamo un giovanotto di nome Johnny Truant che lavora in un negozio di tatuaggi a Los Angeles. Costui trova un voluminoso manoscritto nell'appartamento di un certo Zampanò, un vecchio cieco morto da poco. Incuriosito, decide di portarselo a casa e nel leggerlo scopre che si tratta di una densa dissertazione critica su un film documentario nel quale il fotoreporter Will Navidson racconta la raccapricciante storia di ciò che è accaduto a lui e alla sua famiglia dopo il trasferimento in una casa in Virginia. Il testo di Zampanò si rivela oltremodo confusionario, del resto si tratta pur sempre di un cieco che scrive di un film, una incongruenza assoluta. Ciò nonostante Johnny ne rimane prima irretito, poi letteralmente ossessionato. Le sue notti cominciano a popolarsi di incubi tremendi, mentre di giorno non riesce più a uscire di casa. L'intera sua esistenza inizia a sfuggirgli di mano portandolo sull'orlo di un baratro; tutto per via di questo manoscritto che racconta del documentario, che a sua volta racconta della casa in Virginia: apparentemente è un edificio come tanti altri ma a un esame più attento mostra stranezze di non poco conto. Tanto per dirne una, l'interno della casa è molto più grande di quanto l'esterno lascerebbe supporre. Sempre all'interno, poi, ci sono porte di cui non si ha traccia all'esterno, ma soprattutto c'è una sala di inusitate dimensioni con al centro una scala a spirale che sembra scendere in uno scantinato senza fondo e che il fotoreporter decide di esplorare con una troupe. L'impresa assume presto i contorni della classica ricerca del Minotauro ma con una particolarità: mostro e labirinto sono la stessa cosa. Date le premesse è quantomeno fatale che gli esploratori finiscano per perdersi nei meandri di un'architettura di orrori in continua espansione.

Sempre riassumendo, tutto ciò è però soltanto l'inizio. L'esplorazione della casa è a sua volta un contenitore di storie che riguardano la problematica relazione del fotoreporter con sua moglie Karen e, più in generale, con i profondi e mutevoli abissi della psiche femminile, con quel pozzo ancestrale che è «la ragazza delle ragazze», la mamma. L'intrico e la complessità dei vari piani narrativi sono tali che il lettore rischia di trovarsi nella stessa situazione dei personaggi del romanzo, irrimediabilmente smarrito. Il romanzo Casa di foglie somiglia infatti terribilmente alla casa di foglie di cui racconta: anch'esso è un corpo vivo che seduce e minaccia al contempo, un buco nero che prima ti accoglie e poi ti fagocita.

Dei fantasmi non si può fare a meno

È attorno a due ingredienti fin troppo triti - il ritrovamento di un manoscritto e la casa stregata - che Mark Danielewski ha costruito il suo edificio letterario dove la distinzione tra scrittura e lettura, tra l'atto di inventare storie e quello di crederci, viene ridotta al minimo se non addirittura ribaltata. Il confine tra il mondo interno al romanzo e quello esterno è labile, costituito da una sorta di specchio magnetico che riflette soltanto il lato mostruoso delle cose e delle persone, reali o fittizie che siano. Analogamente al Lunar Park di Ellis, la Casa di foglie di Danielewski riporta la forma romanzesca alle sue origini più oscure e paurose, al suo cuore rivelatore, ai fantasmi che infestato la fantasie degli scrittori e dei loro lettori. Fantasmi che a volte possono essere i nostri padri e altre volte le nostre madri, ma che fantasmi comunque sono e rimangono. Perché sono proprio loro, i fantasmi, l'ingrediente di cui ogni romanzo non può fare assolutamente a meno. Perché alla resa dei conti, per un verso o per l'altro, qualunque cosa racconti e comunque la racconti, ogni romanzo è e sempre rimarrà un romanzo dell'orrore.

ilmanifesto.it

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