Ma il Governo non va delegittimato
Caro direttore,
ti scrivo perché la linea editoriale che esprimi non mi trova del tutto consenziente. Non è questione di convinzioni diverse, né di diversa collocazione politica.
Che in un giornale libero si esprimano opinioni anche contrastanti mi pare non solo normale, ma arricchente. Quel che sento davanti al tuo articolo, e a tanti che somigliano al tuo nei giornali indipendenti, non è dissenso, ma un disagio molto profondo. Ho l’impressione di assistere a una sorta di disfacimento della democrazia rappresentativa, e di perdita di senso del voto espresso alle urne dagli elettori. Dalla primavera dell’anno scorso l’Italia ha un governo, scelto dagli italiani per la durata di cinque anni, che è stato messo in questione quasi fin dal primo giorno: non dagli elettori tuttavia, ma da un capo dell’opposizione, Silvio Berlusconi, che il giudizio delle urne non l’ha mai accettato e che ogni sera da diciotto mesi annuncia a televisioni e giornali la fine di Prodi: prima negando i risultati, poi denunciando brogli, poi intimidendo i senatori a vita, poi appellandosi al cattivo umore della gente, in dispregio costante dei dettami costituzionali. Una strategia di delegittimazione del tutto anomala, ma che molto rapidamente è stata banalizzata e fatta propria da tutti coloro che fanno opinione, essenzialmente giornali e televisioni pubbliche oltre che private.
Adesso questo governo ha circa un anno e mezzo ed è giudicato spacciato, finito, senza che io come elettore abbia in alcun modo concorso a questo sviluppo. In un certo senso mi sento defraudata del mio voto: organismi intermedi si sono insediati tra l’elettore e la rappresentanza da esso scelta, e sono questi organismi che hanno deciso e decidono tutto: i giornali appunto e questa o quella corporazione sindacale, questa o quella lobby, questo o quel personaggio della maggioranza, ansioso di cambiar casacca per ottenere posti che non ha avuto nel presente governo. Sono questi organi intermedi che stanno decretando che questo governo è caduto (che è «una carcassa che si trascina», scrivi con linguaggio che, ti confesso, mi ha scosso per la violenza che contiene). Sono questi organi che per la seconda volta nella storia recente - e in modo ancor più inquietante che nel 1998 - accettano che il crimine contro il ministero Prodi venga compiuto. E lo decretano prima che il tempo costituzionalmente assegnato al governo sia concluso. Prima che gli italiani siano chiamati a votare, allo scadere normale della legislatura. Non sono defraudata solo del voto. Mi vien tolta anche la sacralità del tempo conferito col mandato, così preziosa nelle democrazie: la certezza che il tempo che ho dato al governo eleggendolo non sarà interrotto da forze interessate e sondaggi senza rapporto con le urne.
Tu scrivi che il centro-sinistra deve andare a casa perché mai c’è stato in Italia governo impopolare come questo. Anche qui provo vero disagio, non fosse altro perché non manca giorno in cui i riformisti chiedono ai governanti di «rischiare l’impopolarità». I governi non vanno a casa perché a un certo punto (dopo una settimana o un mese o un anno) si constata che non si vendono troppo bene: nella democrazia rappresentativa un governo non è un sapone, né un’automobile, e neppure un giornale che conquista o non conquista lettori. È qualcosa di radicalmente diverso, costruitosi lungo i secoli, reso sempre più complesso da una storia lunga. Il disagio cresce se penso ai Paesi europei che mi è capitato di conoscere negli ultimi decenni: tutti hanno prima o poi traversato periodi anche assai lunghi di impopolarità (è stato così per i governi Schmidt, Kohl, Schröder; per i primi ministri e Presidenti francesi; per i premier inglesi a cominciare dal governo Thatcher) e mai ho visto all’opera il tumulto che esiste da noi: il gusto apocalittico che si espande, l’inestinguibile sete di andare alle urne prima del tempo, trascinati da sondaggi e da opinioni che prevalgono nei salotti. Mai ho visto un così vasto schieramento di forze distruttive, che quasi hanno timore di costruire e pazientare. Forze che prese una per una sembrano aver dimenticato il proprio mestiere, oltrepassandolo sempre. Che confondono, in maniera inaudita, il criticare anche severo con l’esigere, perentorio, che il governo cada al più presto. Neppure George W. Bush, eletto grazie a una decisione indecorosa della Corte Suprema che ha escluso il vero vincitore delle presidenziali, nel 2000, ha avuto davanti a sé una sì intensa volontà demolitrice. Mai ho visto tanta gente uniformemente invocare la fine d’una legislatura, e volontariamente servire il disegno di chi parla di democrazia ma non ne rispetta la regolamentazione. Tra la strategia di riconquista apprestata da Berlusconi fin dal 10 aprile 2006 e quel che mi dicono oggi giornali e tv non riesco, per quanto ci provi, a scorgere più differenza alcuna.
Il fatto è che queste forze distruttive si comportano come se non sapessero la storia che stanno facendo, e cosa precisamente vanno disfacendo. Hanno anzi l’impressione di essere indipendenti, libere come non lo sono state in passato.
Non mi paiono libere. Tranne alcune eccezioni, ancor più luminose perché rare e solitarie, quasi tutti son sedotti da questo desiderio di dissoluzione, che allarga i cuori e trasforma ogni commentatore critico in governatore dell’universo, oltre che dell’Italia. Commentatori che constatano un disastro che essi stessi, giorno dopo giorno, hanno contribuito a creare. Non è l’idea che mi faccio né della democrazia, né della vocazione di testimone e pensatore affidata alla figura del giornalista.
Un caro saluto.
Cara Barbara, pubblico con piacere la tua lettera, convinto come te dell’opportunità che «in un giornale libero si esprimano opinioni anche contrastanti», senza entrare nel merito della tua risposta e dell’interpretazione che tu hai dato del mio fondo pubblicato giovedì 25 ottobre. Un caro saluto. [G.A.]
lastampa.it
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