L'ultima lezione di un professore.
La storia che commuove l’America.
I medici lo hanno sottoposto a esami
poi gli hanno detto: ti restano 3 mesi
PIERANGELO SAPEGNO
Era l’ultima lezione prima di morire, e il professore Randy Pausch l’ha tenuta ridendo e sognando, nell’Auditorium McConomy della Carnegie Mellon University, davanti a una folla di allievi e docenti che ridevano con lui, perché quella era poi solo una lezione della vita, insegnata in quell’aula senza tempo, come sul fondale di un teatro che rimpicciolisce gli attori sopra il proscenio. La vita, in fondo, è così: è più grande di noi. «Non possiamo cambiare le carte che abbiamo girato», ha detto Randy Pausch. «Dobbiamo solo giocare quella partita».
Fai la cosa giusta
La lezione magari è sempre la stessa, così americana, ma è dignitosa e commovente questa volta: fai la cosa giusta, e avrai vissuto e i sogni verranno a cercarti. A dirla così, sembra semplice. Però, Randy Pausch, professore di scienza del computer, ha 46 anni, una moglie e tre figli piccoli, una casa in Virginia «che è il posto più bello per avere una casa», una cattedra importante, e un tumore che gli ha lasciato soltanto tre mesi per stare con noi. Randy è un bell’uomo bruno, forte, ex giocatore di football, che si muove con una certa eleganza, alto ma non sgraziato, che assolve la sua parte senza mai caricarla, vestito con una maglietta nera e dei calzoni color guscio d’uovo, con tocchi che danno l’idea di uno spirito libero, di un’artista. Entra sorridendo nell’aula stracolma, un piccolo inchino fra gli applausi, e finisce sorridendo, senza ingoiare mai una lacrima. E senza mai esibire la docilità tenera degli esseri umani, la loro fondamentale disponibilità a piacere anche di fronte alla tragedia, come gli ebrei d’Europa che indossavano i vestiti migliori per essere condotti nei campi sterminio.
Desideri di bambino
La sua lezione è solo un inno alla vita. Si intitola: «Come realizzare davvero i tuoi sogni di bambino». Comincia con una battuta mentre sono tutti in piedi ad applaudirlo: «Grazie, ma fatemela guadagnare!». Poi continua: «Questa università offre da sempre l’ultima lettura a tutti i suoi insegnanti, prima di morire. Oh, finalmente anch’io ho questa occasione!». E allora hanno riso tutti. Anche lui ha riso. Fa vedere sullo schermo il suo tumore, le dieci metastasi. «I dottori mi hanno dato tre mesi di vita», dice. «Ma io mi sento bene. Se non vi sembro così triste, così depresso, scusate se vi deludo. Sono in una strepitosa condizione di forma. Peccato che sto morendo. Ma sto molto meglio di parecchi di voi, e ve lo faccio vedere». Si china sul pavimento e si mette a fare i piegamenti, prima con due mani, poi con una sola, poi battendole per restare senza. Si rialza fra le risate dell’aula senza fiatone, «ve l’ho detto. Se qualcuno mi vuole compatire, venga qui da me, mi faccia un po’ di piegamenti e poi gli permetto di compatirmi».
«Non parla della malattia»
Dice: «Non parlerò della malattia. Non parlerò di mia moglie e dei miei bambini, di religione e di spiritualità. Parlerò di come ho realizzato i miei sogni dell’infanzia». Racconta che ne aveva 4: provare l’assenza di gravità, giocare nella nazionale di football, scrivere un articolo nell’enciclopedia mondiale e diventare un disegnatore di Walt Disney. Beh, li ha realizzati a modo suo. Per salire su un’astronave s’è finto un giornalista, da ragazzo è stato un buon giocatore di football anche se non è mai finito in nazionale, è diventato un docente e l’articolo per l’enciclopedia l’ha scritto davvero. Il segreto? Dice: «Mi sono trovato a parlare al telefono con John Snoddy e lui mi diceva: se tu dai tempo agli altri, la gente ti sorprenderà. Se qualcuno è arrabbiato è perché tu non gli hai dato abbastanza tempo».
Certo, noi non abbiamo tutto il tempo del mondo. Ma bisogna fare bene il nostro. Con Walt Disney non andò, però è come se fosse andata perché è quello che si impara e che rimane, che conta di più. Racconta che appena laureato mandò a Walt Disney il suo curriculum e tutto quello che voleva fare. «Loro mi hanno rimandato indietro alcune delle più belle lettere di vaffa che abbia mai ricevuto». Gli aveva inviato un progetto di parco giochi. L’avevano bocciato, ma lui aveva capito lo stesso come si faceva. «Ricordatevi. I muri di mattoni che riempiono le strade sono lì per una ragione. Non per tenerci fuori, ma per darci una possibilità di mostrare come malamente noi vogliamo le cose. Sono là per fermare le altre persone».
Formule sul muro
Ricorda che da bambino lui voleva scrivere sopra le pareti della sua camera, «e, cavolo, i miei genitori me l’hanno lasciato fare. La cosa incredibile è che in tutto questo tempo quel muro è ancora lì, come l’avevo disegnato io, con le mie formule. E se vostro figlio, un giorno vi chiederà di dipingere la stanza, fate un favore a me: lasciatelo fare». Tutt’intorno, ad ascoltarlo, c’è un pubblico che ha il suo stesso sguardo, questo sorriso strano, come una lieve stonatura, così sereno, a cogliere le parole che si riavvolgono e le memorie che si fermano, lasciati lì a fissarsi in primi piani mai attoniti, appena velati di tristezza, piccoli ponti attraversati nel reticolo infinito dei loro rapporti. C’è una folla di occhi e di sentimenti, non c’è gente elegante, nessuno trasandato, qualcuno bello, qualcuno no. Qui c’è questo soltanto, il tremore della vita che resta per sempre, come due amanti che si lasciano sapendo di aver vissuto tutto il loro tempo e il loro amore.
Fine corsa
Il professor Randy Pausch ha terminato la sua ultima lezione alla Carnegie Mellon University e lo hanno applaudito come se fosse normale, come se fosse la prima, o una qualunque lezione della vita. Solo una bella signora, forse sua moglie, è salita sulla cattedra e l’ha baciato appassionatamente. Lui aveva appena finito di dire: «Non è come realizzi i tuoi sogni che è importante. Ma come realizzi la tua vita. Se fai la cosa giusta, il tuo kharma avrà cura di quello che fai e i sogni verranno da te». Poi è uscito così, nello splendore del giorno, mentre finiva la vita.
lastampa.it
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