Valeria Gennero
Se Woody Allen fosse gay probabilmente racconterebbe storie simili a quelle dei romanzi di Peter Cameron. Ambienti costruiti con un gusto cinematografico per l'uso dei dettagli, dialoghi brillanti e personaggi spesso teneramente impacciati eppure capaci di un umorismo arguto, illuminato da squarci di lirismo di elegante intensità. Nelle opere di Cameron il tema dell'omosessualità, come l'ebraismo in Allen, è un sottotesto tanto costante da diventare quasi impercettibile, mentre memorabili rimangono i modi in cui i protagonisti cercano di venire a patti con le scelte imposte dai pericolosi incroci tra il desiderio e il destino. Tutte qualità che hanno decretato per Cameron un successo nato dal passaparola e che hanno fatto di Quella sera dorata una delle rivelazioni editoriali del 2006. Pubblicato da Adelphi - che ha scommesso sullo scrittore pur dopo il suo esordio in sordina sul mercato italiano vent'anni fa, con la raccolta di racconti minimalisti In un modo o nell'altro (Rizzoli 1987) - Quella sera dorata ha ormai raggiunto la settima edizione. E pochi mesi sono bastati al romanzo successivo, Un giorno questo dolore ti sarà utile (Adelphi 2007) per consolidare la fama di Cameron con un ulteriore successo di critica e di pubblico.
Mentre Quella sera dorata metteva in scena il minuetto emotivo ed erotico di quattro protagonisti diversamente problematici - i tre curatori testamentari del lascito artistico di uno scrittore suicida e il dottorando che cerca di ottenere la loro autorizzazione per scrivere la biografia dalla quale spera di derivare una brillante carriera universitaria - l'ultimo lavoro di Cameron ha al centro una figura solitaria e inquieta, il diciottenne James Sveck. Un giorno questo dolore ti sarà utile è il resoconto in forma di diario delle piccole e grandi catastrofi che accompagnano il passaggio di James all'età adulta, durante l'estate che dovrebbe precedere l'inizio dell'università.
Alla Brown University, dove i facoltosi genitori l'hanno iscritto, James però non vuole andare, perché i coetanei lo annoiano e lo fanno sentire fuori posto. Anche le pressioni dei genitori perché il ragazzo veda uno psicologo si scontrano inizialmente con il suo rifiuto, finché estenuato dalla loro insistenza, nonché dalle goffe espressioni della solidarietà che gli esprimono nella convinzione che sia gay, James comincia una terapia nella New York sonnolenta e soffocante dell'estate 2003. La città diventa mano a mano protagonista, mentre James la attraversa lungo una traiettoria ideale, che unisce il luogo occupato dal World Trade Center prima del crollo ai ricevimenti uptown del Frick Museum, teatro di un'educazione sentimentale dove l'ingenuità travagliata dell'adolescenza si trova a fare i conti con la fragilità altrettanto solitaria e sgomenta dell'età adulta. Il resto ce lo dirà James Cameron, in questi giorni a Torino, dove è ospite dell'iniziativa «Portici di carta».
Lei ha cominciato a pubblicare nel corso degli anni '80, e i suoi esordi sono stati spesso associati al filone narrativo del cosiddetto «minimalismo», che aveva conosciuto una stagione di notevole popolarità anche grazie al sostegno editoriale di riviste di grande diffusione come il «New Yorker». Ha mai sentito di avere dei punti di contatto con altri scrittori legati a quel contesto, figure come Amy Hempel o Ann Beattie?
L'idea del gruppo minimalista è stata una creazione dei media che ha avuto un ottimo riscontro in termini pubblicitari, ma non ci sono mai stati scambi effettivi o collaborazioni. Ammiro i racconti di Amy Hempel, ma è chiaro che tra noi ci sono solo lontane somiglianze stilistiche. Ricordo invece di aver letto Ann Beattie quando ero all'università, e di esserne stato molto influenzato.
Naturalmente, quando parliamo di minimalismo non possiamo non parlare di Raymond Carver; che peraltro lei ha conosciuto, non è vero?
Certo. La cosa strana però è che nel 1981 Ann Beattie era molto più famosa di Carver. Mentre ero all'università Beattie, che aveva appena pubblicato Falling in Place, fu invitata all'Hamilton College per una conferenza. La andai a salutare e le parlai del mio desiderio di scrivere, così lei mi consigliò - tanto per cominciare - di leggere Carver, che io non avevo mai sentito nominare. Andai a cercare i suoi libri alla libreria «Three Lives», nel Greenwich Village, che prima dell'invasione delle grandi catene librarie, era una delle più grandi e fornite di New York. Bene, nemmeno loro avevano mai sentito parlare di Raymond Carver. Dopo alcuni tentativi infruttuosi riuscii finalmente a trovare Vuoi star zitta per favore? in una libreria del centro. Lo lessi con avidità e poi tornai da «Three Lives» per mostrare loro il libro e consigliargli di procurasene qualche copia. Pochissimi anni dopo, Carver divenne improvvisamente una celebrità e fu invitato per un reading proprio alla «Three Lives». Arrivai con più di un'ora di anticipo, ma trovai la libreria già stipata: ero stato io a «presentato» l'autore ai miei amici librai, e paradossalmente mi trovai a non potere assistere al suo trionfo. Ebbi però modo di incontrare Carver in altre occasioni e sono molto orgoglioso di possedere le prime edizioni di tutte le sue opere con una sua dedica molto personale.
Il suo passaggio dal racconto al romanzo è avvenuto in un certo senso un po' a rate: infatti lei fece uscire «Anno bisestile» a puntate su un settimanale. Il fatto di trovarsi a fare i conti con le reazioni dei lettori mano a mano che la storia procedeva l'ha portata a modificare lo sviluppo dell'intreccio?
In effetti, almeno un lettore, che è poi il mio editor alla Harper and Row, ha avuto un impatto importante sulla trama. Secondo lui c'era bisogno di una maggiore tensione drammatica, perciò decisi di aggiungere alla vicenda un omicidio. Col senno di poi penso sia stato un bene, anche se a me interessava soprattutto descrivere un gruppo di personaggi alle prese con
Lei è approdato a una ambientazione newyorchese dopo avere scritto romanzi situati in posti più o meno esotici (l'Uruguay per «Quella sera dorata», e un Principato di Andorra sorprendentemente bagnato dal mare nel romanzo omonimo). Che effetto le ha fatto tornare a immergere la sua scrittura a New York?
Uno degli aspetti più evidente è che New York in genere, e il Village in particolare, hanno smesso di essere l'approdo dei giovani artisti. La città è diventata economicamente irraggiungibile, è davvero necessario essere molto ricchi per pensare di poterci sopravvivere. E poi, naturalmente, c'è stato l'11 settembre.
Una recensione sul numero appena uscito della «New York Review of Books» definisce «Un giorno questo dolore ti sarà utile» come «il più acuto tra i romanzi sull'11 settembre».
Però io non ho mai pensato di scrivere un romanzo sull'11 settembre. Nella storia di James gli aspetti significativi sono altri, e del resto ho ricevuto molti messaggi da parte di lettori che si erano immedesimati con il mio personaggio e volevano coindividere con me il loro entusiasmo, ma pochi di questi dedicavano qualche commento alle parti in cui compaiono le torri gemelle. Quel che è più importante, per me, è la novità che questo romanzo rappresenta dal punto di vista del mio stile. Alcuni dei miei primi racconti avevano come voce narrante un ragazzo alle prese con i disagi e le emozioni dell'adolescenza, ma in seguito nei romanzi ho sempre adottato un narratore onnisciente, perché mi sembrava più adatto a rendere conto dei diversi punti di vista. Nel caso di Questo dolore, invece, tutto viene filtrato dalla prospettiva e dalla sensibilità di un ragazzo di diciott'anni. Certo, ho deciso che James frequentasse
Qualche anno fa lei ha dichiarato: «Mi è successo talvolta di pensare che le mie opere dovrebbero dare più spazio alla politica, ma ogni volta che che ci ho provato si è rivelata una pessima idea». Le capita ancora di provarci?
No, mi sono messo il cuore in pace. Cerco invece di svolgere un lavoro politico al di fuori della mia attività di scrittore. Per quasi dieci anni, dal 1990 al 1998, ho lavorato con
La sua partecipazione al mondo dell'attivismo omosessuale, unita alla presenza costante di personaggi gay nelle sue opere, hanno fatto sì che negli ultimi anni lei sia stato inserito in antologie di narrativa gay, in raccolte di interviste gay, e indicato spesso come un esempio di «scrittura gay». È un destino che lei condivide con molti degli autori più significativi emersi dopo gli anni '90, da Michael Cunningham a Dale Peck. Cosa pensa dell'idea stessa di una «narrativa gay»?
Lei tocca una questione in cui sono intervenuti recentemente cambiamenti radicali. All'inizio degli anni '80 era impossibile pubblicare un libro con personaggi gay senza essere immediatamente definito «uno scrittore gay», categoria che in effetti indicava soprattutto «uno scrittore che scrive opere per gay»: era un modo di individuare un pubblico che potesse essere attratto dal quel genere di storie. Come a dire che per leggere Madame Bovary è necessario essere donne e preferibilmente adultere. Non credo ci siano legami particolari, al di là di alcune ricorrenze tematiche, tra autori come Cunningham, Peck o me. Mi sento molto più vicino ad autori come Gore Vidal e Edmund White che hanno avuto il coraggio di scrivere opere gay quando ancora lo scandalo che ne derivava era enorme, e così pure il prezzo da pagare in termini personali: è stato il loro coraggio ad aprire la strada ai tanti di noi che intendevano indagare la diversità e la ricchezza della natura umana, consentendoci il privilegio di potere assumere l'orientamento sessuale solo come uno tra i tanti aspetti significativi nel nostro rapporto con gli altri.
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