30.4.08

Penuria alimentare, un dossier di Le Monde diplomatique

«Abbiamo fame», un grido sempre più frequente nelle rivolte che, dall'Africa alle Filippine, dall'India ad Haiti, portano in piazza le masse popolari, colpite dalla «crisi del riso» e dalle scelte del Fondo Monetario

Geraldina Colotti

«Fmi-Faim», Fmi ovvero fame. Il Fondo monetario internazionale produce fame. Va diritto al cuore del problema l'editoriale di Serge Halimi, direttore di Le Monde diplomatique, nel numero di maggio della rivista internazionale - in uscita il 15, e per tutto il mese, insieme al manifesto. Sullo stesso tono il dossier centrale del Diplo che spiega con dati e cifre in quante lingue del pianeta si sta pronunciando il grido: «abbiamo fame». Dall'Africa ad Haiti, dall'Indonesia alle Filippine, quote sempre maggiori di popolazione sono colpite dalla penuria alimentare. E seppure un paese come l'Australia quest'anno promette un ottimo raccolto invernale di frumento (12,4 milioni di tonnellate), che farebbe sperare in un ribasso dei prezzi internazionali, anche il nord del pianeta non può sentirsi al sicuro. La rabbia delle popolazioni esplode, evidenziando la geografia e le cifre stratosferiche dei «rifugiati per fame».
In Senegal, le madri di famiglia che non hanno più niente da far bollire, marciano con le pentole rovesciate, che ogni sera risuonano in tutte le case come tamburi. In Egitto dove si protesta per il pane, l'opposizione islamista accusa il governo di aver provocato la crisi acquistando prodotti importati a minor prezzo dall'estero anziché dai produttori locali, che preferiscono coltivare frutta, più facilmente esportabile sui mercati internazionali. Ad Haiti, le rivolte per fame, a inizio aprile, hanno provocato cinque morti e duecento feriti e la destituzione del primo ministro Jacques-Edouard Alexis. E diversi paesi asiatici, specialmente Indonesia e Filippine, temono il moltiplicarsi di manifestazioni come quella che, all'inizio dell'anno, ha portato in piazza a Giakarta oltre 10.000 persone contro l'aumento del prezzo del tofu. Rivolte contro l'aumento del prezzo della soia, della carne, e soprattutto del riso. Nel dossier, gli articoli del giornalista Dominique Baillard ricordano i dati della Fao, l'Organizzazione delle Nazioni unite per l'agricoltura e l'alimentazione: per la prima volta dal 1989, il prezzo della varietà di riso «thaie», che fa da riferimento, ha superato i 500 dollari (320 euro). Paesi come le Filippine, primo importatore mondiale, sono in serie difficoltà in quanto l'offerta globale di riso (420 milioni di tonnellate) risulta al di sotto della domanda (almeno 430). Le riserve mondiali di riso - ricorda ancora il Diplo - hanno toccato il livello mondiale più basso da 25 anni: 70 milioni di tonnellate, la metà di meno di quelle del 2000.
Colpa dei cinesi che hanno cominciato a mangiare troppa carne? Colpa degli stati come l'Argentina che hanno scelto di «proteggere» i loro prodotti destinando meno quote all'esportazione e più al mercato interno? Si può condannare uno stato che scelga di nutrire i propri cittadini prima di sottostare ai diktat dei mercati internazionali? Il punto - mostra il dossier - è invece quello di indicare a chiare lettere il fallimento e i paradossi dei «piani di aggiustamento strutturale» imposti dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale. L'equazione: sviluppo solo a prezzo delle privatizzazioni di beni e servizi e di investimenti agevolati per le grandi imprese multinazionali, imposta al sud del mondo, ha portato alla situazione attuale. E ora, proprio la Banca mondiale, che «ha contribuito a indebolire gli agricoltori imponendo la liberalizzazione dell'economia», mette questo settore al centro degli sforzi per la lotta contro la povertà del pianeta nel suo rapporto sullo sviluppo del 2008. Paradossi in cui si dibattono anche gli stati in via di sviluppo dei 37 paesi minacciati dalla crisi alimentare.
In Costa d'Avorio, dal primo d'aprile le autorità hanno sospeso le tasse d'importazione per i generi di prima necessità come l'olio da tavola, il riso, il grano o lo zucchero. Il governo senegalese ha bloccato per un breve periodo il prezzo del pane nell'ottobre 2007. In Mali, si sperimenta invece il pane burunafama, farina di grano mista a cereali locali come il sorgo (immangiabile, dicono le associazioni dei consumatori). In Egitto, il governo ha sovvenzionato il pane e lo ha fatto distribuire dall'esercito. Misure che gravano sui già magri bilanci degli stati africani e che l'Fmi giudica «false soluzioni». Alcune realtà del sud, sperimentano però altre direzioni. Il Diplo ne dà conto, indicando i risultati raggiunti, per esempio, in Mali dalle scelte dei coltivatori di cotone. Rimettere l'agricoltura locale e la sicurezza alimentare al centro delle politiche economiche vuol dire porre il problema della sovranità e del controllo delle proprie risorse. Un tema che, in America latina, ha già prodotto risultati evidenti


ilmanifesto.it

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