11.5.08

Il ruolo dello scrittore, termometro di un'epoca

Nei suoi romanzi e nei suoi pamphlet Gore Vidal ha fatto del sarcasmo lo strumento con cui denunciare i vizi della società statunitense. Un dialogo con lo scrittore, ieri al Lingotto Non ci si può affidare solo all'immaginazione, un autore deve essere in grado di calarsi pienamente nel mondo in cui gli è capitato di vivere

Giuliano Battiston

Tanto schietto da risultare offensivo ai custodi del politicamente corretto, tanto ancorato alla sua indipendenza da apparire superbo agli occhi di quanti hanno abdicato, magari senza accorgersene, alla propria autonomia, Gore Vidal è abituato a vivere fuori dai ranghi. Nato a West Point nel 1935, l'autore di Myra Breckinridge, polemista e romanziere tra i più noti al mondo, ha infatti sempre esibito senza reticenze il proprio punto di vista, anche laddove sapeva che sarebbe stato considerato sovversivo «per aver dato voce troppo precocemente all'indicibile». Consapevole che nella scrittura non «ci si può mai disfare di se stessi», ha fatto del sarcasmo lo strumento con cui denunciare i vizi della società statunitense, «che è sempre stata insieme romantica e puritana». In questa audacia i suoi detrattori riconosceranno solo la maschera irriverente di uno scrittore talmente contraddittorio da arrivare a scrivere «non mi è mai piaciuto parlare di me» in un'opera autobiografica; chi ne ha seguito la lunga traiettoria intellettuale riconoscerà invece la coerenza - e semmai la debolezza - di un uomo animato «da una tendenza protettiva, quasi proprietaria» nei confronti della sua «terra natale e della sua politica». Abbiamo incontrato Gore Vidal alla Fiera del libro di Torino, dove ieri ha presentato il suo romanzo storico Il candidato, uscito negli Usa nel 1976 e ora tradotto per Fazi da Silvia Castoldi (pp. 582, euro 18).
In italiano molti dei suoi saggi letterari sono stati raccolti nel «Canarino e la miniera», che inizia con una citazione di un suo discorso: «Nelle miniere di carbone in America i minatori portano spesso con sé un canarino. Lo mettono nel pozzo, e quello canta. E se per caso smette di cantare, per i minatori è il momento di uscire, perché l'aria è velenosa. Per me, noi scrittori siamo canarini». Di quali doti deve disporre uno scrittore per essere un termometro sensibile alla temperie di un'epoca?
Innanzitutto l'intelligenza, una virtù che, come lo spirito critico, negli Stati Uniti così come in molti altri paesi oggi è quasi del tutto assente. Ricordo una bella fotografia e un articolo pubblicati anni fa da Vanity Fair in occasione della guerra in Iraq, in cui si diceva che i soli intellettuali veramente critici all'interno degli Stati Uniti erano Gore Vidal, Norman Mailer e Kurt Vonnegut. È curioso che gli unici dotati di una voce abbastanza forte, critica e autorevole da denunciare apertamente le scelte dell'amministrazione Bush fossero tre veterani della seconda guerra mondiale, molto in là con gli anni. Io ho inteso quell'articolo come un complimento, ma dovremmo riflettere sul periodo in cui viviamo. Intendo dire che non ci si può affidare solo alla creatività e all'immaginazione, qualità comuni anche ai bambini e agli insegnanti; uno scrittore dovrebbe essere in grado di calarsi pienamente nel mondo in cui gli è capitato di vivere, e di riflettere in modo costante sull'orientamento che esso prende nel corso del tempo.
Lei è autore di una affascinante «saga epica» sulla storia statunitense che gli editori sono soliti titolare «Cronache americane», e che lei invece definisce «Narratives of Empire». Sembrerebbe un lavoro animato dall'esigenza di colmare quel vacuum storico nel quale secondo lei vive da sempre il suo paese.
Credo che tutte le forme d'arte popolari in qualche modo cerchino di riempire questo vacuum; ho dedicato tanta attenzione alla storia degli Stati Uniti perché sono un estimatore della vecchia repubblica, di certo non uno di quelli che aspira alla rivoluzione. Il nostro sistema politico ha funzionato abbastanza bene per diverso tempo, fondandosi su alcuni principi legati alla tradizione costituzionale inglese della Magna Charta, la quale aveva stabilito quell'habeas corpus che in questi anni sia il governo inglese sia quello americano hanno snaturato, se non compromesso definitivamente. Nel caso degli Stati Uniti la cosa gravissima è che l'amministrazione Bush non solo ha sotterrato il fondamento morale del nostro sistema politico-legale, ma lo ha fatto con piena soddisfazione. D'altronde la storia ci insegna che può capitare che i paesi si trovino vittime di colpi di stato, o che finiscano nelle mani di dirigenti politici che non hanno alcun interesse a garantirne il benessere.
Negli ultimi anni lei ha scelto di usare quella che in «Dreaming War» definisce come «la più antica forma del discorso politico americano», il pamphlet, scrivendo diversi testi in cui critica aspramente le falsità dell'amministrazione Bush. Alla base della sua scelta c'è forse quell'idea di Montaigne - da lei più volte citata - secondo la quale «quello di mentire è un vizio maledetto»?
Non è un caso che citi così spesso quella frase. Nel caso di Bush, si tratta di un individuo tanto stupido da non riuscire a comprendere che quelle bugie non aiutano neanche lui, e non è detto che in futuro non possa essere chiamato a risponderne. Anche il fatto che sia un credente orienta il modo in cui governa la cosa pubblica, o forse sarebbe meglio dire il modo in cui non governa la cosa pubblica, visto che non ne ha nessun interesse. Diversi anni fa ho adattato per il teatro con il titolo di Romulus un dramma di Friedrich Dürrenmatt in cui si racconta come l'ultimo imperatore romano abbia condotto il suo impero alla distruzione, anche perché convinto che fosse ormai troppo corrotto, e che solo così lui avrebbe potuto espiare i suoi peccati. Mentre i suoi consiglieri lo avvertono, preoccupati, che i barbari sono alle porte, lui invece aspetta che arrivino, e guardando sul muro l'immagine che rappresenta l'impero dice loro: «Guardate cosa abbiamo costruito: tutto questo verrà meno con un solo gesto». In questo modo, finisce per mandare in pezzi l'impero. Credo che ci siano molte affinità tra l'atteggiamento di Romolo Augustolo e quello del nostro Bush.
Nel corso di tutta la sua attività, lei non ha mai smesso di occuparsi di temi legati alla sessualità. Eppure in un articolo pubblicato su «The Nation» nel 1991 aveva notato con preoccupazione di non essere ancora riuscito a spiegare cosa fosse veramente il sesso. Cosa aveva dimenticato di dire?
Un po' mi sorprende di aver scritto una cosa del genere, perché credo di essere riuscito a parlarne in modo sufficientemente completo. Tra quelli che più mi hanno influenzato ricordo comunque il dottor Kinsey, il primo che abbia tentato di demistificare l'argomento, tanto da analizzare anche l'orgasmo in modo scientifico. Anche Freud ha tentato di farlo, ma senza grande successo. Il potere, radicato nella cultura protestante dell'Inghilterra poi trasferita in New England, ha sempre usato strategicamente il sesso come un'arma politica, demonizzando gli atti sessuali per soffocare le istanze di libertà e per mandare in guerra il popolo. Il sesso è sempre stato il diavolo contro il quale, e grazie al quale, sono state combattute le guerre degli Stati Uniti, un paese che combina un cinismo brutale a un senso del peccato di origine puritana.

ilmanifesto.it

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