“E a proposito di rom”: nell’organizzazione favolistica che i telegiornali
danno al succedersi delle notizie (se così possono chiamarsi)
negli ultimi giorni almeno tre volte è capitato di sentire
questa frase usata per legare tra loro fatti di varia luttuosità e violenza
privi, nei tre casi, di un nesso specifico con gli zingari (in
un paio con rumeni e immigrati). Anche questo è un modo mascalzonesco
per ispessire il sordido zoccolo di pregiudizi su cui
sembra poggiare oggi il nostro paese, e che non da oggi è il
fondaccio da cui germinano imprese criminali di discriminazione
e persecuzioni. Ma oggi lo zoccolo sembra aver raggiunto
uno spessore senza precedenti. Un anno fa, dopo la morte dei
quattro bimbi zingari nell’accampamento di Livorno, SkyTg24
promosse un sondaggio. Si chiedeva: “Infuria la
polemica sui campi nomadi. Secondo te i rom
nelle nostre comunità vanno integrati o isolati?”.
“Isolati”, rispose il 79 per cento; “integrati”, il restante
21 per cento. Ora, un anno dopo, O Vurdòn,
un sito di cultura romanì curato da Sergio
Franzese, professore di sociologia a Lecce, pubblica
un sondaggio della Stampa tra i suoi lettori
(un’élite, per regione, censo, abitudine alla lettura):
“Siete d’accordo con il progetto, adottato dal
comune di Torino, di aiutare i nomadi in regola
con il permesso di soggiorno a trovare casa concedendo,
come avviene per altri cittadini, sgravi
dell’Ici al proprietario che accetta il contratto?”. È bello sapere
che un comune italiano si comporta in modo civile. Meno belle
sono le risposte (pubblicate il 13 maggio): solo il 15 per cento si
è detto d’accordo, l’85 per cento si è detto contrario.
È un paradosso nazionale, uno di quelli che rendono dificilmente
leggibile il nostro paese. In Europa l’Italia è di gran
lunga il paese con il più alto indice di diversità linguistica nativa:
ha una presenza ancora viva dei diversi dialetti tra il 60 per
cento della popolazione, ha 14 minoranze linguistiche di antico
insediamento (due milioni di persone) e solo di recente ha
adottato un’unica lingua, l’italiano, nell’uso parlato quotidiano.
Non è solo un dato sociologico-linguistico. Come vide uno
dei nostri massimi studiosi del novecento, Gianfranco Contini,
questa diversità è “visceralmente” unita al costruirsi della tradizione
letteraria italiana. Non solo: prima di ogni convenzione
internazionale, l’articolo 6 della costituzione del 1948 volle dare
spazio e riconoscimento alla diversità delle minoranze linguistiche.
Questa diversità non è nata oggi o solo da qualche secolo. Se
anche altri paesi d’Europa e del mondo sono stati attraversati
da ondate di migranti d’altre lingue e stirpi, l’Italia, più di ogni
altro (un paragone forse è l’India), i migranti li ha accolti. Per la
sua geograia tormentata e fratta ha offerto loro nicchie e plaghe
più estese già dalla preistoria, ha lasciato che si fondesserono tre volte è capitato di sentire
questa frase usata per legare tra loro fatti di varia luttuosità e violenza
privi, nei tre casi, di un nesso speciico con gli zingari (in
un paio con rumeni e immigrati). Anche questo è un modo mascalzonesco
per ispessire il sordido zoccolo di pregiudizi su cui
sembra poggiare oggi il nostro paese, e che non da oggi è il
fondaccio da cui germinano imprese criminali di discriminazione
e persecuzioni. Ma oggi lo zoccolo sembra aver raggiunto
uno spessore senza precedenti. Un anno fa, dopo la morte dei
quattro bimbi zingari nell’accampamento di Livorno, SkyTg24
promosse un sondaggio. Si chiedeva: “Infuria la
polemica sui campi nomadi. Secondo te i rom
nelle nostre comunità vanno integrati o isolati?”.
“Isolati”, rispose il 79 per cento; “integrati”, il restante
21 per cento. Ora, un anno dopo, O Vurdòn,
un sito di cultura romanì curato da Sergio
Franzese, professore di sociologia a Lecce, pubblica
un sondaggio della Stampa tra i suoi lettori
(un’élite, per regione, censo, abitudine alla lettura):
“Siete d’accordo con il progetto, adottato dal
comune di Torino, di aiutare i nomadi in regola
con il permesso di soggiorno a trovare casa concedendo,
come avviene per altri cittadini, sgravi
dell’Ici al proprietario che accetta il contratto?”. È bello sapere
che un comune italiano si comporta in modo civile. Meno belle
sono le risposte (pubblicate il 13 maggio): solo il 15 per cento si
è detto d’accordo, l’85 per cento si è detto contrario.
È un paradosso nazionale, uno di quelli che rendono difficilmente
leggibile il nostro paese. In Europa l’Italia è di gran
lunga il paese con il più alto indice di diversità linguistica nativa:
ha una presenza ancora viva dei diversi dialetti tra il 60 per
cento della popolazione, ha 14 minoranze linguistiche di antico
insediamento (due milioni di persone) e solo di recente ha
adottato un’unica lingua, l’italiano, nell’uso parlato quotidiano.
Non è solo un dato sociologico-linguistico. Come vide uno
dei nostri massimi studiosi del novecento, Gianfranco Contini,
questa diversità è “visceralmente” unita al costruirsi della tradizione
letteraria italiana. Non solo: prima di ogni convenzione
internazionale, l’articolo 6 della costituzione del 1948 volle dare
spazio e riconoscimento alla diversità delle minoranze linguistiche.
Questa diversità non è nata oggi o solo da qualche secolo. Se
anche altri paesi d’Europa e del mondo sono stati attraversati
da ondate di migranti d’altre lingue e stirpi, l’Italia, più di ogni
altro (un paragone forse è l’India), i migranti li ha accolti. Per la
sua geografia tormentata e fratta ha offerto loro nicchie e plaghe
più estese già dalla preistoria, ha lasciato che si fondessero
con le popolazioni già insediate fino in buona parte a dissolversi
in esse lentamente e lasciando tracce soltanto nella varietà
delle parlate. Quest’è l’Italia, un melting pot storico millenario,
che potrebbe, che dovrebbe avere la fierezza di questa sua diversità
interna, costitutiva. E invece non ce l’ha.
Le mezzecalzette intellettuali non risparmiano silenzi e
ostilità per la diversità linguistica. La povera gente, ma anche
parte dei ceti benestanti, le segue, da Udine a Livorno, da Napoli
a Milano. Nel paese delle reali diversità storiche
e linguistiche l’ostilità soffia verso tutto ciò
che appare diverso: perfino le varietà d’uso dell’italiano,
perfino i dialetti nazionali ne vengono
colpiti e, poi, a crescere, le minoranze linguistiche
di antico insediamento, le minoranze di nuova
immigrazione e, su tutti e più di tutti, gli zingari.
Ai molti di loro che, come i loro fratelli, cercano
una residenza stabile e si sedentarizzano, dal Piemonte
al Molise, non si perdona di non essere più
nomadi e a chi di loro è ancora vagante non si perdona
il nomadismo. Privi di uno standard scritto
unitario, le loro parlate sono molteplici e mal afferrabili.
Orrore, orrore nel paese degli analfabeti. Li teniamo
ai margini e però rimproveriamo loro di essere marginali.
In romanì, cioè nelle parlate zingare, porajmos “devastazione”
designa per eccellenza il tentativo nazista di sterminare nei
lager gli zingari già perseguitati da tempo (perseguitati anche
dal nostro patrio fascismo, come hanno mostrato gli studi di
Mirella Karpati, Giovanna Boursier e altri). È l’equivalente di
shoah. Si calcola che mezzo milione di zingari d’ogni paese ne
siano stati vittima. La tentazione del porajmos è tra noi, non
sottovalutiamola. Rimbalza in internet in questi giorni una
vecchia poesia attribuita da alcuni a Bertolt Brecht, ma che in
realtà è del pastore Martin Niemöller, morto pochi anni fa. Anche
il testo circola con delle varianti, ma il senso comunque è
chiaro. Ritraducendo dal tedesco: “Quando presero gli ebrei,
non dissi niente; non ero in effetti un ebreo./ Quando presero
gli zingari, non dissi niente: non ero in effetti uno zingaro./
Quando presero i comunisti, non dissi niente, mica ero comunista./
Quando presero gli omosessuali, non dissi niente: mica
ero un omosessuale./ Quando presero i socialisti, non dissi nulla:
non ero un socialista./ Quando presero me, non c’era più
nessuno che avrebbe potuto dire qualcosa”
internazionale.it
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