di Marco Fortis
Nel 2006-2007, poco prima che la più grande crisi mondiale degli ultimi ottant'anni avesse inizio, il made in Italy aveva raggiunto straordinarie posizioni di preminenza nel commercio internazionale. Ma questo fatto è ancor oggi sconosciuto alla maggioranza dell'opinione pubblica, in Italia e all'estero. E, probabilmente, anche se fosse noto, passerebbe ormai in secondo piano di fronte al devastante impatto della recessione economica, che ha attirato su di sé ogni attenzione. E invece è importante conoscere quale peso il nostro sistema produttivo aveva saputo riconquistare sui mercati mondiali dopo il temporaneo appannamento d'inizio decennio, causato dalla concorrenza asimmetrica asiatica. Perché è proprio dai nostri punti di forza – quelli nuovi e quelli ritrovati – che dovremo e potremo ripartire per agganciare il treno della ripresa: ne abbiamo tutti i mezzi e le possibilità.
Dopo un eccezionale biennio di crescita, il valore dell'export italiano ha superato nel 2007 il livello record di 500 miliardi di dollari. Ma la cosa più importante è che il 47% di questo valore è stato realizzato in oltre mille prodotti (1.022 per la precisione) in cui l'Italia figura nei primi tre posti al mondo tra i paesi esportatori.
Quello delle mille nicchie d'eccellenza del made in Italy è un primato sconosciuto, che smentisce una volta per tutte le tesi sul presunto declino dell'Italia che sono andate di moda negli ultimi anni. È un primato che emerge da un nuovo indice di competitività elaborato per la Fondazione Edison (Indice Fortis-Corradini delle eccellenze competitive nel commercio internazionale). Si tratta di un indicatore che è in grado di misurare istantaneamente e con un alto livello di dettaglio il numero di prodotti in cui ciascun paese è primo, secondo o terzo esportatore mondiale. L'indagine si basa sulle informazioni della banca dati sul commercio internazionale dell'Onu e prende come riferimento i 5.517 prodotti scambiati a livello globale. Per il momento, l'anno dell'indagine è il 2007, in attesa che siano disponibili per tutti i paesi del mondo le statistiche aggiornate al 2008 (anno in cui, per inciso, l'export italiano è ulteriormente salito a 537 miliardi di dollari, toccando un altro record).
Nel 2007 l'Italia è risultata seconda soltanto alla Germania per numero complessivo di primi, secondi e terzi posti nell'export mondiale ogni 100mila abitanti, precedendo Francia e Corea del Sud.
In termini assoluti, il nostro paese è invece stato: primo esportatore mondiale di 288 prodotti (valore complessivo del nostro export di questi beni: 100 miliardi di dollari), secondo esportatore di 382 prodotti (per 79 miliardi) e terzo esportatore di altri 352 prodotti (per 56 miliardi). In totale: 1.022 nicchie d'eccellenza per un valore complessivo delle nostre esportazioni di 235 miliardi di dollari. La forza del "made in Italy" si completa con altri 737 prodotti in cui il nostro paese nel 2007 figurava quarto o quinto tra gli esportatori a livello mondiale, per altri 87 miliardi di dollari di export.
Sappiamo che a molti l'idea di un'Italia che eccelle nelle "nicchie" non piace, mentre piacerebbe invece un'utopica Italia dotata di gruppi multinazionali di grandissima taglia. A parte l'oggettiva impossibilità di una trasformazione del nostro paese in questa direzione (dato che storicamente i pochi grandi gruppi che avevamo, casomai, li abbiamo persi per strada: Montedison e Olivetti ne sono esempi) bisognerebbe capire per quali ragioni l'Italia dovrebbe oggi svoltare verso un improbabile gigantismo industriale (settori delle reti e delle infrastrutture strategiche a parte) snaturando la sua identità. Vorremmo forse avere anche noi grandi gruppi multinazionali dell'industria e del commercio che creano occupazione prevalentemente fuori dal loro paese e frequentemente trattengono i loro profitti negli ultimi paradisi fiscali esotici, con ciò apportando scarsi benefici al proprio Pil nazionale?
La realtà è che in Italia abbiamo invece bisogno soprattutto di un consolidamento dimensionale e patrimoniale delle nostre medie e medio-grandi imprese distribuite sul territorio, questo sì; ma nulla di più per continuare ad eccellere nella competizione mondiale come sappiamo fare benissimo. Non è un'opinione, lo dicono le statistiche. Non le vecchie aggregazioni di dati che si usavano nel XX secolo, dove le categorie di riferimento erano i maxi-settori aggregati come il tessile, la chimica, l'auto o l'elettronica, mentre si conosceva ben poco dei singoli comparti e delle nicchie dei diversi sistemi produttivi. Le statistiche che ci servono per capire l'economia del XXI secolo devono invece avere altissimi livelli di disaggregazione, spingendosi sino al dettaglio delle diverse migliaia di prodotti. Sono queste nuove statistiche che ci raccontano che solo tre paesi (Germania, Cina e Stati Uniti) hanno fatto meglio dell'Italia nel 2007 quanto a numero di primi, secondi e terzi posti nell'export mondiale e solo quattro paesi (i tre precedentemente citati più il Giappone) hanno fatto registrare valori complessivi di export superiori a quelli dell'Italia nei beni in cui essi figurano tra i primi tre esportatori mondiali (escludendo il petrolio greggio e il gas naturale).
La forza del "made in Italy", dunque, sta proprio nelle tanto poco apprezzate "nicchie" e nell'elevata diversificazione delle sue specializzazioni, che afferiscono soprattutto ai macrosettori delle "4 A" (Alimentari-vini, Abbigliamento-moda, Arredo-casa e Automazione-meccanica-gomma-plastica), ma anche ad altri comparti importanti come la metallurgia, la carta e la chimica-farmaceutica.
Migliaia d'imprese medio-grandi, medie e piccole sono le protagoniste di questo successo che ci permette di competere con paesi che possono schierare molti più gruppi di grandi dimensioni e di rilievo multinazionale rispetto all'Italia, ma che non possiedono la nostra capacità di essere flessibili e operativi in centinaia di tipologie di prodotti, dalle caratteristiche "quasi sartoriali". È in questi ambiti d'attività che emergono come fattori vincenti del "made in Italy" la creatività, l'innovazione, la qualità, il design e una spiccata "artigianalità industriale", cioè la capacità di realizzare beni quasi "su misura" per i clienti, anche in settori hi-tech come la meccanica o i mezzi di trasporto.
Per un paese come l'Italia, che possiede poche imprese in grado di andare a produrre all'estero e di vendere estero su estero, l'export rappresenta tuttora la strada maestra per conquistare quote di mercato nel mondo, oltre che per continuare a generare occupazione e reddito in patria.
L'Italia, come tutti i paesi, sta oggi soffrendo a causa della più grave crisi mondiale dai tempi del 1929. Ma questa crisi non ci farà perdere la capacità di saper fare meglio degli altri paesi i "mestieri" in cui eccelliamo a livello internazionale. Ed è proprio da questi "mestieri", di cui sono ricchi i nostri territori e i nostri distretti, che può e deve partire la nostra riscossa.
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