11.1.10

In viaggio con Ahamadu

Pierangelo Sapegno (inviato de La Stampa a Crotone)

Tu hai occhi buoni», dice. Ma lo dice come se volesse capire, non perché ci crede. Ore 13, stazione di Crotone. Ci sono un po’ di neri che bivaccano.
Qualcuno rovista nei cassonetti dei rifiuti, altri aiutano delle macchine a parcheggiare per chiedere pochi euro. Abbiamo appena offerto a Ahamadu Ndiaye un passaggio. Lui vuole andare a Brescia, dove ci sono dei senegalesi come lui, di Dakar, di Touba. Gli abbiamo proposto metà viaggio: «Ti lascio a Roma Termini. Vai su da lì». Ma lui non si fida. «No, resto qui», dice. Gli facciamo vedere il tesserino: «Sono un giornalista». Attorno, sono venuti altri ragazzi di colore. Guardano e non dicono niente. Non c’è un sorriso, occhi stanchi, facce tristi. Ahmadu mi porge una statuetta in legno, un piccolo elefante: «Questo porta fortuna. Devi metterlo rivolto verso la finestra. Porta via tutto il male dalla tua casa». Lo prendo e gli do 5 euro, prima di insistere: «Ti pago il viaggio, se vuoi. A me serve per lavoro». Strano. Non c’è nessuno che si offre al posto suo. Ascoltano come rassegnati, come se questa che scivola sotto i loro occhi non fosse altro che l’ennesima puntata del loro calvario.
Ahmadu fa spallucce, appoggiandosi al paraurti posteriore della Mito, e si passa pollice e indice sulla radice del naso. Un tipo ossuto dal viso magro e butterato sotto una capigliatura nera tagliata a spazzola. Un giovanotto di campagna, con la maglietta dell’estate color senape e una giaccavento sopra che gli deve aver regalato qualcuno assieme al sacco a pelo che tiene in mano. «Io sono un regolare», sussurra. Fa vedere anche lui un tesserino. Dice che viene solo se può portare un amico. Deve aver paura, pensa che in due potrà difendersi. Gli dico va bene. Yousuf Bamba, 27 anni, si siede dietro, dopo le presentazioni, con la valigia sulle gambe. Stanno tutt’e due zitti, come se andassero al patibolo, mentre un briciolo di sole spunta galleggiando fra le nuvole, sopra i vigneti, dopo Torretta e verso Marina di Strongoli, nella luce che viene dal mare, oltre gli uliveti. Gli chiedo di Rosarno, e loro dicono solo che «è stato terribile». Poi, una volta passata Rossano, quando si cominciano a vedere gli agrumeti, Ahmadu si mette a raccontare la sua vita da disperato, dentro a baracche di cartone e bambù, in un ex deposito diroccato, senza nemmeno un tetto, in mezzo al fango e ai topi. Dice: «A Natale c’era la carcassa di un montone, sgozzato da un macellaio maghrebino. Per quello c’era tanta puzza». Ricorda che di notte strisciava in un pertugio per andare a dormire e che al mattino venivano a sceglierli per portarli al lavoro. «Arrivavano e ci dicevano chi doveva andare. Ci davano 20 euro al giorno. Ma si lavorava 12 ore, perché si tornava dopo le 8 di sera. E poi dovevamo pagare il trasporto: due euro e mezzo all’andata e due euro e mezzo al ritorno. I viaggi erano organizzati dai padroni». Qualcuno, per risparmiare quei soldi, si faceva tutto il tragitto a piedi. Ma era una tortura, «perché arrivavano dei ragazzi con il motorino e cominciavano a zigzagare intorno, a darti dei calci, a sputarti addosso e a insultarti. Ci dicevano sporco negro, ci gridavano di far vedere l’uccello, di tirarlo fuori. Se qualcuno reagiva, dopo un po’ arrivavano in gruppo con dei bastoni. C’erano dei buoni e dei cattivi a Rosarno, come dappertutto. A Natale sono venuti in cento a portarci dei regali, a farci da mangiare. C’era chi aveva chiesto una bici per andare al lavoro. Ma anche in bici era la stessa tortura: ti si avvicinavano con una macchina, aprivano lo sportello di scatto e ti buttavano a terra. Poi restavano lì a ridere e insultarti».
Quello che è successo in questi giorni è stato solo il culmine, aggiunge Yousuf. «E’ da sempre che ci sparavano dietro». Adesso siamo sulla Salerno-Reggio, l’autostrada del nulla: anche questa è l’Italia. Fa freddo, e fra un po’ comincerà a piovere. Quando ci fermiamo per mangiare, anch’io mi sento un po’ negro. Ci guardano come dei nemici. Loro due siedono attorno al tavolino in silenzio, sgranocchiando l’ultimo cornetto come se fosse un pezzo di cartone ricoperto di zucchero. Ascoltano le mie domande, ma rispondono con dei monosillabi. Però, quando risaliamo in macchina hanno ripreso coraggio. Alla radio c’è Jovanotti e Ahmadu canta anche lui. Mi parla di Dio che è uguale per tutti, e poi della democrazia, come se fosse la stessa cosa, una religione. «State perdendo la democrazia», mi dice. Già. Devo far benzina. Da dietro una Ford che si allontana da una pompa, spunta un tappo con le gambe storte, una camicia caki ben stirata e dei jeans dalla piega a lama di coltello. Sulla sessantina scarsa, tarchiato, faccia smunta e spalle esili. Si muove in diagonale con aria curiosa. Salve. Poi guarda dentro, i volti neri, e non parla più. Il pieno, dico io. Lui fa una smorfia. Chiedo ad Ahamadu: vorresti tornare a casa? «Sì», risponde lui. «Perché ho voglia di piangere». Lo guardo, prima di riaccendere il motore. «Vorrei stringere mia madre, i miei fratelli, il mio vecchio. Vorrei solo piangere».

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