4.2.11

Egitto, l’ora della rivoluzione

di Jonathan Schell, traduzione di Laura Franza (da MicroMega)

Se il mondo ha un cuore, adesso sta battendo per l’Egitto. Certamente non per quello del presidente Mubarak, delle elezioni truccate, della stampa censurata, del blocco agli accessi internet, dei poliziotti vestiti di nero, dei carri armati e delle stanze di tortura, ma per l’Egitto dei comuni cittadini coraggiosi, quasi totalmente disarmati, che con poco più della loro pura presenza fisica in piazza e delle loro preghiere, stanno sfidando l’intero apparato intimidatorio e violento in nome della giustizia e della libertà. Il loro coraggio e sacrificio fa rinascere quello spirito non violento e democratico di resistenza alla dittatura che già trovò la sua espressione simbolica nella caduta del Muro di Berlino nel 1989. Quell’evento di fatto divenne il simbolo di una lunga stagione di rivoluzioni che, spandendosi a macchia d’olio, spazzò via dozzine di dittatori, dalle Filippine alla Polonia, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Recentemente quel contagio globale sembrava stesse venendo meno. Oggi in tutto il mondo i dittatori al potere sono di nuovo sulla difensiva. In Arabia Saudita la monarchia comincia a guardarsi le spalle. Lo Yemen ha ricevuto il preavviso. In Cina la parola ‘Egitto’ è stata cancellata da internet: "gli autocrati egiziani hanno tolto internet all’Egitto; gli autocrati cinesi hanno tolto l’Egitto da internet" (the Guardian, liveblog, 31 gennaio).

L' Egitto manifesta a pieno il mistero profondo e forse insondabile della rivoluzione. Per decenni le strutture di uno Stato oppressivo sovrastano la società, assassine, imperturbabili, implacabili. Le stanze della tortura lavorano 24 ore al giorno. La ricchezza del paese fluisce in conti segreti all’estero. Chi è ricco e privilegiato vive contento nelle riservate cerchie dei suoi simili. “Il lamento del soldato sventurato scorre via nel sangue giù per le mura del palazzo” (London, di William Blake). Spesso il sovrano accetta servilmente d’entrare nel libro paga di uno straniero. La nebbia della propaganda riempie l’aria come un gas venefico. Ritratti del Capo ricoprono i palazzi degli uffici pubblici. Una burocrazia irresponsabile intrappola il paese con migliaia di assurdi regolamenti. Al Kremlino mentre Leonid Brehnev dorme russando, con la sua ‘mano morta’ sfiora il bottone atomico. Imelda Marcos vive in comunione con le tremila paia di scarpe della sua gigantesca scarpiera. Ben Alì sorseggia cocktails nella sua tenuta ad Hammamet. Sembra che nulla debba mai cambiare, possa mai cambiare. Per usare le parole di Nadezhda Mandelstam a proposito del sistema staliniano “C’era una strana forma di letargia patologica, una malattia infettiva, una trance ipnotica o comunque la si voglia chiamare, che investiva chiunque commettesse azioni terribili. Assassini, provocatori, e informatori avevano tutti una caratteristica comune: non accadeva mai che un giorno le loro vittime potessero levarsi ancora e parlare”. Soltanto poche voci ‘dissidenti’ disturbano quella quiete, e la maggior parte di loro è in prigione o in esilio.

Ma poi improvvisamente una scossa percorre l’intero edificio. Poche migliaia di persone scendono in piazza, poi sono decine di migliaia, poi, come per magia, centinaia di migliaia in tutto il paese. In qualche modo questa ribellione – esplosa in soli pochi giorni – diventa sufficiente. Il suo spirito sembra toccare il nervo di un’intera nazione, che si risveglia, e con una facilità sorprendente si sbarazza di un regime a lungo odiato ma tollerato. (Nella vicina Tunisia, la miccia che ha innescato la bomba egiziana, ci sono voluti soli 23 giorni dall’inizio al momento in cui Ben Alì è salito sul suo aereo diretto in Arabia Saudita). Improvvisamente, tutte le regole cambiano, tutti i vecchi rapporti di autorità e dipendenza vengono rovesciati, e le strutture di potere cominciano a dissolversi. In seguito, gli studiosi scopriranno ‘segni’ di quanto stava per accadere e persino ‘cause’ dell’evento, ma di fatto le rivoluzioni sono tra tutti gli eventi quelli meno previsti in anticipo, e ogni volta prendono il mondo alla sprovvista.

Comunque sappiamo ancora poco di quanto sta accadendo in questi momenti. Un popolo a lungo intimorito da una violenza di Stato si libera delle paure e, in un baleno, comincia a comportarsi in modo coraggioso. Il coraggio diventa contagioso quanto lo era una volta la paura e improvvisamente milioni di persone mettono in atto comportamenti di sfida e disobbedienza. A quel punto le ordinanze del dittatore non contano più e allora lui chiama l’aereo e fugge in Arabia Saudita. Per dirla con Hanna Arendt “La situazione cambia bruscamente. Non solo la ribellione non è domata, ma le armi stesse cambiano di mano, a volte, come nella rivoluzione ungherese, nel giro di poche ore ... Il drammatico crollo improvviso del potere che dà inizio alla rivoluzione rivela di colpo come l’obbedienza civile – alle leggi, ai legislatori, alle istituzioni – non è altro che un aspetto esteriore di consenso e appoggio” (Hannah Arendt, On Violence).

L’Egitto è chiaramente giunto a questa fase. E’ opinione comune ormai dire che tutto dipende dalla decisione dell’esercito di intervenire o meno. Cosa certamente vera in parte. Molto spesso l’ora della fine di un dittatore coincide con quella in cui i militari, coinvolti nello stato d’animo che permea il resto del paese, rifiutano di obbedire agli ordini oppure passano dall’altra parte [della barricata]. Ecco perché è tanto più significativo che già in molte occasioni in Egitto la folla, che intona “in pace, in pace” abbia abbracciato i soldati, quegli stessi che hanno poi permesso apertamente alla gente di salire sui carri armati nelle piazze, facendo il segno “V” per ‘vittoria’. “Il popolo, l’esercito: tutti dalla stessa parte”, intonano i manifestanti, pieni di speranza. Però in verità l’esercito nello scenario attuale è un secondo attore, il protagonista è sempre il popolo.
Questo spiega come mai alcuni titoli di stampa che recitano: l’Egitto è nel ‘caos’, si stanno sbagliando. Mai prima d’ora l’Egitto è stato teatro di tanta determinazione, mai è stato più risoluto.

E il governo degli Stati Uniti? Disperso in campo. Scagliandosi contro “la violenza da ogni parte” esso ha mancato in un primo momento di fare una scelta tra il popolo e il suo oppressore. L’amministrazione Obama ha dato prova di un totale errore di posizione quasi in forma caricaturale: embedded, meglio sarebbe dire direttamente in bed with (a letto con), con il potere costituito. In buona fede, all’inizio considera i poteri - quelli forti della società - per scontati e inamovibili. Poi comincia a trattare. (In tema di salute tratta con Big Pharma, in tema di finanza con Wall Street, in tema di guerra con i generali in capo, primo fra tutti David Petraeus). Poi quando il governo ha debitamente incassato la sua metà o magari una sola fetta della torta - una riforma sanitaria svuotata, i regolamenti finanziari stravolti, una data per il ritiro dall’Afghanistan vaga comprata con un aumento d’organico delle truppe – si rimette al buon cuore di questi poteri.

Nel caso in questione, il potere con cui il governo Usa si è invischiato è quello del dittatore egiziano Hosni Mubarak, alleato degli Stati Uniti da un trentennio, periodo nel quale ha ricevuto aiuti per oltre 60 miliardi di dollari. Persino mentre la folla stava affrontando la polizia in tutto l’Egitto, il segretario di Stato Clinton ha annunciato che il governo Mubarak era ‘stabile’– mostrando così ancora una volta la notevole capacità della mente umana di non vedere la realtà evidente davanti ai propri occhi e di sostituirla con le tranquillizzanti falsità che si vuole vedere. Il vicepresidente Joe Biden ha continuato nella stessa scìa dichiarando lui 'non avrebbe definito Mubarak un dittatore'. In seguito Obama ha invocato una "transizione ordinata" e che questa "inizi ora".

Instaurare un nuovo ordine delle cose è per certo un affare notoriamente difficile. Chiunque sa che il percorso di una rivoluzione è a zigzag, e che il risultato finale potrebbe non essere gradito. Il potere si sta disintegrando. E' nelle piazze. Qualcuno lo coglierà. Si creerà una nuova struttura, nel bene o nel male, e la lista di stati illegittimi usciti da una rivoluzione è lunga. Ma nulla finora nel comportamento degli egiziani nelle piazze ci spinge a prevedere che gli eventi prendano una tale piega. Per ora dobbiamo esprimere loro solidarietà.

Il tempo delle decisioni si avvicina. Nel momento in cui scrivo due grandi eserciti, il popolo egiziano e l'esercito egiziano, coesistono con difficoltà per le strade e le piazze del paese. I sicari fedeli a Mubarak sono stati sguinzagliati per attaccare i dimostranti. "1989" significa anche il massacro degli attivisti per i diritti civili a piazza Tienanmen in Cina. Oppure, come dobbiamo credere e sperare, lo spirito che anima il popolo può alla fine penetrare le più riposte cittadelle del potere, che si piegherà, dando vita a un ordine nuovo e migliore.

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