13.2.11

Omar Suleiman: non è questo il cambiamento

Original Version: Suleiman: Change you can’t believe in
by Raouf Ebeid (egiziano-americano direttore del sito “Political Islam Online)

Il vicepresidente egiziano Omar Suleiman ha finalmente annunciato le dimissioni di Hosni Mubarak; ma chi gestirà la transizione verso la democrazia? Solo pochi giorni fa, l’analista egiziano-americano Raouf Ebeid aveva ammonito contro le intenzioni golpiste di Suleiman, affermando che un Egitto guidato da lui rischierebbe di non essere più democratico di quello di Mubarak

Pochi giorni dopo l’inizio della rivolta in Egitto, il capo dei servizi di intelligence Omar Suleiman comprese che gli si presentava un’occasione d’oro. Egli poteva marginalizzare il presidente egiziano Mubarak, distruggere le aspirazioni della moglie, Suzanne Mubarak, di vedere suo figlio Gamal succedere al padre, e sbarazzarsi di tutta la nuova guardia del governo egiziano, rappresentata dalla cricca affaristica, opportunista e corrotta di Gamal Mubarak. La lotta intestina tra la vecchia guardia rappresentata da Mubarak padre e dai suoi anziani generali, e la nuova guardia rappresentata da Mubarak figlio e dai suoi giovani uomini d’affari, non era più un segreto per nessuno in Egitto. Suleiman si rese anche conto che poteva infliggere un colpo mortale a uno dei suoi più formidabili nemici. Il potere in continua espansione del ministro degli interni Habib El Adly, sostenuto dal suo impopolare apparato della sicurezza interna e della polizia, forte di più di un milione di uomini, rappresentava un ostacolo sulla strada di Suleiman. Quest’ultimo considerò correttamente che una popolazione che ne aveva abbastanza della tirannia della sicurezza interna avrebbe accolto l’esercito come un liberatore piuttosto che come un oppressore.
La machiavellica orchestrazione degli eventi da parte di Suleiman fu brillante. Egli doveva spingere il presidente Mubarak a nominarlo vicepresidente ed a promettere che non avrebbe cercato la rielezione, ma anche che avrebbe allontanato Gamal e la sua cricca dal governo. Le pressioni esercitate sul padre affinché si rivoltasse contro il figlio devono essere state enormi. Suleiman sapeva che avrebbe potuto realizzare tutto ciò solo grazie al peso dell’esercito, e all’incitamento e alla benedizione degli Stati Uniti. Anche il presidente Mubarak avrebbe dovuto andarsene, ma a tempo debito. Allontanare subito il presidente avrebbe reso Suleiman il bersaglio primario delle ire del popolo in piazza, una cosa che egli voleva evitare. A Suleiman, Mubarak serviva come una polizza sulla vita che garantisse che sarebbe stato quest’ultimo ad essere condannato per qualunque cosa di male il governo avesse ancora inflitto alla popolazione.
Per raggiungere questo obiettivo, Suleiman ritenne che fosse consigliabile cercare l’aiuto del tenente generale Sami Enan, che era in visita negli Stati Uniti lo scorso gennaio, e che ebbe incontri di alto livello con i funzionari del Pentagono nei primi giorni della rivolta. Il generale è il comandante in seconda del feldmaresciallo Tantawi, ministro della difesa considerato onesto e competente. Enan, nato nel 1948, è più giovane di Suleiman, ed è anche sufficientemente rispettato da essere stato citato per ironia della sorte dai Fratelli Musulmani, questa settimana, come un presidente accettabile per l’Egitto – un’affermazione che è stata uno schiaffo in faccia a Suleiman. Spiegando la situazione a Enan, probabilmente Suleiman lo spinse fare pressioni sui suoi omologhi a Washington affinché accettassero di sbarazzarsi di Mubarak e del suo governo, e acconsentissero alla nomina di Suleiman come vicepresidente ad interim. Anche l’apparato di intelligence di cui egli è a capo entrò in azione, fornendo informazioni alla CIA sulle precarie condizioni di salute di Mubarak. Per lungo tempo la CIA è stata dipendente dai servizi di intelligence di Suleiman in Egitto per combattere il terrorismo, e la sua capacità di effettuare valutazioni indipendenti è stata probabilmente carente. La Casa Bianca ed Enan procedettero secondo i piani e senza intoppi, e Mubarak, preso alla sprovvista dalla rapidità degli eventi e posto di fronte al fatto compiuto, si sentì costretto a conformarsi ai desideri di Suleiman annunciando alla TV di Stato che non si sarebbe presentato per una rielezione, e che non si sarebbe candidato nemmeno suo figlio.
Essendosi sbarazzato di tutti i suoi avversari nel governo nel giro di 72 ore, Suleiman doveva ancora affrontare i disordini nelle strade e le reazioni occidentali a questi eventi. A tal fine, egli adottò quella che aveva considerato la tattica più efficace fino a quel momento: agitare lo spauracchio degli islamisti e di forze esterne, additandoli come i principali istigatori, sebbene fosse ovvio che la rivolta era in gran parte laica, e guidata solo dagli egiziani. I Fratelli Musulmani furono gli ultimi arrivati alle manifestazioni, e per Suleiman – paradossalmente – sarebbero stati un nemico più facile da combattere rispetto agli sconosciuti elementi laici e nazionalisti che si opponevano al regime. Con quel fermo tono paternalistico ma sbrigativo che gli egiziani sono ormai abituati ad ascoltare da parte dei loro governanti, egli continuò anche a denigrare le azioni delle forze di sicurezza cercando nel frattempo di fare appello al sentimentalismo degli egiziani. Infine, egli sapeva di poter fare affidamento su Israele e sulla lobby ebraica per far spostare a suo favore il discorso politico negli Stati Uniti.
Dopo il discorso in cui Mubarak aveva concesso tutto ciò che Suleiman aveva chiesto, l’anziano presidente probabilmente è divenuto prigioniero nel suo stesso palazzo. Sembra che il cancelliere tedesco, consapevole della situazione, avesse proposto di far volare Mubarak in Germania per ragioni di salute. Ma Suleiman non ne ha voluto sapere. Egli ha detto enfaticamente ai giornalisti che Mubarak sarebbe rimasto in Egitto, essenzialmente sotto il suo controllo. Mubarak poteva essere ancora utile per rilasciare dichiarazioni e apparire in qualche evento ufficiale privo di sostanza, pur non avendo più alcun potere. Suleiman aveva intenzione di usare le dimissioni di Mubarak come ultima carta per pacificare la popolazione, qualora le manifestazioni fossero continuate.
Suleiman, tuttavia, è stato colto di sorpresa quando alcuni giorni fa il presidente americano, ansioso di un cambiamento democratico di fronte agli eventi di Piazza Tahrir, ha dichiarato che il cambiamento deve cominciare “adesso”. Per Suleiman, tutti i cambiamenti a cui egli aspirava avevano già avuto luogo. Egli sapeva, tuttavia, che Israele e la lobby ebraica avrebbero ben presto cominciato a mobilitarsi contro un cambiamento democratico in Egitto. I rischi sono troppo grandi – avrebbero spiegato a Obama – e l’Egitto non è Gaza: non si può correre il rischio di un esito imprevisto. Ben presto abbiamo visto i talk show e i mezzi di informazione USA scivolare dal tema della democrazia e della simpatia per il popolo egiziano in piazza, al tema della sicurezza di Israele e della minaccia rappresentata dai Fratelli Musulmani.
Gli israeliani hanno anche detto chiaramente che ElBaradei non è un sostituto accettabile. Essi non hanno mai perdonato il premio Nobel egiziano. Egli, con i suoi rapporti accurati ed equilibrati mentre era a capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, probabilmente impedì all’amministrazione Bush tre anni fa di lanciare gli Stati Uniti in un’altra guerra – questa volta contro l’Iran – su richiesta di Israele. ElBaradei sapeva che l’Iran era una minaccia, ma non così imminente come veniva istericamente dipinta allora, e il tempo gli ha dato ragione. Suleiman sapeva anche che ElBaradei non aveva l’appoggio dei militari: semplicemente non era uno di loro. Sebbene fosse popolare tra le masse laiche in Egitto, l’amministrazione USA lo ha ignorato.
Essendosi convinto che fosse negli interessi degli USA, Obama era ormai pronto ad abbracciare Suleiman come nuovo leader dell’Egitto. Rimpiazzando la parola “democrazia”, parole come “stabilità”, “cautela”, e “transizione ordinata” stavano diventando l’ordine del giorno dell’amministrazione USA. I dittatori, tuttavia, non sono abituati a dover rendere conto delle loro parole, e Suleiman ha ben presto dimostrato a sufficienza di non essere un’eccezione. Quando gli è stato chiesto: “Lei crede nella democrazia?”, ha risposto: “Certamente; ma la farete…quando il popolo qui avrà la cultura della democrazia”. Mentre l’eco delle sue parole rimbalzava in Egitto e nel mondo, l’opinione pubblica americana si rendeva lentamente conto che Suleiman non ha interesse ad avere al timone un governo democraticamente eletto. Essa ha compreso che se Suleiman governerà l’Egitto come hanno fatto tutti gli altri prima di lui, egli sarà il nuovo Faraone, con tutte le diseguaglianze e il dispotismo del vecchio regime, e che il governo USA, a dispetto di tutta la sua retorica sulla democrazia, appoggerà un altro dittatore a spese delle aspirazioni del popolo egiziano. Quando Suleiman insieme al ministro degli esteri Abul Gheit ha minacciato i dimostranti, ammonendoli che se l’opposizione non parteciperà al dialogo con lui alle condizioni da lui stabilite, e non porrà fine alle manifestazioni, ci sarà un colpo di stato nel paese, ironicamente egli stava facendo riferimento al golpe che aveva già architettato. L’esercito e l’apparato dei servizi segreti, con lui alla guida, avevano già assunto il controllo. Le sue osservazioni erano semplicemente una velata minaccia sulla legge marziale e sulla possibilità di legittimare il golpe.
Ciò che l’Occidente non comprende è che la “democrazia” per i vertici egiziani è una democrazia “à la de Tocqueville”. Secondo de Tocqueville, democrazia significa “uguaglianza di condizioni” piuttosto che elezioni politiche sulla base del principio “una persona, un voto”. Significa bilanciare le ingiustizie accumulatesi negli ultimi trent’anni, sbarazzarsi della corruzione e del dispotismo nella sfera pubblica e privata, e creare opportunità più eque nella ricerca di un impiego e nelle opportunità di investimento.
Personalmente continuo a ritenere che i Fratelli Musulmani possano rappresentare un pericolo per l’Egitto, e che la loro influenza su una popolazione in cui il tasso di analfabetismo supera il 30% non deve essere sottovalutata, soprattutto alle elezioni locali. Il loro peso potrebbe tuttavia essere ridimensionato se il governo ed altre istituzioni laiche fossero anch’essi in grado di fornire un sistema di protezione sociale analogo a quello che i Fratelli Musulmani offrono alla popolazione nel settore della salute e dell’assistenza sociale. L’istruzione è anch’essa una chiave per contrastare l’arretratezza – che sia religiosa o meno. Se ai giovani membri dei Fratelli Musulmani venissero offerte opportunità economiche, credo che sarebbero aperti ad un funzionamento pacifico della società e a dei compromessi democratici senza per questo abbandonare necessariamente le loro convinzioni religiose. Bisognerebbe inoltre notare che anche migliaia di cristiani stanno partecipando alla rivolta, sebbene essi nutrano dei sospetti nei confronti dei Fratelli Musulmani. Essi vogliono cogliere l’opportunità di un Egitto più equo e progressista.
Gli aiuti militari americani degli ultimi trent’anni all’Egitto non sono stati nient’altro che uno scandalo morale e una cantonata geostrategica di enormi proporzioni. Alcuni dei fondi che gli USA forniscono all’Egitto dovrebbero essere impiegati per assicurare personale agli ospedali, costruire scuole e sviluppare un sistema di protezione sociale laico.
I giovani egiziani hanno il diritto e l’opportunità di dimostrare che Suleiman si sbaglia quando afferma che l’Egitto non è pronto per la democrazia. Se realmente crediamo nella democrazia e nei diritti umani, abbiamo il dovere di aiutare gli egiziani a disegnare il proprio destino, e di appoggiare la loro aspirazione ad una vita migliore. Se non appoggiamo le forze laiche che sono all’opera ed emarginiamo gente come ElBaradei e molte altre rispettate personalità che chiedono il cambiamento, potremo biasimare solo noi stessi se i Fratelli Musulmani rimarranno la principale forza di opposizione in Egitto.
Invece di affidarci a Suleiman e volgere le spalle al popolo, dovremmo spingere qualche rispettato generale come Enan a giocare un ruolo importante nel convincere l’esercito a sovrintendere ad una transizione pacifica che porti ad una soluzione che sia accettabile per le forze laiche guidate da ElBaradei, per i Fratelli Musulmani, e molto probabilmente anche per i giovani di Piazza Tahrir. Sarebbe invece un tradimento permettere al golpe di Suleiman di avere successo.
Raouf Ebeid, egiziano-americano, è direttore del sito “Political Islam Online”; questo articolo è apparso originariamente il 09/02/2011

Nessun commento: