Giuseppe Acconcia
Intervista. Il filosofo anarchico americano: «È tutta propaganda occidentale, i veri alleati degli Usa sono gli Stati sunniti. Per l’Iran il nucleare è solo un deterrente nei confronti di Israele»
Abbiamo raggiunto al telefono negli Stati uniti Noam Chomsky. Linguista, anarchico e filosofo del Massachusettes Institute of Technology, Chomsky è autore di pietre miliari del pensiero moderno e teorico per una profonda critica del sistema mediatico. Memorabile è il suo dibattito sulla natura umana con Michel Foucault (1971). Abbiamo discusso con Chomsky dell’intesa preliminare sul programma nucleare iraniano, raggiunta giovedì a Losanna e della situazione del Medio Oriente.
Che ne pensa di questa danza sul nucleare iraniano, andata avanti per dodici anni?
L’Iran sospetta che nonostante l’accordo, i Repubblicani si rifiuteranno di cancellare le sanzioni. E così l’obiettivo principale delle autorità iraniane è che le sanzioni non siano sotto il controllo del Congresso: questa sarebbe una tragedia. Vedremo se questo punto ci sarà nel testo definitivo. La mia sensazione è che tutto il negoziato sul nucleare sia una farsa. Non c’è nessun motivo per cui l’Iran non possa avere un programma nucleare secondo il Trattato di non proliferazione (Tnp) che ha sottoscritto.
Perché parla di farsa in riferimento ai colloqui sul nucleare?
Gli Stati uniti e i suoi alleati affermano che la comunità internazionale ha chiesto all’Iran di fare delle concessioni per arrivare a un’intesa. Ma i Paesi non allineati, che rappresentano il 70% della popolazione mondiale, hanno sempre sostenuto gli sforzi nucleari iraniani. Eppure la propaganda occidentale è uno strumento potente, per questo è andata avanti per tanto tempo questa farsa.
La soluzione della controversia potrebbe disinnescare il settarismo che infiamma il Medio Oriente?
La questione centrale è che gli stati sunniti sono i principali alleati degli Stati uniti. Gli amici degli Usa sono i fondamentalisti più estremisti e vogliono dominare la regione. L’Iran è un grande paese, e come la Cina, aspetta per avere un’influenza nella regione. Ma l’Arabia Saudita non vuole mai e poi mai un antagonista, un deterrente. Anche se l’Iran avesse l’atomica, quale sarebbe la preoccupazione per gli Stati uniti? Si tratterebbe solamente di un deterrente. Nessuno pensa che mai e poi mai l’Iran potrà fare uso dell’arma nucleare, perché il paese sarebbe vaporizzato all’istante e gli ayatollah di certo non vogliono suicidarsi. Un Iran con il nucleare sarebbe solo un deterrente contro l’aggressività di Israele nella regione. È questo che gli Stati uniti non vogliono.
Ma Netanyahu non passa giorno che non gridi contro l’intesa con l’Iran e ora la respinge?
Israele persegue una politica sistematica di conquista di tutto quello che vuole per integrarlo nella Grande Israele in violazione dei trattati di Oslo. Gaza è devastata. Queste politiche sono appoggiate dagli Stati uniti e, se continueranno a sostenere Israele, non cambieranno mai. In queste settimane, tutta la stampa mainstream Usa ha pubblicato articoli in cui si chiedeva agli Stati uniti di attaccare l’Iran. Perché la stampa iraniana non fa lo stesso? Il presupposto occidentale è l’imperialismo. In nome di questo principio all’Occidente tutto è permesso.
Esistono due posizioni opposte tra Repubblicani e l’amministrazione Obama nei conflitti in Medio oriente?
I Repubblicani sono un partito fascista. Lo stesso Barack Obama è terribile ma meno dei Repubblicani. Il principale errore di Obama però è la sua campagna con i droni. Se l’Iran facesse lo stesso contro gli ufficiali citati negli articoli della stampa Usa, come reagirebbero gli Stati uniti? La guerra dei droni è la più grande operazione terroristica mai esistita: programmata per uccidere chiunque sia sospettato di poterci danneggiare. Le operazioni con droni in Pakistan faranno crescere il numero dei jihadisti. Quando hanno iniziato, al-Qaeda era solo nelle zone tribali di Afghanistan e Pakistan ora è in tutto il mondo. Ma di questo non si può parlare nei media occidentali.
Crede che bisogna temere l’avanzata degli Houthi in Yemen?
In Yemen è vero che l’Iran dà sostegno agli Houthi, lo stesso fa l’Arabia Saudita con i suoi, sebbene alla fine si tratti di un conflitto interno. Nella propaganda occidentale però se gli Stati uniti sostengono una forza quella è legittima. In Iraq, l’Iran sostiene il governo eletto. I consiglieri iraniani formano la classe dirigente irachena e sono protagonisti delle principali battaglie nel paese. Il governo iracheno ha chiesto l’aiuto iraniano e ringrazia le sue autorità. Ma gli Stati uniti condannano l’influenza iraniana in Iraq: è davvero comico.
Crede che questo atteggiamento occidentale alimenti il terrorismo dello Stato islamico?
Lo Stato islamico è una mostruosità, ma non è niente di più che una società off-shore dell’Arabia Saudita che propaga una versione estremista, wahabita, dell’Islam. Da Riad arrivano tonnellate di soldi e l’ideologia per diffondere il fondamentalismo nel mondo arabo. Certo a questo punto neppure ai sauditi piace quello che hanno creato. Questa è la conseguenza diretta dei devastanti attacchi degli Stati uniti in Iraq del 2003 e degli attacchi della Nato in Libia del 2011 che hanno esasperato il conflitto sunniti-sciiti diffondendolo in tutta la regione. In Libia questo ha comportato l’incremento del numero di milizie e una quantità di armi senza precedenti che provengono da Africa e Medio oriente. I bombardamenti della Nato hanno fatto aumentare il numero delle vittime di dieci volte, hanno distrutto la Libia. In Yemen ora Arabia Saudita ed Emirati stanno uccidendo una grande quantità di persone nei campi profughi. Ma anche questa guerra è destinata a fallire e non può comportare altro che la diffusione del jihadismo.
Pochi mesi fa non parlavamo di terrorismo ma di «primavere». Esiste un rapporto tra i movimenti sociali europei e le rivolte in Medio Oriente?
Ci sono delle similitudini. Il maggior esempio del passato è l’America latina: completamente sotto il controllo degli Stati uniti che imponevano dittatori dappertutto. Ora il Sud America è abbastanza libero dal controllo straniero. Questo è uno sviluppo di grande importanza. Molti politici latino-americani sono legati ai partiti Podemos in Spagna e Syriza in Grecia. Combattono tutti la stessa battaglia contro il neo-liberismo. Ma la reazione tedesca alla vittoria di Tsipras in Grecia è selvaggia, ipocrita. Nel 1953 l’Europa concesse alla Germania di tagliare gli interessi sul debito. Ma ora impone misure repressive alla Grecia dopo che Berlino l’ha devastata nella seconda guerra mondiale.
Mentre i movimenti in Medio Oriente sono finiti con il ritorno dei dittatori, come il presidente egiziano al-Sisi?
Stati uniti ed Europa hanno sostenuto i più brutali dittatori in tutto il mondo. In questo momento in Egitto si vivono i giorni più bui della sua storia moderna. Questo è l’imperialismo tradizionale, il potere della propaganda non è cambiato. I giornali in Europa lo descrivono come un modello nonostante sia un assassino brutale, un dittatore duro che ha represso la popolare organizzazione dei Fratelli musulmani mentre nel Sinai si continua a consumare una guerra.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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4.4.15
20.1.15
Chomsky: Paris attacks show hypocrisy of West's outrage
By Noam Chomsky* (CNN)
*[Noam Chomsky is Institute Professor Emeritus in the Department of Linguistics and Philosophy at Massachusetts Institute of Technology. His most recent book is "Masters of Mankind." His web site is www.chomsky.info. The views expressed in this commentary are solely his.]
After the terrorist attack on Charlie Hebdo, which killed 12 people including the editor and four other cartoonists, and the murder of four Jews at a kosher supermarket shortly after, French Prime Minister Manuel Valls declared "a war against terrorism, against jihadism, against radical Islam, against everything that is aimed at breaking fraternity, freedom, solidarity."
*[Noam Chomsky is Institute Professor Emeritus in the Department of Linguistics and Philosophy at Massachusetts Institute of Technology. His most recent book is "Masters of Mankind." His web site is www.chomsky.info. The views expressed in this commentary are solely his.]
After the terrorist attack on Charlie Hebdo, which killed 12 people including the editor and four other cartoonists, and the murder of four Jews at a kosher supermarket shortly after, French Prime Minister Manuel Valls declared "a war against terrorism, against jihadism, against radical Islam, against everything that is aimed at breaking fraternity, freedom, solidarity."
Millions
of people demonstrated in condemnation of the atrocities, amplified by a
chorus of horror under the banner "I am Charlie." There were eloquent
pronouncements of outrage, captured well by the head of Israel's Labor
Party and the main challenger for the upcoming elections, Isaac Herzog,
who declared that "Terrorism is terrorism. There's no two ways about
it," and that "All the nations that seek peace and freedom [face] an
enormous challenge" from brutal violence.

Noam Chomsky
The
crimes also elicited a flood of commentary, inquiring into the roots of
these shocking assaults in Islamic culture and exploring ways to
counter the murderous wave of Islamic terrorism without sacrificing our
values. The New York Times described the assault as a "clash of
civilizations," but was corrected by Times columnist Anand Giridharadas,
who tweeted
that it was "Not & never a war of civilizations or between them.
But a war FOR civilization against groups on the other side of that
line. #CharlieHebdo."
The scene in Paris was described vividly in the New York Times
by veteran Europe correspondent Steven Erlanger: "a day of sirens,
helicopters in the air, frantic news bulletins; of police cordons and
anxious crowds; of young children led away from schools to safety. It
was a day, like the previous two, of blood and horror in and around
Paris."
Erlanger
also quoted a surviving journalist who said that "Everything crashed.
There was no way out. There was smoke everywhere. It was terrible.
People were screaming. It was like a nightmare." Another reported a
"huge detonation, and everything went completely dark." The scene,
Erlanger reported, "was an increasingly familiar one of smashed glass,
broken walls, twisted timbers, scorched paint and emotional
devastation."
These last quotes,
however -- as independent journalist David Peterson reminds us -- are
not from January 2015. Rather, they are from a report by Erlanger on April 24 1999,
which received far less attention. Erlanger was reporting on the NATO
"missile attack on Serbian state television headquarters" that "knocked
Radio Television Serbia off the air," killing 16 journalists.
"NATO and American officials defended the attack," Erlanger reported,
"as an effort to undermine the regime of President Slobodan Milosevic
of Yugoslavia." Pentagon spokesman Kenneth Bacon told a briefing in
Washington that "Serb TV is as much a part of Milosevic's murder machine
as his military is," hence a legitimate target of attack.
There
were no demonstrations or cries of outrage, no chants of "We are RTV,"
no inquiries into the roots of the attack in Christian culture and
history. On the contrary, the attack on the press was lauded. The highly
regarded U.S. diplomat Richard Holbrooke, then envoy to Yugoslavia,
described the successful attack on RTV as "an enormously important and, I
think, positive development," a sentiment echoed by others.
There
are many other events that call for no inquiry into western culture and
history -- for example, the worst single terrorist atrocity in Europe
in recent years, in July 2011, when Anders Breivik, a Christian
ultra-Zionist extremist and Islamophobe, slaughtered 77 people, mostly
teenagers.
Also
ignored in the "war against terrorism" is the most extreme terrorist
campaign of modern times -- Barack Obama's global assassination campaign
targeting people suspected of perhaps intending to harm us some day,
and any unfortunates who happen to be nearby. Other unfortunates are
also not lacking, such as the 50 civilians reportedly killed in a U.S.-led bombing raid in Syria in December, which was barely reported.
One
person was indeed punished in connection with the NATO attack on RTV --
Dragoljub Milanović, the general manager of the station, who was
sentenced by the European Court of Human Rights to 10 years in prison
for failing to evacuate the building, according to the Committee to Protect Journalists. The International Criminal Tribunal for Yugoslavia considered
the NATO attack, concluding that it was not a crime, and although
civilian casualties were "unfortunately high, they do not appear to be
clearly disproportionate."
The
comparison between these cases helps us understand the condemnation of
the New York Times by civil rights lawyer Floyd Abrams, famous for his
forceful defense of freedom of expression. "There are times for
self-restraint," Abrams wrote,
"but in the immediate wake of the most threatening assault on
journalism in living memory, [the Times editors] would have served the
cause of free expression best by engaging in it" by publishing the
Charlie Hebdo cartoons ridiculing Mohammed that elicited the assault.
Abrams
is right in describing the Charlie Hebdo attack as "the most
threatening assault on journalism in living memory." The reason has to
do with the concept "living memory," a category carefully constructed to
include Their crimes against us while scrupulously excluding Our crimes against them -- the latter not crimes but noble defense of the highest values, sometimes inadvertently flawed.
This
is not the place to inquire into just what was being "defended" when
RTV was attacked, but such an inquiry is quite informative (see my A New
Generation Draws the Line).
There are many other illustrations of the interesting category "living memory." One is provided by the Marine assault against Fallujah in November 2004, one of the worst crimes of the U.S.-UK invasion of Iraq.
The assault opened with occupation of Fallujah General Hospital,
a major war crime quite apart from how it was carried out. The crime
was reported prominently on the front page of the New York Times,
accompanied with a photograph depicting how "Patients and hospital
employees were rushed out of rooms by armed soldiers and ordered to sit
or lie on the floor while troops tied their hands behind their backs."
The occupation of the hospital was considered meritorious and justified:
it "shut down what officers said was a propaganda weapon for the
militants: Fallujah General Hospital, with its stream of reports of
civilian casualties."
Evidently, this is no assault on free expression, and does not qualify for entry into "living memory."
There
are other questions. One would naturally ask how France upholds freedom
of expression and the sacred principles of "fraternity, freedom,
solidarity." For example, is it through the Gayssot Law, repeatedly
implemented, which effectively grants the state the right to determine
Historical Truth and punish deviation from its edicts? By expelling
miserable descendants of Holocaust survivors (Roma) to bitter
persecution in Eastern Europe? By the deplorable treatment of North
African immigrants in the banlieues of Paris where the Charlie Hebdo
terrorists became jihadis? When the courageous journal Charlie Hebdo
fired the cartoonist Siné on grounds that a comment of his was deemed to
have anti-Semitic connotations? Many more questions quickly arise.
Anyone
with eyes open will quickly notice other rather striking omissions.
Thus, prominent among those who face an "enormous challenge" from brutal
violence are Palestinians, once again during Israel's vicious assault on Gaza in
the summer of 2014, in which many journalists were murdered, sometimes
in well-marked press cars, along with thousands of others, while the
Israeli-run outdoor prison was again reduced to rubble on pretexts that
collapse instantly on examination.
Also
ignored was the assassination of three more journalists in Latin
America in December, bringing the number for the year to 31. There have
been more than a dozen journalists killed in Honduras
alone since the military coup of 2009 that was effectively recognized
by the U.S. (but few others), probably according post-coup Honduras the
per capita championship for murder of journalists. But again, not an
assault on freedom of press within living memory.
It
is not difficult to elaborate. These few examples illustrate a very
general principle that is observed with impressive dedication and
consistency: The more we can blame some crimes on enemies, the greater
the outrage; the greater our responsibility for crimes -- and hence the
more we can do to end them -- the less the concern, tending to oblivion
or even denial.
Contrary to the
eloquent pronouncements, it is not the case that "Terrorism is
terrorism. There's no two ways about it." There definitely are two ways
about it: theirs versus ours. And not just terrorism.
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19.3.14
Noam Chomsky sulla Crimea: «Altro che feroce invasione»
Pio d'Emilia, (il manifesto)
Intervista. Il professore del Massachusetts Institute of Technology sui nuovi venti di guerra oriente-occidente, accusa i giornalisti di asservimento al pensiero comune e gli Usa di doppiopesismo
Di «passaggio» a Tokyo per una serie di affollatissime conferenze, abbiamo chiesto a Noam Chomsky, professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, il suo parere sui nuovi «venti di guerra» tra Occidente e Oriente, che agitano il pianeta. E non solo per quel che riguarda la crisi ucraina e ora la Crimea.
L’Occidente sembra essere preoccupato da quello che qualcuno ha definito il «fascismo» di Putin.
E mentre tornano i toni da guerra fredda, la situazione, in Crimea, rischia di precipitare…
Non solo in Crimea, direi che anche qui, in Asia orientale, la tensione è altissima, tira una bruttissima
aria. Il recente riferimento del premier Shinzo Abe — per il quale non nutro particolare stima
— alla situazione dell’Europa prima del primo conflitto mondiale è più che giustificato. Perché le
guerre possono anche scoppiare per caso, o a seguito di un incidente, più o meno provocato. Quanto
alla Crimea, faccio davvero fatica ad associarmi all’indignazione dell’occidente. Leggo in questi
giorni editoriali assurdi, a livello di guerra fredda, che accusano i russi di essere tornati sovietici,
parlano di Cecoslovacchia, Afghanistan. Ma dico, scherziamo? Per un giornalista, un commentatore
politico, scrivere una cosa del genere, oggi, significa avere sviluppato una capacità di asservimento
e subordinazione al «pensiero comune» che nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginare. Ma come
si fa? Mi sembra di essere tornato ai tempi della Georgia, quando i russi, entrando in Ossezia e occupando
temporaneamente parte della Georgia, fermarono quel pazzo di Shakaashvili, a sua volta (mal)
«consigliato» dagli Usa. I russi, all’epoca, evitarono l’estensione del conflitto, altro che «feroce
invasione».
Per carità, tutto sono tranne che un filo russo o un fan di Putin: ma come si permettono gli Stati uniti,
dopo quello che hanno fatto in Iraq – dove dopo aver mentito spudoratamente al mondo intero sulla
storia delle presunte armi di distruzioone di massa, sono intervenuti senza un mandato Onu
a migliaia di chilometri di distanza per sovvertire un regime – a protestare, oggi, contro la Russia?
Voglio dire, non mi sembra che ci siano state stragi, pulizie etniche, violenze diffuse. Io mi chiedo:
ma perché continuamo a considerare il mondo intero come nostro territorio, che abbiamo il diritto,
quasi il dovere di «controllare» e, nel caso, modificare a seconda dei nostri interessi? Non è cambiato
nulla, alla Casa Bianca e al Pentagono, sono ancora convinti che l’America sia e debba essere
la guida – e il gendarme – del mondo.
A proposito di minacce, oltre alla Russia, anche la Cina e il Giappone fanno paura? Chi dobbiamo
temere di più?
Dobbiamo temere di più gli Stati uniti. Non ho alcun dubbio, e del resto è quanto ritengono il 70%
degli intervistati di un recente sondaggio internazionale svolto in Europa e citato anche dalla Bbc.
Subito dopo ci sono Pakistan e India, la Cina è solo quarta. E il Giappone non c’è proprio. Questo
non significa che quello che stanno facendo, anzi per ora, per fortuna, solo dicendo i nuovi leader
giapponesi non siano pericolose e inaccettabili provocazioni. Il Giappone ha un passato recente che
non è ancora riuscito a superare e di cui i paesi vicini, soprattutto Corea e Cina non considerano
chiuso, in assenza di serie scuse e soprattutto atti di concreto ravvedimento dal parte del Giappone.
Proprio in questi giorni leggo sui giornali che il governo, su proposta di alcuni parlamentari, ha
intenzione di rivedere la cosiddetta «dichiarazione Kono», una delle poche dichiarazioni che ammetteva,
esprimendo contrizione e ravvedimento, il ruolo dell’esercito e dello stato nel rastrellare decine
di migliaia di donne coreane, cinesi e di altre nazionalità e costrigendole a prostutirsi per «ristorare»
le truppe al fronte.
Già, le famose «donne di ristoro», tuttavia ogni paese ha i suoi scheletri. In Italia pochi sanno che
siamo stati i primi a gasare i «nemici» e anche inglesi e americani non scherzano, quanto a crimini
di guerra nascosti e/o ignorati
Assolutamente d’accordo. Solo che un conto è l’ignoranza, l’omissione sui testi scolastici, un conto
è il negazionismo: insomma, in Germania se neghi l’olocausto rischi la galera, in Giappone se neghi il
massacro di Nanchino rischi di diventare premier.
Intervista. Il professore del Massachusetts Institute of Technology sui nuovi venti di guerra oriente-occidente, accusa i giornalisti di asservimento al pensiero comune e gli Usa di doppiopesismo
Di «passaggio» a Tokyo per una serie di affollatissime conferenze, abbiamo chiesto a Noam Chomsky, professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, il suo parere sui nuovi «venti di guerra» tra Occidente e Oriente, che agitano il pianeta. E non solo per quel che riguarda la crisi ucraina e ora la Crimea.
L’Occidente sembra essere preoccupato da quello che qualcuno ha definito il «fascismo» di Putin.
E mentre tornano i toni da guerra fredda, la situazione, in Crimea, rischia di precipitare…
Non solo in Crimea, direi che anche qui, in Asia orientale, la tensione è altissima, tira una bruttissima
aria. Il recente riferimento del premier Shinzo Abe — per il quale non nutro particolare stima
— alla situazione dell’Europa prima del primo conflitto mondiale è più che giustificato. Perché le
guerre possono anche scoppiare per caso, o a seguito di un incidente, più o meno provocato. Quanto
alla Crimea, faccio davvero fatica ad associarmi all’indignazione dell’occidente. Leggo in questi
giorni editoriali assurdi, a livello di guerra fredda, che accusano i russi di essere tornati sovietici,
parlano di Cecoslovacchia, Afghanistan. Ma dico, scherziamo? Per un giornalista, un commentatore
politico, scrivere una cosa del genere, oggi, significa avere sviluppato una capacità di asservimento
e subordinazione al «pensiero comune» che nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginare. Ma come
si fa? Mi sembra di essere tornato ai tempi della Georgia, quando i russi, entrando in Ossezia e occupando
temporaneamente parte della Georgia, fermarono quel pazzo di Shakaashvili, a sua volta (mal)
«consigliato» dagli Usa. I russi, all’epoca, evitarono l’estensione del conflitto, altro che «feroce
invasione».
Per carità, tutto sono tranne che un filo russo o un fan di Putin: ma come si permettono gli Stati uniti,
dopo quello che hanno fatto in Iraq – dove dopo aver mentito spudoratamente al mondo intero sulla
storia delle presunte armi di distruzioone di massa, sono intervenuti senza un mandato Onu
a migliaia di chilometri di distanza per sovvertire un regime – a protestare, oggi, contro la Russia?
Voglio dire, non mi sembra che ci siano state stragi, pulizie etniche, violenze diffuse. Io mi chiedo:
ma perché continuamo a considerare il mondo intero come nostro territorio, che abbiamo il diritto,
quasi il dovere di «controllare» e, nel caso, modificare a seconda dei nostri interessi? Non è cambiato
nulla, alla Casa Bianca e al Pentagono, sono ancora convinti che l’America sia e debba essere
la guida – e il gendarme – del mondo.
A proposito di minacce, oltre alla Russia, anche la Cina e il Giappone fanno paura? Chi dobbiamo
temere di più?
Dobbiamo temere di più gli Stati uniti. Non ho alcun dubbio, e del resto è quanto ritengono il 70%
degli intervistati di un recente sondaggio internazionale svolto in Europa e citato anche dalla Bbc.
Subito dopo ci sono Pakistan e India, la Cina è solo quarta. E il Giappone non c’è proprio. Questo
non significa che quello che stanno facendo, anzi per ora, per fortuna, solo dicendo i nuovi leader
giapponesi non siano pericolose e inaccettabili provocazioni. Il Giappone ha un passato recente che
non è ancora riuscito a superare e di cui i paesi vicini, soprattutto Corea e Cina non considerano
chiuso, in assenza di serie scuse e soprattutto atti di concreto ravvedimento dal parte del Giappone.
Proprio in questi giorni leggo sui giornali che il governo, su proposta di alcuni parlamentari, ha
intenzione di rivedere la cosiddetta «dichiarazione Kono», una delle poche dichiarazioni che ammetteva,
esprimendo contrizione e ravvedimento, il ruolo dell’esercito e dello stato nel rastrellare decine
di migliaia di donne coreane, cinesi e di altre nazionalità e costrigendole a prostutirsi per «ristorare»
le truppe al fronte.
Già, le famose «donne di ristoro», tuttavia ogni paese ha i suoi scheletri. In Italia pochi sanno che
siamo stati i primi a gasare i «nemici» e anche inglesi e americani non scherzano, quanto a crimini
di guerra nascosti e/o ignorati
Assolutamente d’accordo. Solo che un conto è l’ignoranza, l’omissione sui testi scolastici, un conto
è il negazionismo: insomma, in Germania se neghi l’olocausto rischi la galera, in Giappone se neghi il
massacro di Nanchino rischi di diventare premier.
24.1.14
I sassi nello stagno di Noam Chomsky
Francesco Ferretti (il manifesto)
Festival delle scienze. In occasione dell’incontro che il grande linguista americano avrà domani all’Auditorium di Roma con Andrea Moro, una discussione sulle sue tesi, alle luce delle critiche avanzate da diversi fronti
Quando visitiamo un paese in cui si parla una lingua molto diversa dalla nostra è facile provare un
senso di forte estraneità: la difficoltà di farsi capire e di comprendere ciò che gli altri dicono alimenta
in noi la convinzione che le lingue parlate da comunità diverse siano tra loro molto eterogenee
e che gli individui che appartengono a comunità distinte siano molto diversi tra loro a causa
delle lingue che parlano. Una convinzione di questo tipo, oltre alla plausibilità intuitiva facilmente
esperibile da chiunque, ha dalla sua un modello teorico consolidato: il relativismo culturale.
Poiché a rendere gli umani ciò che sono è la cultura che li distingue e non la biologia che li accomuna,
per i fautori del relativismo culturale l’idea stessa di «natura umana» è fuorviante, se non
addirittura priva di senso: come ebbe a dire Clifford Gertz in Interpretazione di culture (Il Mulino,
1987) «tutto ciò che gli umani hanno in comune è il loro essere profondamente diversi».
Dire che le caratteristiche salienti degli individui dipendono dalla cultura, significa sostenere che gli
individui sono ciò che sono in forza di ciò che apprendono: il linguaggio, per il tratto sociale che lo
caratterizza, è l’esempio principe di questa ipotesi interpretativa.
La conformità dei modelli teorici alle intuizioni del senso comune ha determinato per decenni uno
stato di calma piatta. Poi, all’improvviso, il classico sasso nello stagno ha rotto l’incantesimo causando
un terremoto concettuale. Nel 1959 Chomsky commentò in poche pagine Il comportamento
verbale di Burrhus Skinner (Armando, 2008) dimostrando che l’idea del linguaggio fondata sulla
tabula rasa e sul ruolo costitutivo dell’apprendimento non regge alla prova dei fatti. A fare le spese
della critica di Chomsky, oltre a Skinner, è l’intero movimento teorico da lui rappresentato: se lo
schema stimolo-risposta non spiega il linguaggio umano allora il comportamentismo va bene per
i piccioni o i ratti di laboratorio, non per dar conto della natura degli individui della nostra specie.
Il «problema di Platone»
Da quella recensione in poi, il modo di intendere il linguaggio è cambiato radicalmente. Le capacità
verbali umane sono considerate oggi affare della biologia, prima che della cultura: poiché le lingue
storico-naturali hanno una natura ancillare rispetto alla facoltà di linguaggio, la verbalizzazione
umana è un frammento della mente-cervello, non l’effetto di pratiche comunicative comunitarie. La
variabilità linguistica che appare in tutta evidenza nel visitare paesi assai diversi dal nostro è un
falso indizio di diversità: il contrasto di cui facciamo esperienza riguarda soltanto il codice espressivo,
la struttura di superficie del linguaggio. La sostanza della verbalizzazione umana, tuttavia,
è rintracciabile nella sua struttura profonda, la Grammatica Universale: l’insieme di regole e principi
che governano il funzionamento della mente-cervello nei processi di produzione e comprensione linguistica.
Quando spostiamo l’attenzione dal codice espressivo al dispositivo bio-cognitivo che
governa l’acquisizione e il corretto funzionamento delle nostre capacità verbali, la diversità linguistica
lascia il posto all’idea che il linguaggio sia una caratteristica universale (come la postura
eretta) della nostra specie.
A dar man forte a Chomsky contro il relativismo culturale è l’innatismo del linguaggio: la Grammatica
Universale è un dispositivo di elaborazione presente sin dalla nascita nella mente-cervello degli
umani. Tutto il percorso concettuale di Chomsky, in effetti, può essere considerato una difesa di ciò
che il linguista americano ha chiamato il «problema di Platone»: capire come dar conto di ciò che gli
umani sanno a partire dalle limitate esperienze che hanno. Il linguaggio non può essere spiegato in
termini di apprendimento perché lo stimolo verbale è troppo povero per giustificare le sofisticate
competenze linguistiche di cui (molto presto) dispone il bambino.
Gli argomenti di Chomsky rappresentano un punto di non ritorno: la Grammatica Universale ha chiamato
tutti gli studiosi a una reimpostazione di base del modo di guardare alla comunicazione umana.
Detto questo, la proposta di Chomsky è oggi al centro di una profonda revisione. Il primo fronte di
discussione riguarda il «fuoco amico»: le critiche, mosse da autori interni al paradigma chomskiano,
relative ai rapporti tra la Grammatica Universale e la teoria dell’evoluzione. Dall’altra parte della
barricata un secondo fronte di discussione riguarda la proposta dei neoculturalisti: studiosi che, in
nome della diversità delle lingue, attaccano frontalmente la natura innata e universale del linguaggio
umano. Entrambi i fronti di discussione sollevano questioni di grande importanza per il dibattito contemporaneo
e meritano alcune parole di commento.
Per comprendere le critiche alla Grammatica Universale mosse dal fronte interno, è necessario chiamare
in causa i rapporti che il modello chomskiano intrattiene con la tradizione cartesiana. Per
Chomsky il linguaggio è un fenomeno che non ha eguali in natura: la comunicazione umana (libera
e creativa) risponde a principi affatto diversi da quelli attribuibili alla comunicazione animale (meccanica
e determinata): seguendo Cartesio, Chomsky sostiene che il linguaggio istituisce una «differenza
qualitativa» tra gli individui della nostra specie e gli altri animali. Oltre a rinforzare l’idea
degli umani come entità speciali nella natura, la tesi dell’unicità del linguaggio umano offre a Chomsky
un appiglio per sostenere che il linguaggio non è un adattamento biologico dovuto alla selezione
naturale.
Il tema della complessità
Uno degli argomenti utilizzati da Chomsky contro la selezione naturale è l’idea che il linguaggio sia
«troppo complesso» per poter essere spiegato in termini gradualistici. Il tema della complessità,
come è noto, ha da sempre rappresentato un problema per la teoria dell’evoluzione. Al fondo della
questione è l’argomento degli organi incipienti utilizzato ai tempi di Darwin da St. George Mivart in
On the genesis of species (Mcmillan, 1871): se un’ala allo stato iniziale non permette di volare che
tipo di vantaggio può assicurare a un organismo? Discorso analogo vale per il linguaggio: quale vantaggio
adattativo può rappresentare un frammento iniziale di Grammatica Universale? Poiché senza
una risposta a queste domande non è possibile pensare a un’evoluzione gradualistica degli organi
complessi, la conclusione a cui perviene Chomsky è che la Grammatica Universale sia un dispositivo
tutto-o-nulla difficilmente conciliabile con la selezione naturale. A partire da queste considerazioni,
Chomsky fa propria la proposta avanzata da Ian Tattersall in Il cammino dell’uomo (Garzanti, 2004)
di considerare l’avvento del linguaggio in riferimento alla «teoria dell’esplosione»: secondo Tattersall,
in effetti, le capacità verbali umane sono emerse in modo «improvviso e inaspettato» molto di
recente nella storia di Homo sapiens.
Michael Corballis sostiene in The recursive mind (Princeton University Press, 2011) che considerare
la verbalizzazione umana un fatto improvviso e inaspettato sia un’ipotesi miracolistica che mal si
accorda con l’idea del linguaggio come un organo biologico. A conferma della tesi di Corballis è il
fatto che gli argomenti utilizzati da Chomsky contro la selezione naturale sono gli stessi di quelli
usati da Mivart: ora, come è possibile difendere un approccio naturalistico al linguaggio utilizzando
gli stessi argomenti usati da un fervente creazionista? Criticando aspramente Chomsky su questo
punto, Steven Pinker nel libro L’istinto del linguaggio (Mondadori, 1997) sostiene che, oltre a essere
pienamente compatibile con la Grammatica Universale, la selezione naturale è l’unica spiegazione in
campo (che non sia il creazionismo) per dar conto della complessità del linguaggio.
La risposta di Chomsky non è tardata ad arrivare. Rivedendo le proprie posizioni iniziali
sull’argomento, il linguista americano sostiene oggi che il linguaggio non è così complesso come
potrebbe sembrare: se si guarda al suo componente costitutivo essenziale (la facoltà di linguaggio in
senso stretto), è lecito considerare il linguaggio un’entità piuttosto semplice. Attraverso un’ipotesi
del genere, Chomsky è in grado di superare le difficoltà segnalate dai fautori della concezione adattazionista
del linguaggio senza cedere alle lusinghe di chi lo invita a rivedere il rapporto della Grammatica
Universale con la teoria darwiniana. Con il riferimento alla semplicità del linguaggio Chomsky
apre la strada al «minimalismo» (il suo ultimo modello teorico) convalidando una tendenza che,
storicamente, ha da sempre caratterizzato il suo percorso intellettuale: dagli anni Cinquanta del
Novecento a oggi, i diversi modelli interpretativi proposti da Chomsky sono stati contrassegnati da
un processo continuo di semplificazione. A vantaggio della semplificazione gioca la questione della
plausibilità cognitiva: se la Grammatica Universale descrive i principi alla base del funzionamento
della mente-cervello, allora la Grammatica Universale sarà tanto più plausibile quanto più semplici
ed economici (in termini di energia) saranno i principi che la descrivono. Detto questo, se le difficoltà
sottolineate dagli adattazionisti valgono soltanto per una concezione del linguaggio come un
organo di estrema complessità, attraverso il minimalismo Chomsky guadagna, oltre alla plausibilità
cognitiva, anche la plausibilità evoluzionistica della Grammatica Universale.
La natura della controversia
Il secondo fronte di critiche rispetto alla Grammatica Universale, il versante «neoculturalista», fa di
nuovo appello alla questione della diversità dei codici espressivi. Al tempo delle prime polemiche
contro il relativismo, Chomsky aveva avuto vita facile: i linguisti del tempo non avevano modelli plausibili
delle strutture e dei processi cognitivi implicati nella comunicazione umana. Oggi la situazione
è molto cambiata: nessuno studioso serio pensa di poter affrontare il tema della variabilità dei codici
espressivi senza una prospettiva adeguata dei dispositivi bio-cognitivi coinvolti nell’elaborazione del
linguaggio. Si pensi, solo per citare un esempio, al caso esposto da Michael Tomasello in Le origini
della comunicazione umana (Cortina, 2009) un autore da sempre impegnato nel tentativo di conciliare
gli aspetti culturali del linguaggio con l’idea che la comunicazione umana si avvalga di un ricco
(e in larga parte innato) sistema cognitivo di elaborazione.
Detto questo, la questione controversa è un’altra: più che l’innatismo o la natura universale di certi
dispositivi di elaborazione, il punto in discussione è capire se la Grammatica Universale debba
essere considerata l’unico dispositivo da chiamare in causa per spiegare il linguaggio; se essa sia
soltanto uno dei sistemi implicati nella comunicazione linguistica; o se, nell’ipotesi più radicale, il linguaggio
umano poggi su dispositivi di elaborazione del tutto diversi dalla Grammatica Universale.
La questione è aperta e, al momento, non è chiaro come rispondere al problema. Ciò che appare sensato
sostenere allo stato attuale della ricerca è che, in una prospettiva in cui trovi spazio l’idea del
linguaggio come ibrido bio-culturale, il tema della diversità delle lingue dovrà necessariamente convergere
con la teoria degli universali innati. In una prospettiva di questo tipo, indipendentemente
dalla direzione che prenderà la ricerca in futuro, il dato certo a nostra disposizione è che il confronto
con Chomsky rappresenta comunque un elemento imprescindibile della discussione.
Festival delle scienze. In occasione dell’incontro che il grande linguista americano avrà domani all’Auditorium di Roma con Andrea Moro, una discussione sulle sue tesi, alle luce delle critiche avanzate da diversi fronti
Quando visitiamo un paese in cui si parla una lingua molto diversa dalla nostra è facile provare un
senso di forte estraneità: la difficoltà di farsi capire e di comprendere ciò che gli altri dicono alimenta
in noi la convinzione che le lingue parlate da comunità diverse siano tra loro molto eterogenee
e che gli individui che appartengono a comunità distinte siano molto diversi tra loro a causa
delle lingue che parlano. Una convinzione di questo tipo, oltre alla plausibilità intuitiva facilmente
esperibile da chiunque, ha dalla sua un modello teorico consolidato: il relativismo culturale.
Poiché a rendere gli umani ciò che sono è la cultura che li distingue e non la biologia che li accomuna,
per i fautori del relativismo culturale l’idea stessa di «natura umana» è fuorviante, se non
addirittura priva di senso: come ebbe a dire Clifford Gertz in Interpretazione di culture (Il Mulino,
1987) «tutto ciò che gli umani hanno in comune è il loro essere profondamente diversi».
Dire che le caratteristiche salienti degli individui dipendono dalla cultura, significa sostenere che gli
individui sono ciò che sono in forza di ciò che apprendono: il linguaggio, per il tratto sociale che lo
caratterizza, è l’esempio principe di questa ipotesi interpretativa.
La conformità dei modelli teorici alle intuizioni del senso comune ha determinato per decenni uno
stato di calma piatta. Poi, all’improvviso, il classico sasso nello stagno ha rotto l’incantesimo causando
un terremoto concettuale. Nel 1959 Chomsky commentò in poche pagine Il comportamento
verbale di Burrhus Skinner (Armando, 2008) dimostrando che l’idea del linguaggio fondata sulla
tabula rasa e sul ruolo costitutivo dell’apprendimento non regge alla prova dei fatti. A fare le spese
della critica di Chomsky, oltre a Skinner, è l’intero movimento teorico da lui rappresentato: se lo
schema stimolo-risposta non spiega il linguaggio umano allora il comportamentismo va bene per
i piccioni o i ratti di laboratorio, non per dar conto della natura degli individui della nostra specie.
Il «problema di Platone»
Da quella recensione in poi, il modo di intendere il linguaggio è cambiato radicalmente. Le capacità
verbali umane sono considerate oggi affare della biologia, prima che della cultura: poiché le lingue
storico-naturali hanno una natura ancillare rispetto alla facoltà di linguaggio, la verbalizzazione
umana è un frammento della mente-cervello, non l’effetto di pratiche comunicative comunitarie. La
variabilità linguistica che appare in tutta evidenza nel visitare paesi assai diversi dal nostro è un
falso indizio di diversità: il contrasto di cui facciamo esperienza riguarda soltanto il codice espressivo,
la struttura di superficie del linguaggio. La sostanza della verbalizzazione umana, tuttavia,
è rintracciabile nella sua struttura profonda, la Grammatica Universale: l’insieme di regole e principi
che governano il funzionamento della mente-cervello nei processi di produzione e comprensione linguistica.
Quando spostiamo l’attenzione dal codice espressivo al dispositivo bio-cognitivo che
governa l’acquisizione e il corretto funzionamento delle nostre capacità verbali, la diversità linguistica
lascia il posto all’idea che il linguaggio sia una caratteristica universale (come la postura
eretta) della nostra specie.
A dar man forte a Chomsky contro il relativismo culturale è l’innatismo del linguaggio: la Grammatica
Universale è un dispositivo di elaborazione presente sin dalla nascita nella mente-cervello degli
umani. Tutto il percorso concettuale di Chomsky, in effetti, può essere considerato una difesa di ciò
che il linguista americano ha chiamato il «problema di Platone»: capire come dar conto di ciò che gli
umani sanno a partire dalle limitate esperienze che hanno. Il linguaggio non può essere spiegato in
termini di apprendimento perché lo stimolo verbale è troppo povero per giustificare le sofisticate
competenze linguistiche di cui (molto presto) dispone il bambino.
Gli argomenti di Chomsky rappresentano un punto di non ritorno: la Grammatica Universale ha chiamato
tutti gli studiosi a una reimpostazione di base del modo di guardare alla comunicazione umana.
Detto questo, la proposta di Chomsky è oggi al centro di una profonda revisione. Il primo fronte di
discussione riguarda il «fuoco amico»: le critiche, mosse da autori interni al paradigma chomskiano,
relative ai rapporti tra la Grammatica Universale e la teoria dell’evoluzione. Dall’altra parte della
barricata un secondo fronte di discussione riguarda la proposta dei neoculturalisti: studiosi che, in
nome della diversità delle lingue, attaccano frontalmente la natura innata e universale del linguaggio
umano. Entrambi i fronti di discussione sollevano questioni di grande importanza per il dibattito contemporaneo
e meritano alcune parole di commento.
Per comprendere le critiche alla Grammatica Universale mosse dal fronte interno, è necessario chiamare
in causa i rapporti che il modello chomskiano intrattiene con la tradizione cartesiana. Per
Chomsky il linguaggio è un fenomeno che non ha eguali in natura: la comunicazione umana (libera
e creativa) risponde a principi affatto diversi da quelli attribuibili alla comunicazione animale (meccanica
e determinata): seguendo Cartesio, Chomsky sostiene che il linguaggio istituisce una «differenza
qualitativa» tra gli individui della nostra specie e gli altri animali. Oltre a rinforzare l’idea
degli umani come entità speciali nella natura, la tesi dell’unicità del linguaggio umano offre a Chomsky
un appiglio per sostenere che il linguaggio non è un adattamento biologico dovuto alla selezione
naturale.
Il tema della complessità
Uno degli argomenti utilizzati da Chomsky contro la selezione naturale è l’idea che il linguaggio sia
«troppo complesso» per poter essere spiegato in termini gradualistici. Il tema della complessità,
come è noto, ha da sempre rappresentato un problema per la teoria dell’evoluzione. Al fondo della
questione è l’argomento degli organi incipienti utilizzato ai tempi di Darwin da St. George Mivart in
On the genesis of species (Mcmillan, 1871): se un’ala allo stato iniziale non permette di volare che
tipo di vantaggio può assicurare a un organismo? Discorso analogo vale per il linguaggio: quale vantaggio
adattativo può rappresentare un frammento iniziale di Grammatica Universale? Poiché senza
una risposta a queste domande non è possibile pensare a un’evoluzione gradualistica degli organi
complessi, la conclusione a cui perviene Chomsky è che la Grammatica Universale sia un dispositivo
tutto-o-nulla difficilmente conciliabile con la selezione naturale. A partire da queste considerazioni,
Chomsky fa propria la proposta avanzata da Ian Tattersall in Il cammino dell’uomo (Garzanti, 2004)
di considerare l’avvento del linguaggio in riferimento alla «teoria dell’esplosione»: secondo Tattersall,
in effetti, le capacità verbali umane sono emerse in modo «improvviso e inaspettato» molto di
recente nella storia di Homo sapiens.
Michael Corballis sostiene in The recursive mind (Princeton University Press, 2011) che considerare
la verbalizzazione umana un fatto improvviso e inaspettato sia un’ipotesi miracolistica che mal si
accorda con l’idea del linguaggio come un organo biologico. A conferma della tesi di Corballis è il
fatto che gli argomenti utilizzati da Chomsky contro la selezione naturale sono gli stessi di quelli
usati da Mivart: ora, come è possibile difendere un approccio naturalistico al linguaggio utilizzando
gli stessi argomenti usati da un fervente creazionista? Criticando aspramente Chomsky su questo
punto, Steven Pinker nel libro L’istinto del linguaggio (Mondadori, 1997) sostiene che, oltre a essere
pienamente compatibile con la Grammatica Universale, la selezione naturale è l’unica spiegazione in
campo (che non sia il creazionismo) per dar conto della complessità del linguaggio.
La risposta di Chomsky non è tardata ad arrivare. Rivedendo le proprie posizioni iniziali
sull’argomento, il linguista americano sostiene oggi che il linguaggio non è così complesso come
potrebbe sembrare: se si guarda al suo componente costitutivo essenziale (la facoltà di linguaggio in
senso stretto), è lecito considerare il linguaggio un’entità piuttosto semplice. Attraverso un’ipotesi
del genere, Chomsky è in grado di superare le difficoltà segnalate dai fautori della concezione adattazionista
del linguaggio senza cedere alle lusinghe di chi lo invita a rivedere il rapporto della Grammatica
Universale con la teoria darwiniana. Con il riferimento alla semplicità del linguaggio Chomsky
apre la strada al «minimalismo» (il suo ultimo modello teorico) convalidando una tendenza che,
storicamente, ha da sempre caratterizzato il suo percorso intellettuale: dagli anni Cinquanta del
Novecento a oggi, i diversi modelli interpretativi proposti da Chomsky sono stati contrassegnati da
un processo continuo di semplificazione. A vantaggio della semplificazione gioca la questione della
plausibilità cognitiva: se la Grammatica Universale descrive i principi alla base del funzionamento
della mente-cervello, allora la Grammatica Universale sarà tanto più plausibile quanto più semplici
ed economici (in termini di energia) saranno i principi che la descrivono. Detto questo, se le difficoltà
sottolineate dagli adattazionisti valgono soltanto per una concezione del linguaggio come un
organo di estrema complessità, attraverso il minimalismo Chomsky guadagna, oltre alla plausibilità
cognitiva, anche la plausibilità evoluzionistica della Grammatica Universale.
La natura della controversia
Il secondo fronte di critiche rispetto alla Grammatica Universale, il versante «neoculturalista», fa di
nuovo appello alla questione della diversità dei codici espressivi. Al tempo delle prime polemiche
contro il relativismo, Chomsky aveva avuto vita facile: i linguisti del tempo non avevano modelli plausibili
delle strutture e dei processi cognitivi implicati nella comunicazione umana. Oggi la situazione
è molto cambiata: nessuno studioso serio pensa di poter affrontare il tema della variabilità dei codici
espressivi senza una prospettiva adeguata dei dispositivi bio-cognitivi coinvolti nell’elaborazione del
linguaggio. Si pensi, solo per citare un esempio, al caso esposto da Michael Tomasello in Le origini
della comunicazione umana (Cortina, 2009) un autore da sempre impegnato nel tentativo di conciliare
gli aspetti culturali del linguaggio con l’idea che la comunicazione umana si avvalga di un ricco
(e in larga parte innato) sistema cognitivo di elaborazione.
Detto questo, la questione controversa è un’altra: più che l’innatismo o la natura universale di certi
dispositivi di elaborazione, il punto in discussione è capire se la Grammatica Universale debba
essere considerata l’unico dispositivo da chiamare in causa per spiegare il linguaggio; se essa sia
soltanto uno dei sistemi implicati nella comunicazione linguistica; o se, nell’ipotesi più radicale, il linguaggio
umano poggi su dispositivi di elaborazione del tutto diversi dalla Grammatica Universale.
La questione è aperta e, al momento, non è chiaro come rispondere al problema. Ciò che appare sensato
sostenere allo stato attuale della ricerca è che, in una prospettiva in cui trovi spazio l’idea del
linguaggio come ibrido bio-culturale, il tema della diversità delle lingue dovrà necessariamente convergere
con la teoria degli universali innati. In una prospettiva di questo tipo, indipendentemente
dalla direzione che prenderà la ricerca in futuro, il dato certo a nostra disposizione è che il confronto
con Chomsky rappresenta comunque un elemento imprescindibile della discussione.
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18.9.12
Chomsky: "Occupy Wall Street? Ora deve fare un salto di qualità"
Dialogo a 360°, spaziando dalla linguistica alla Primavera araba
e alla libertà di opinione in Italia
CARLA RESCHIA
"Occupy Wall Street? “Se un anno fa mi avessero detto quello che volevano fare avrei risposto che era una follia. Non ci credevo e sbagliavo, sono incredibili. Ora però devono fare il passo successivo: una tattica non può diventare un movimento, deve fare un salto di qualità”. Noam Chomsky a Trieste fa il pieno di folla - 1400 persone al teatro Rossetti strapieno, dopo che le prime due sedi, più piccole, erano state abbandonate per il crescere delle prenotazioni – e dialoga a 360°, spaziando dalla linguistica alla Primavera araba alla libertà di opinione in Italia, “Ne avete abbastanza, tutto sommato, ma pochi sanno usarla”. Senza dimenticare i temi economici e la dittatura delle multinazionali, suo cavallo di battaglia, con molti excursus storici, da Martin Luther King a Kennedy, e con uno speciale accanimento verso Obama, che voterà, dice con una metafora di montanelliana memoria, “turandosi il naso”, ma che intanto incolpa, con il suo stile sommesso, di colpe peggiori di quelle dei Bush padre e figlio e che definisce un ottimo pr, nulla di più: “Manca di sostanza, parla per slogan”. Dalla lectio magistralis del mattino alla Sissa, con il conferimento del dottorato honoris causa in Neuroscienze, al dialogo con i giornalisti, al confronto con il pubblico del pomeriggio, ricco di domande e generoso di risposte, Chomsky ribadisce punto per punto le tesi incendiarie che ne hanno fatto un’icona no global. Ma a un ragazzo che gli chiede che strategie usare durante le manifestazioni risponde in modo quasi pasoliniano, suggerendo il dialogo con i poliziotti: “Fanno parte del 99% dell’umanità sottomessa, e non dell’1% che ha in mano i soldi e il potere. Forse ricordarglielo può indurli a un modo diverso di vedere le cose”.
Ecco il Noam-pensiero
Obama v/s Romney
Non ho mai avuto nessuna particolare aspettativa su Obama, le elezioni negli Usa sono una farsa, una stravaganza, un fenomeno di pubbliche relazioni che non decide nulla. Obama ha vinto perché aveva un’ottima strategia di marketing, ecco tutto. Non è una mia opinione, è stato anche premiato per questo. Nel 2008 è stato nominato Advertising Age's marketer, votato da centinaia di addetti ai lavori riuniti nella conferenza nazionale dei pubblicitari”. Per il resto: “Il costo delle elezioni aumenta e diminuisce la loro credibilità, mentre Obama fa il peggio del peggio: arresta chi si oppone, fa ammazzare in giro per il mondo i “nemici”, nemmeno Bush aveva osato tanto, lui si limitava a farli sparire e a consegnarli a stati con leggi più elastiche.
Le emergenze globali
Sono indubbiamente la guerra e il disastro ambientale, ma ben lungi dal salvaguardarci i governi ci portano a questo, pensate solo a come viene gestita la crisi economica. E non solo. In passato ci sono stati innumerevoli allarmi atomici, disinnescati a pochi minuti dal passaggio alle vie di fatto, di cui nessuno ci ha informato. E questo negli Usa, nulla sappiamo, ad esempio, della Russia. Istituire, ad esempio un’area libera dalle armi nucleari in Medio Oriente sarebbe un passo in avanti , ma ne siamo più che mai lontani.
Primavera araba
Non fiorisce in Arabia Saudita, dove è stata subito repressa e non riesce in Egitto dove il potere dell’esercito resta intatto. Il Medio Oriente è l’ultima roccaforte del potere egemonico statunitense, in declino dalla fine della seconda guerra mondiale. Il Sud America è andato perso, il Medio Oriente è l’ultima roccaforte e gli Stati Uniti non vogliono la democrazia, appoggiano le dittature perché sono funzionali al loro controllo.
Iran
Ci sono studi e sondaggi che indicano come le popolazioni del Medio Oriente non vedano nell’Iran atomico un pericolo. Anzi, la bomba atomica iraniana è, per loro, un fattore di equilibrio verso quelli che considerano gli stati canaglia per eccellenza, Israele e Stati Uniti. E la bomba iraniana è vista come un legittimo diritto. Perché l’Iran non dovrebbe avere armi atomiche dato che è circondato da stati che le possiedono? Perché Israele dovrebbe rappresentare un’eccezione? Questo i media non lo dicono. Così come non dicono l’ovvio: Se l’Iran si comportasse come Israele può fare impunemente la reazione sarebbe ben diversa.
Social network
Non è una grande rivoluzione come, ad esempio, il telegrafo o il telefono. Non cambia il linguaggio, cambia solo la percezione. I social media creano l’illusione di avere tanti amici (vedi Facebook) ma non sono amici, solo conoscenze superficiali. Tecnologia: E’ neutra, né buona né cattiva, come il martello che può servire a costruire una casa ma anche a demolirla. Dipende dall’uso che se ne fa, può essere un grande strumento ma anche una trappola.
Cina Non credo che sarà il prossimo Paese egemone. Per quanto abbia fatto grandi progressi ha ancora grandi sacche di povertà e molti problemi interni. Inoltre non può né vuole competere con gli Stati Uniti sul piano militare, è impossibile perché le spese per gli armamenti degli Stati Uniti superano da sole, quelle del mondo intero. L’ecologia e l’aumento della popolazione sono i temi con cui dovrà fare i conti. La sua espansione in Africa è puramente economica, ma offre anche servizi, lavoro, in Libia, ad esempio, la guerra è stato il tentativo di reimporre il dominio occidentale su una realtà che stava sfuggendo.
Europa
Quello che si sta distruggendo, scientemente, è il welfare che rendeva peculiare il sistema europeo. L’ha dichiarato espressamente Mario Draghi al Wall Street Journal: è un modello obsoleto. Non avviene per caso, c’è un piano. Lo stesso che ha portato al declino degli Stati Uniti. Un declino autoinflitto perché causato da misure economiche che hanno provocato stagnazione e hanno azzerato i guadagni della classe media ma hanno moltiplicato quelli dell’elite dominante. Del resto, è folle pensare di poter risanare l’economia imponendo sacrifici e rinunce a paesi in recessione. Il risultato è che i giovani stanno perdendo la loro fiducia nel futuro. Davvero era necessario?
Mass media
Negli Usa la libertà d’informazione è straordinaria, ma anche in Europa non è male. Tutto sta ovviamente a volersi informare e a non dar retta ai mass media che fanno il loro lavoro, ovvero distrarre l’attenzione da quello che fa il governo. Il punto è che le informazioni non vengono diffuse, gli intellettuali sono complici e il lavoro di Wikileaks ha avuto la sorte che sappiamo.
La speranza
La storia ha tempi lunghi, cui non siamo più abituati. Rimpiango la scomparsa del partito comunista negli Stati Uniti perché i comunisti sapevano aspettare e non si arrendevano di fronte a una sconfitta ma, ostinatamente, perseveravano. Oggi la Norvegia che offre a un pluriassassino come Breivik un processo equo e la possiblità di una riabilitazione è un modello ma è una conquista recente, un tempo sarebbe stato ucciso. Questo per dire che non dobbiamo aspettarci miracoli o cambiamenti istantanei, ma lavorare per il cambiamento sapendo che non lo vedremo.
Ecco il Noam-pensiero
Obama v/s Romney
Non ho mai avuto nessuna particolare aspettativa su Obama, le elezioni negli Usa sono una farsa, una stravaganza, un fenomeno di pubbliche relazioni che non decide nulla. Obama ha vinto perché aveva un’ottima strategia di marketing, ecco tutto. Non è una mia opinione, è stato anche premiato per questo. Nel 2008 è stato nominato Advertising Age's marketer, votato da centinaia di addetti ai lavori riuniti nella conferenza nazionale dei pubblicitari”. Per il resto: “Il costo delle elezioni aumenta e diminuisce la loro credibilità, mentre Obama fa il peggio del peggio: arresta chi si oppone, fa ammazzare in giro per il mondo i “nemici”, nemmeno Bush aveva osato tanto, lui si limitava a farli sparire e a consegnarli a stati con leggi più elastiche.
Le emergenze globali
Sono indubbiamente la guerra e il disastro ambientale, ma ben lungi dal salvaguardarci i governi ci portano a questo, pensate solo a come viene gestita la crisi economica. E non solo. In passato ci sono stati innumerevoli allarmi atomici, disinnescati a pochi minuti dal passaggio alle vie di fatto, di cui nessuno ci ha informato. E questo negli Usa, nulla sappiamo, ad esempio, della Russia. Istituire, ad esempio un’area libera dalle armi nucleari in Medio Oriente sarebbe un passo in avanti , ma ne siamo più che mai lontani.
Primavera araba
Non fiorisce in Arabia Saudita, dove è stata subito repressa e non riesce in Egitto dove il potere dell’esercito resta intatto. Il Medio Oriente è l’ultima roccaforte del potere egemonico statunitense, in declino dalla fine della seconda guerra mondiale. Il Sud America è andato perso, il Medio Oriente è l’ultima roccaforte e gli Stati Uniti non vogliono la democrazia, appoggiano le dittature perché sono funzionali al loro controllo.
Iran
Ci sono studi e sondaggi che indicano come le popolazioni del Medio Oriente non vedano nell’Iran atomico un pericolo. Anzi, la bomba atomica iraniana è, per loro, un fattore di equilibrio verso quelli che considerano gli stati canaglia per eccellenza, Israele e Stati Uniti. E la bomba iraniana è vista come un legittimo diritto. Perché l’Iran non dovrebbe avere armi atomiche dato che è circondato da stati che le possiedono? Perché Israele dovrebbe rappresentare un’eccezione? Questo i media non lo dicono. Così come non dicono l’ovvio: Se l’Iran si comportasse come Israele può fare impunemente la reazione sarebbe ben diversa.
Social network
Non è una grande rivoluzione come, ad esempio, il telegrafo o il telefono. Non cambia il linguaggio, cambia solo la percezione. I social media creano l’illusione di avere tanti amici (vedi Facebook) ma non sono amici, solo conoscenze superficiali. Tecnologia: E’ neutra, né buona né cattiva, come il martello che può servire a costruire una casa ma anche a demolirla. Dipende dall’uso che se ne fa, può essere un grande strumento ma anche una trappola.
Cina Non credo che sarà il prossimo Paese egemone. Per quanto abbia fatto grandi progressi ha ancora grandi sacche di povertà e molti problemi interni. Inoltre non può né vuole competere con gli Stati Uniti sul piano militare, è impossibile perché le spese per gli armamenti degli Stati Uniti superano da sole, quelle del mondo intero. L’ecologia e l’aumento della popolazione sono i temi con cui dovrà fare i conti. La sua espansione in Africa è puramente economica, ma offre anche servizi, lavoro, in Libia, ad esempio, la guerra è stato il tentativo di reimporre il dominio occidentale su una realtà che stava sfuggendo.
Europa
Quello che si sta distruggendo, scientemente, è il welfare che rendeva peculiare il sistema europeo. L’ha dichiarato espressamente Mario Draghi al Wall Street Journal: è un modello obsoleto. Non avviene per caso, c’è un piano. Lo stesso che ha portato al declino degli Stati Uniti. Un declino autoinflitto perché causato da misure economiche che hanno provocato stagnazione e hanno azzerato i guadagni della classe media ma hanno moltiplicato quelli dell’elite dominante. Del resto, è folle pensare di poter risanare l’economia imponendo sacrifici e rinunce a paesi in recessione. Il risultato è che i giovani stanno perdendo la loro fiducia nel futuro. Davvero era necessario?
Mass media
Negli Usa la libertà d’informazione è straordinaria, ma anche in Europa non è male. Tutto sta ovviamente a volersi informare e a non dar retta ai mass media che fanno il loro lavoro, ovvero distrarre l’attenzione da quello che fa il governo. Il punto è che le informazioni non vengono diffuse, gli intellettuali sono complici e il lavoro di Wikileaks ha avuto la sorte che sappiamo.
La speranza
La storia ha tempi lunghi, cui non siamo più abituati. Rimpiango la scomparsa del partito comunista negli Stati Uniti perché i comunisti sapevano aspettare e non si arrendevano di fronte a una sconfitta ma, ostinatamente, perseveravano. Oggi la Norvegia che offre a un pluriassassino come Breivik un processo equo e la possiblità di una riabilitazione è un modello ma è una conquista recente, un tempo sarebbe stato ucciso. Questo per dire che non dobbiamo aspettarci miracoli o cambiamenti istantanei, ma lavorare per il cambiamento sapendo che non lo vedremo.
16.3.12
Il mondo di Chomsky
intervista di Gea Scancarello (Lettera43)
Non c’è un libro nella stanza, e nemmeno un computer. Né, a dire il vero, penne, carta o appunti. Lo spazio è pressoché interamente occupato da piante – qualche felce, un oleandro, un ficus – cresciute così alte e rigogliose da aver rotto i vasi in cui erano contenute.
Nello studio-salotto fuori dal quale studenti, cronisti e politici in cerca di benedizioni fanno anticamera da mezzo secolo, il verde diffuso è l’unica indicazione dei pensieri che di questi tempi affollano la mente di Noam Chomsky.
Lo scienziato che ha rivoluzionato la teoria del linguaggio, inventore della grammatica generativa, pensatore difficile e spesso fastidioso, fustigatore della politica internazionale, ma apprezzato da tutti perché osteggiarlo può essere compromettente, è seraficamente quieto e imperscrutabile.
50 ANNI AL MIT. Definirlo esuberante, d’altra parte, sarebbe stato eccessivo anche quando nel 1955, a 26 anni, per la prima volta, varcò la porta del Massachusetts Institute of technology (Mit) con una cattedra provvisoria.
Da allora nel campus tutto è cambiato, tranne lui. Per mezzo secolo, Chomsky ha mescolato scienza, critica sociale e attivismo. Diventò un guru della sinistra pacifista condannando «l'aggressione americana in Vietnam», ai tempi in cui ancora scendere in piazza era tabù. Creò il terzomondismo con le campagne a favore della libertà in Sud America. E, di recente, ha rifiutato il concetto di «Asse del male» del presidente George W. Bush, ponendo seri dubbi sulla lotta al terrorismo internazionale.
IL PENSATORE SENZA ETICHETTE. Il tempo ha ristretto Chomsky in una versione ricurva del se stesso appeso alle pareti in decine di foto e riconoscimenti ufficiali, al fianco dei palestinesi – nonostante le origini ebraiche – e nei discorsi contro la guerra. Ma a 83 anni la lucidità spietata delle sue analisi non è variata. E identiche sono le abitudini.
Ottenere un appuntamento per trovarsi faccia a faccia con il mostro sacro è un’impresa lunga di quelle adatte solo per chi ha molta pazienza.
È lui stesso, d’altra parte, a mettere in guardia. Chomsky risponde personalmente alle email che gli arrivano – da qualche parte deve avere un pc nascosto – per spiegare: «Odio essere burocratico, ma se proprio vuoi parlarmi devi superare il vaglio della mia assistente».
Mesi dopo, in un pomeriggio piovoso di marzo, davanti a una tazza di caffè fumante, immerso nella quiete dell’ufficio fuori Boston che ricorda una serra, il professore scardina però ogni formalità e gerarchia.
Scandisce le parole con lentezza, per essere certo che l’interlocutore capisca sul serio. E si diverte ad anticipare le domande della cronista. «Scommetto che siamo qui a discutere di crisi», esordisce invitandoci a sedere.
DOMANDA. Può essere un buon punto di partenza.
Risposta. Dipende da quale crisi ha in mente.
D. Quante ne esistono?
R. In Europa siete molto preoccupati per quella economica.
D. Facciamo male?
R. No, ma la soluzione per quella c’è già.
D. Cioè?
R. L’hanno offerta Draghi e Trichet: mettere la parola fine al welfare state. E ripensare il lavoro, minandone le sicurezze. Ovviamente, non lo hanno detto con queste parole, ma il senso è chiarissimo.
D. La definirebbe una soluzione?
R. Dal loro punto di vista sì. Da una prospettiva economica non ha senso, perché decine di studi condotti dallo stesso Fondo monetario internazionale, hanno rivelato che l’austerità porta solo alla contrazione.
D. Ma il problema è veramente la crescita?
R. Dipende. Se un’economia cresce in modo sostenibile, con l’obiettivo di dare ai suoi cittadini condizioni di vita decenti, è giusto crescere.
D. Chi stabilisce il livello della decenza?
R. Non è decente sfruttare le risorse con il solo obiettivo di produrre beni e indurre consumi crescenti.
D. Il modello occidentale non è decente, dunque.
R. Non è detto che le nazioni in via di sviluppo siano meglio. La Cina, nonostante il Prodotto interno lordo che aumenta in modo spettacolare da anni, è un Paese estremamente povero con problemi ambientali e demografici gravissimi. L’India è sommersa dalla miseria. Per non dire che in tutta l’Asia centrale l’acqua sta diventando un problema economico.
D. Perché?
R. Il Pakistan è a rischio desertificazione per metà della sua estensione. Riesce a immaginare cosa significa per l’agricoltura? Quali saranno le conseguenze sui cittadini e le migrazioni?
D. A fatica.
D. Ecco, significa che ci sono cose molto più gravi alle quali pensare rispetto alla crisi fiscale ed economica. Scenari che non riusciamo nemmeno a figurarci.
«L'ambiente ci si rivolterà contro. E annienterà intere generazioni»
Noam Chomsky in visita in Sud America.
(© Ap images) Noam Chomsky in visita in Sud America.
D. In concreto?
R. La crisi ambientale. Magari è più lontana, non è dietro l’angolo, non sappiamo quando esploderà, ma ogni giorno in cui evitiamo di pensarci la minaccia cresce.
D. Cosa teme?
R. Questo è il tipo di crisi che potrebbe annientare le generazioni future. Ed è qualcosa che non sappiamo come trattare.
D. Anche le armi nucleari rischiano di azzerare il futuro. E sono tornate in voga.
R. La soluzione però in quel caso esiste: per non rischiare una guerra atomica basta farle sparire.
D. Pare facile?
R. No. Ma per la crisi ambientale è peggio.
D. Perché?
R. Non solo non c’è una soluzione futura, ma non sappiamo nemmeno quali sono in questo momento le conseguenze di quanto fatto nel passato. E perseveriamo negli stessi errori.
D. I Paesi in via di sviluppo vogliono quello che abbiamo noi.
R. Il cambiamento di passo dovrebbe arrivare dalle nazioni più ricche, quelle che hanno maggiori opzioni. Dagli Usa, che sono ancora il Paese più potente al mondo.
D. Gli Stati Uniti non hanno mai firmato il protocollo di Kyoto.
R. Infatti. La cosa interessante è che in questo momento il faro guida sull’ambiente sono i più poveri dei poveri del Sud America: la Bolivia e l’Ecuador.
D. Indios socialisti.
R. La cultura degli indios è legata al rispetto della natura, alla sua preservazione. I cittadini del mondo sviluppato, chiamiamolo così, considerano invece l’ambiente come qualcosa da sfruttare.
D. Popoli diversi hanno bisogni diversi.
R. No. Semplicemente, gli occidentali hanno bisogni costruiti.
D. Cioè?
R. Innaturali, indotti.
D. Sta parlando di crisi ambientale o di crisi del capitalismo?
R. Lo sa qual è il settore aziendale più potente al mondo?
D. Quale?
R. Le pubbliche relazioni. La pubblicità. Il marketing. Negli Stati Uniti fatturano il 6% della ricchezza nazionale.
D. Il business del consumo.
R. Si chiama fabbricare desideri. Sedurre all’acquisto. È ovvio che un’attività di questo tipo ha un impatto sulla società. Ne contamina la mentalità, ne indebolisce il carattere.
D. Come?
R. L’industria spende quantità stratosferiche di denaro per indurre i bambini a convincere i propri genitori a comprare giocattoli che butteranno dopo cinque minuti: così si debilita la cultura di un Paese.
D. Perché?
R. Perché si abbassa la soglia di consapevolezza individuale e collettiva. Con conseguenze pericolose.
D. Quali?
R. Economiche, psicologiche, ecologiche.
D. Come si evitano?
R. Cambiando. Riprendendo il controllo. Nessuno ci obbliga a comportarci come gli altri.
D. Già, ma come si cambia?
R. Qualcuno deve iniziare. C’è sempre qualcuno che inizia: mezzo secolo fa, quando sono arrivato in questo campus, non si vedevano donne in giro per i corridoi.
D. E poi?
R. Poi qualcuno prende consapevolezza e quella consapevolezza diventa coscienza morale e attecchisce tra le persone. Fino a 30 anni fa, la legge americana considerava le donne più o meno come proprietà dei loro uomini. Non garantiva loro diritti basilari. Ora è diverso.
D. Qualcosa di simile sta succedendo in economia?
R. Fino a 50 anni fa nessuno si preoccupava del luogo da cui arrivava il prodotto che comprava. Ora esiste un movimento concreto, anche se ancora non abbastanza grande, che si occupa dell’ambiente e degli animali. Persone che reagiscono all’aggressione dell’uomo al pianeta e agli altri uomini.
«Un mondo a due potenze? No, la Cina è sopravvalutata»
D. Parla di guerra, di ecologia o di economia?
R. Parlo di idrocarburi. Il petrolio è da mezzo secolo una stupenda risorsa di potere strategico. È il carburante dello sviluppo industriale. Il mondo intero ruota intorno al petrolio.
D. Sono gli idrocarburi a determinare l’ordine globale?
R. Dopo la Seconda guerra mondiale fu siglato un patto implicito: l’America avrebbe controllato tutte le risorse e i centri di commercio che un tempo appartenevano all’Europa. L’Eurasia, l’Indocina e tutto l’Ovest. Inoltre esisteva un piano minuzioso, seguito alla lettera per 50 anni, per espandere questo controllo.
D. Oggi che ne è del piano?
R. Vive ancora, ma la capacità di portarlo a termine è minore, perché il potere si è diversificato. E l’America è in declino.
D. La Cina ne ha preso il posto?
R. Il declino non è cosa recente. L’America ha vissuto solo quattro anni di grandezza completa: dal 1945 al 1949. Nel 1949 Pechino ha dichiarato la propria indipendenza. E sa a Washington come si indica quella data?
D. Come?
R. The loss of China, la perdita della Cina. È implicito che si perde solo qualcosa che si possiede. Per gli Usa ogni movimento di indipendenza è una perdita.
D. Perché?
R. Perché l’indipendenza porta i popoli a usare le risorse che possiedono per il proprio benessere, e non per quello dei super ricchi. Il Sud America è l’esempio più lampante: gli Usa lo chiamavano il cortile di casa. Oggi non abbiamo più una sola base militare laggiù.
D. L’ultima perdita è quella del Medio Oriente.
R. Washington ha sostenuto ogni movimento dittatoriale pur di frenare l’indipendenza dei Paesi. E ha mollato i despoti solo all’ultimo, quando anche gli eserciti si erano rivoltati loro contro. È una prassi standard: lo ha sempre fatto, lo farà sempre.
D. In Cina non ci sono dittatori che si possano controllare.
R. La Cina ha un ruolo importante nello scenario globale, ma non bisogna esagerarlo. È una nazione ancora poverissima che è cresciuta enormemente, ma ha problemi interni almeno altrettanto grandi.
D. Viene definita la locomotiva del pianeta.
R. La forza del Paese è stato un sviluppo demografico tumultuoso che oggi si è arrestato e che finirà con il metterli in ginocchio. Non sopravvalutiamo le cose: al momento la Cina è ancora un Paese di produzione industriale seriale, un’immensa fabbrica.
D. Sì, ma fa concorrenza alle nostre.
R. La Cina è un tassello importante del sistema est asiatico, ma funziona ancora a trazione esterna, soprattutto del Giappone e della Nord Corea.
D. E allora perché gli Usa ricevono con ogni onore il loro futuro presidente?
R. La minaccia è un’altra: la Cina spaventa per il potenziale militare. In questo momento c’è un conflitto sotterraneo sul controllo delle acque cinesi: Washington sta costruendo basi in Giappone, Sud Corea e Australia per mantenere una presenza geografica forte nell’area.
D. C’è una guerra in vista?
R. Supponiamo che Pechino volesse costruire delle basi militari nei Caraibi, l’America glielo lascerebbe fare? Ritorniamo al concetto di perdita e possesso: ogni volta che qualcuno alza la testa, siamo pronti a ricacciarlo indietro.
D. L’Europa ha un ruolo in questo assetto o è un gioco a due?
R. Nel 1945 gli Usa decisero consapevolmente di prendere la guida del mondo e chiesero ai britannici di fare da junior partner. Ora stanno provando a fare lo stesso con il Giappone, che però ha una costituzione pacifista che gli Usa cercano in ogni modo di forzare.
D. E l’Europa?
R. L’Europa nel suo complesso dopo la Seconda guerra mondiale ha smesso di fare guerre. Si limita a seguire alcune iniziative americane laddove è necessario ai propri interessi. Gli europei hanno smesso di combattersi tra loro. Si sono ammazzati per secoli, poi è arrivata la cosiddetta pace democratica.
D. E cioè?
R. Formalmente, si dice che le democrazie non vanno in guerra. In realtà, in Europa hanno capito che se avessero continuato a combattere avrebbero finito con l’annientarsi.
«La strategia di Obama? Una campagna di assassinii mirati»
D. Gli Usa continuano invece. Anche se Obama aveva promesso un approccio diverso.
R. La strategia militare americana con Obama in effetti è cambiata. Nell’era Bush la pratica era: se qualcuno ti ostacola, invadi il Paese, fai dei prigionieri, li deporti e li torturi. Obama ha optato per una strategia di assassinii mirati, una campagna di omicidi internazionali.
D. Questo è meglio o peggio di prima?
R. Costa meno, è più efficiente, è più comodo. Tant’è vero che il dibattito ora ruota intorno alla possibilità di farlo anche con i cittadini americani, e questo risulta più difficile da accettare.
D. Ma Obama doveva essere il presidente del cambiamento.
R. Promesse: la sua immagine fu costruita a tavolino. La campagna per la sua elezione è stata un prodigio delle pubbliche relazioni. Tant’è vero che all’annuale riunione dell’industria pubblicitaria, nel 2009, il premio per la miglior campagna fu assegnata al team del presidente. Arrivò prima della Apple nella capacità di costruire illusioni.
D. Insomma, è uguale a Bush?
R. No, non uguale. Per alcune cose meglio, per altre – poche – peggio.
D. Se nel 2012 alla Casa Bianca arrivasse qualcun altro sarebbe diverso?
R. I repubblicani hanno abbandonato ogni speranza di essere una forza politica normale. La loro è una vocazione religiosa verso gli interessi delle multinazionali e del business. Il catechismo è: niente tasse ai ricchi, oppure sei fuori dal partito.
D. Vale per tutti, Romney come Santorum?
R. Nessun candidato repubblicano può presentarsi di fronte agli elettori e dire onestamente: «Noi lavoriamo per i super ricchi e non ci interessa di voi». Tutti, quindi, hanno bisogno di mobilitare frammenti di popolazione che sono sempre esistiti, ma non hanno mai avuto alcuna rilevanza.
D. Per esempio?
R. Ultra religiosi, nazionalisti terrorizzati che qualcuno possa minacciarli, fanatici delle armi. Cose di questo genere. E il risultato è che tutti i candidati repubblicani sembrano venire da Marte.
D. Cioè?
R. Dicono cose che in altri Stati semplicemente sarebbero illegali.
D. Per esempio?
R. Prendiamo Santorum, uno che ha detto: «Il potere discende direttamente da Dio». Dove altro si può sentire una cosa del genere? Io credo che nemmeno in Iran si spingano così in là.
D. Ma la gente li sceglie.
R. Non solo: applaude contenta. Questo è quello che succede quando organizzi e fomenti una base elettorale folle soltanto perché non puoi dire la verità.
D. Quindi non è lo stesso avere come presidente Obama o Santorum.
R. No, non è lo stesso. Non amo Obama, ma qualsiasi dei repubblicani sarebbe semplicemente disastroso. E pericoloso. Non tanto per chi sono loro, quanto per la gente che si portano dietro.
D. A proposito di elezioni, nel 2008 lei in Italia appoggiò Sinistra Critica, una formazione di estrema sinistra.
R. Chi?
D. Sinistra critica, il movimento dell’ex senatore Franco Turigliatto.
R. Io? Può essere, ma non mi ricordo…
Non c’è un libro nella stanza, e nemmeno un computer. Né, a dire il vero, penne, carta o appunti. Lo spazio è pressoché interamente occupato da piante – qualche felce, un oleandro, un ficus – cresciute così alte e rigogliose da aver rotto i vasi in cui erano contenute.
Nello studio-salotto fuori dal quale studenti, cronisti e politici in cerca di benedizioni fanno anticamera da mezzo secolo, il verde diffuso è l’unica indicazione dei pensieri che di questi tempi affollano la mente di Noam Chomsky.
Lo scienziato che ha rivoluzionato la teoria del linguaggio, inventore della grammatica generativa, pensatore difficile e spesso fastidioso, fustigatore della politica internazionale, ma apprezzato da tutti perché osteggiarlo può essere compromettente, è seraficamente quieto e imperscrutabile.
50 ANNI AL MIT. Definirlo esuberante, d’altra parte, sarebbe stato eccessivo anche quando nel 1955, a 26 anni, per la prima volta, varcò la porta del Massachusetts Institute of technology (Mit) con una cattedra provvisoria.
Da allora nel campus tutto è cambiato, tranne lui. Per mezzo secolo, Chomsky ha mescolato scienza, critica sociale e attivismo. Diventò un guru della sinistra pacifista condannando «l'aggressione americana in Vietnam», ai tempi in cui ancora scendere in piazza era tabù. Creò il terzomondismo con le campagne a favore della libertà in Sud America. E, di recente, ha rifiutato il concetto di «Asse del male» del presidente George W. Bush, ponendo seri dubbi sulla lotta al terrorismo internazionale.
IL PENSATORE SENZA ETICHETTE. Il tempo ha ristretto Chomsky in una versione ricurva del se stesso appeso alle pareti in decine di foto e riconoscimenti ufficiali, al fianco dei palestinesi – nonostante le origini ebraiche – e nei discorsi contro la guerra. Ma a 83 anni la lucidità spietata delle sue analisi non è variata. E identiche sono le abitudini.
Ottenere un appuntamento per trovarsi faccia a faccia con il mostro sacro è un’impresa lunga di quelle adatte solo per chi ha molta pazienza.
È lui stesso, d’altra parte, a mettere in guardia. Chomsky risponde personalmente alle email che gli arrivano – da qualche parte deve avere un pc nascosto – per spiegare: «Odio essere burocratico, ma se proprio vuoi parlarmi devi superare il vaglio della mia assistente».
Mesi dopo, in un pomeriggio piovoso di marzo, davanti a una tazza di caffè fumante, immerso nella quiete dell’ufficio fuori Boston che ricorda una serra, il professore scardina però ogni formalità e gerarchia.
Scandisce le parole con lentezza, per essere certo che l’interlocutore capisca sul serio. E si diverte ad anticipare le domande della cronista. «Scommetto che siamo qui a discutere di crisi», esordisce invitandoci a sedere.
DOMANDA. Può essere un buon punto di partenza.
Risposta. Dipende da quale crisi ha in mente.
D. Quante ne esistono?
R. In Europa siete molto preoccupati per quella economica.
D. Facciamo male?
R. No, ma la soluzione per quella c’è già.
D. Cioè?
R. L’hanno offerta Draghi e Trichet: mettere la parola fine al welfare state. E ripensare il lavoro, minandone le sicurezze. Ovviamente, non lo hanno detto con queste parole, ma il senso è chiarissimo.
D. La definirebbe una soluzione?
R. Dal loro punto di vista sì. Da una prospettiva economica non ha senso, perché decine di studi condotti dallo stesso Fondo monetario internazionale, hanno rivelato che l’austerità porta solo alla contrazione.
D. Ma il problema è veramente la crescita?
R. Dipende. Se un’economia cresce in modo sostenibile, con l’obiettivo di dare ai suoi cittadini condizioni di vita decenti, è giusto crescere.
D. Chi stabilisce il livello della decenza?
R. Non è decente sfruttare le risorse con il solo obiettivo di produrre beni e indurre consumi crescenti.
D. Il modello occidentale non è decente, dunque.
R. Non è detto che le nazioni in via di sviluppo siano meglio. La Cina, nonostante il Prodotto interno lordo che aumenta in modo spettacolare da anni, è un Paese estremamente povero con problemi ambientali e demografici gravissimi. L’India è sommersa dalla miseria. Per non dire che in tutta l’Asia centrale l’acqua sta diventando un problema economico.
D. Perché?
R. Il Pakistan è a rischio desertificazione per metà della sua estensione. Riesce a immaginare cosa significa per l’agricoltura? Quali saranno le conseguenze sui cittadini e le migrazioni?
D. A fatica.
D. Ecco, significa che ci sono cose molto più gravi alle quali pensare rispetto alla crisi fiscale ed economica. Scenari che non riusciamo nemmeno a figurarci.
«L'ambiente ci si rivolterà contro. E annienterà intere generazioni»
Noam Chomsky in visita in Sud America.
(© Ap images) Noam Chomsky in visita in Sud America.
D. In concreto?
R. La crisi ambientale. Magari è più lontana, non è dietro l’angolo, non sappiamo quando esploderà, ma ogni giorno in cui evitiamo di pensarci la minaccia cresce.
D. Cosa teme?
R. Questo è il tipo di crisi che potrebbe annientare le generazioni future. Ed è qualcosa che non sappiamo come trattare.
D. Anche le armi nucleari rischiano di azzerare il futuro. E sono tornate in voga.
R. La soluzione però in quel caso esiste: per non rischiare una guerra atomica basta farle sparire.
D. Pare facile?
R. No. Ma per la crisi ambientale è peggio.
D. Perché?
R. Non solo non c’è una soluzione futura, ma non sappiamo nemmeno quali sono in questo momento le conseguenze di quanto fatto nel passato. E perseveriamo negli stessi errori.
D. I Paesi in via di sviluppo vogliono quello che abbiamo noi.
R. Il cambiamento di passo dovrebbe arrivare dalle nazioni più ricche, quelle che hanno maggiori opzioni. Dagli Usa, che sono ancora il Paese più potente al mondo.
D. Gli Stati Uniti non hanno mai firmato il protocollo di Kyoto.
R. Infatti. La cosa interessante è che in questo momento il faro guida sull’ambiente sono i più poveri dei poveri del Sud America: la Bolivia e l’Ecuador.
D. Indios socialisti.
R. La cultura degli indios è legata al rispetto della natura, alla sua preservazione. I cittadini del mondo sviluppato, chiamiamolo così, considerano invece l’ambiente come qualcosa da sfruttare.
D. Popoli diversi hanno bisogni diversi.
R. No. Semplicemente, gli occidentali hanno bisogni costruiti.
D. Cioè?
R. Innaturali, indotti.
D. Sta parlando di crisi ambientale o di crisi del capitalismo?
R. Lo sa qual è il settore aziendale più potente al mondo?
D. Quale?
R. Le pubbliche relazioni. La pubblicità. Il marketing. Negli Stati Uniti fatturano il 6% della ricchezza nazionale.
D. Il business del consumo.
R. Si chiama fabbricare desideri. Sedurre all’acquisto. È ovvio che un’attività di questo tipo ha un impatto sulla società. Ne contamina la mentalità, ne indebolisce il carattere.
D. Come?
R. L’industria spende quantità stratosferiche di denaro per indurre i bambini a convincere i propri genitori a comprare giocattoli che butteranno dopo cinque minuti: così si debilita la cultura di un Paese.
D. Perché?
R. Perché si abbassa la soglia di consapevolezza individuale e collettiva. Con conseguenze pericolose.
D. Quali?
R. Economiche, psicologiche, ecologiche.
D. Come si evitano?
R. Cambiando. Riprendendo il controllo. Nessuno ci obbliga a comportarci come gli altri.
D. Già, ma come si cambia?
R. Qualcuno deve iniziare. C’è sempre qualcuno che inizia: mezzo secolo fa, quando sono arrivato in questo campus, non si vedevano donne in giro per i corridoi.
D. E poi?
R. Poi qualcuno prende consapevolezza e quella consapevolezza diventa coscienza morale e attecchisce tra le persone. Fino a 30 anni fa, la legge americana considerava le donne più o meno come proprietà dei loro uomini. Non garantiva loro diritti basilari. Ora è diverso.
D. Qualcosa di simile sta succedendo in economia?
R. Fino a 50 anni fa nessuno si preoccupava del luogo da cui arrivava il prodotto che comprava. Ora esiste un movimento concreto, anche se ancora non abbastanza grande, che si occupa dell’ambiente e degli animali. Persone che reagiscono all’aggressione dell’uomo al pianeta e agli altri uomini.
«Un mondo a due potenze? No, la Cina è sopravvalutata»
D. Parla di guerra, di ecologia o di economia?
R. Parlo di idrocarburi. Il petrolio è da mezzo secolo una stupenda risorsa di potere strategico. È il carburante dello sviluppo industriale. Il mondo intero ruota intorno al petrolio.
D. Sono gli idrocarburi a determinare l’ordine globale?
R. Dopo la Seconda guerra mondiale fu siglato un patto implicito: l’America avrebbe controllato tutte le risorse e i centri di commercio che un tempo appartenevano all’Europa. L’Eurasia, l’Indocina e tutto l’Ovest. Inoltre esisteva un piano minuzioso, seguito alla lettera per 50 anni, per espandere questo controllo.
D. Oggi che ne è del piano?
R. Vive ancora, ma la capacità di portarlo a termine è minore, perché il potere si è diversificato. E l’America è in declino.
D. La Cina ne ha preso il posto?
R. Il declino non è cosa recente. L’America ha vissuto solo quattro anni di grandezza completa: dal 1945 al 1949. Nel 1949 Pechino ha dichiarato la propria indipendenza. E sa a Washington come si indica quella data?
D. Come?
R. The loss of China, la perdita della Cina. È implicito che si perde solo qualcosa che si possiede. Per gli Usa ogni movimento di indipendenza è una perdita.
D. Perché?
R. Perché l’indipendenza porta i popoli a usare le risorse che possiedono per il proprio benessere, e non per quello dei super ricchi. Il Sud America è l’esempio più lampante: gli Usa lo chiamavano il cortile di casa. Oggi non abbiamo più una sola base militare laggiù.
D. L’ultima perdita è quella del Medio Oriente.
R. Washington ha sostenuto ogni movimento dittatoriale pur di frenare l’indipendenza dei Paesi. E ha mollato i despoti solo all’ultimo, quando anche gli eserciti si erano rivoltati loro contro. È una prassi standard: lo ha sempre fatto, lo farà sempre.
D. In Cina non ci sono dittatori che si possano controllare.
R. La Cina ha un ruolo importante nello scenario globale, ma non bisogna esagerarlo. È una nazione ancora poverissima che è cresciuta enormemente, ma ha problemi interni almeno altrettanto grandi.
D. Viene definita la locomotiva del pianeta.
R. La forza del Paese è stato un sviluppo demografico tumultuoso che oggi si è arrestato e che finirà con il metterli in ginocchio. Non sopravvalutiamo le cose: al momento la Cina è ancora un Paese di produzione industriale seriale, un’immensa fabbrica.
D. Sì, ma fa concorrenza alle nostre.
R. La Cina è un tassello importante del sistema est asiatico, ma funziona ancora a trazione esterna, soprattutto del Giappone e della Nord Corea.
D. E allora perché gli Usa ricevono con ogni onore il loro futuro presidente?
R. La minaccia è un’altra: la Cina spaventa per il potenziale militare. In questo momento c’è un conflitto sotterraneo sul controllo delle acque cinesi: Washington sta costruendo basi in Giappone, Sud Corea e Australia per mantenere una presenza geografica forte nell’area.
D. C’è una guerra in vista?
R. Supponiamo che Pechino volesse costruire delle basi militari nei Caraibi, l’America glielo lascerebbe fare? Ritorniamo al concetto di perdita e possesso: ogni volta che qualcuno alza la testa, siamo pronti a ricacciarlo indietro.
D. L’Europa ha un ruolo in questo assetto o è un gioco a due?
R. Nel 1945 gli Usa decisero consapevolmente di prendere la guida del mondo e chiesero ai britannici di fare da junior partner. Ora stanno provando a fare lo stesso con il Giappone, che però ha una costituzione pacifista che gli Usa cercano in ogni modo di forzare.
D. E l’Europa?
R. L’Europa nel suo complesso dopo la Seconda guerra mondiale ha smesso di fare guerre. Si limita a seguire alcune iniziative americane laddove è necessario ai propri interessi. Gli europei hanno smesso di combattersi tra loro. Si sono ammazzati per secoli, poi è arrivata la cosiddetta pace democratica.
D. E cioè?
R. Formalmente, si dice che le democrazie non vanno in guerra. In realtà, in Europa hanno capito che se avessero continuato a combattere avrebbero finito con l’annientarsi.
«La strategia di Obama? Una campagna di assassinii mirati»
D. Gli Usa continuano invece. Anche se Obama aveva promesso un approccio diverso.
R. La strategia militare americana con Obama in effetti è cambiata. Nell’era Bush la pratica era: se qualcuno ti ostacola, invadi il Paese, fai dei prigionieri, li deporti e li torturi. Obama ha optato per una strategia di assassinii mirati, una campagna di omicidi internazionali.
D. Questo è meglio o peggio di prima?
R. Costa meno, è più efficiente, è più comodo. Tant’è vero che il dibattito ora ruota intorno alla possibilità di farlo anche con i cittadini americani, e questo risulta più difficile da accettare.
D. Ma Obama doveva essere il presidente del cambiamento.
R. Promesse: la sua immagine fu costruita a tavolino. La campagna per la sua elezione è stata un prodigio delle pubbliche relazioni. Tant’è vero che all’annuale riunione dell’industria pubblicitaria, nel 2009, il premio per la miglior campagna fu assegnata al team del presidente. Arrivò prima della Apple nella capacità di costruire illusioni.
D. Insomma, è uguale a Bush?
R. No, non uguale. Per alcune cose meglio, per altre – poche – peggio.
D. Se nel 2012 alla Casa Bianca arrivasse qualcun altro sarebbe diverso?
R. I repubblicani hanno abbandonato ogni speranza di essere una forza politica normale. La loro è una vocazione religiosa verso gli interessi delle multinazionali e del business. Il catechismo è: niente tasse ai ricchi, oppure sei fuori dal partito.
D. Vale per tutti, Romney come Santorum?
R. Nessun candidato repubblicano può presentarsi di fronte agli elettori e dire onestamente: «Noi lavoriamo per i super ricchi e non ci interessa di voi». Tutti, quindi, hanno bisogno di mobilitare frammenti di popolazione che sono sempre esistiti, ma non hanno mai avuto alcuna rilevanza.
D. Per esempio?
R. Ultra religiosi, nazionalisti terrorizzati che qualcuno possa minacciarli, fanatici delle armi. Cose di questo genere. E il risultato è che tutti i candidati repubblicani sembrano venire da Marte.
D. Cioè?
R. Dicono cose che in altri Stati semplicemente sarebbero illegali.
D. Per esempio?
R. Prendiamo Santorum, uno che ha detto: «Il potere discende direttamente da Dio». Dove altro si può sentire una cosa del genere? Io credo che nemmeno in Iran si spingano così in là.
D. Ma la gente li sceglie.
R. Non solo: applaude contenta. Questo è quello che succede quando organizzi e fomenti una base elettorale folle soltanto perché non puoi dire la verità.
D. Quindi non è lo stesso avere come presidente Obama o Santorum.
R. No, non è lo stesso. Non amo Obama, ma qualsiasi dei repubblicani sarebbe semplicemente disastroso. E pericoloso. Non tanto per chi sono loro, quanto per la gente che si portano dietro.
D. A proposito di elezioni, nel 2008 lei in Italia appoggiò Sinistra Critica, una formazione di estrema sinistra.
R. Chi?
D. Sinistra critica, il movimento dell’ex senatore Franco Turigliatto.
R. Io? Può essere, ma non mi ricordo…
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