3.12.12

L’età dell’abbondanza (di informazioni)

Prosegue il viaggio de «La Stampa»
nel nuovo mondo digitale per scoprire come la tecnologia sta trasformando le nostre vite e quali sono e saranno le sfide e le opportunità che offre a ciascuno di noi. Questa quarta puntata dell’inchiesta è dedicata
alla cultura e all’informazione.

Giuseppe Granieri (La Stampa)

Noi siamo i nuovi consumatori - ha scritto recentemente Craig Mod - siamo i nuovi lettori, i nuovi scrittori, i nuovi editori. Con questa affermazione, Craig, uno dei più affermati book designer e una delle voci più attente all’innovazione nel mondo dell’editoria, non dice una cosa nuova. Già nel 2005 Kevin Kelly, un altro gigante dell’analisi del mondo contemporaneo, aveva scritto su «Wired» che entro una decina di anni tutti scriveremo il nostro libro, comporremo la nostra canzone e produrremo il nostro film.

Se vogliamo provare a ricostruire il senso di una cultura che sta iniziando a funzionare in un modo nuovo, questa è una delle possibili narrazioni. La tecnologia, che per anni abbiamo trattato come una sottocultura per «appassionati di computer» - magari anche un po’ sociopatici - sta abilitando milioni di persone a produrre contenuti. Detto in un altro modo, i costi di pubblicazione e di distribuzione tendono a zero. E l’accesso ai prodotti culturali sta diventando più semplice ed economico.

Veniamo da secoli in cui l’informazione (in tutte le sue forme, anche più universali, dal libro alla notizia) era un bene scarso. Era costosissimo produrla e distribuirla, farla circolare fisicamente, dare ai cittadini la possibilità di incontrarla. Tutta l’industria culturale si era disegnata intorno a questo limite funzionale. Un canale televisivo costa, un giornale è una grande avventura imprenditoriale, il vantaggio competitivo di un grande editore era la capacità di distribuire fisicamente un libro in tutte le librerie.

Poi nel giro di pochi anni, straordinariamente pochi, questo modello è andato in crisi. È cambiato il nostro modo di informarci e di leggere, abbiamo fatto amicizia con YouTube, il giornalismo sta imparando dai blogger la grammatica della Rete. E si stima che l’anno prossimo, con la facilità di produrre e distribuire ebook, si pubblicheranno tra i 10 e i 15 milioni di libri.

La previsione di Kelly non era un gesto visionario. Già oggi, semplicemente inclusi nel sistema operativo dei computer, anche quelli più a buon mercato, abbiamo software che ci consentono di fare produzione video. E solo pochi anni fa uno studio di montaggio richiedeva investimenti per decine di milioni di vecchie lire. Oggi possiamo scrivere un romanzo, dargli la forma dell’ebook e distribuirlo in tutto il mondo in pochi minuti. «La pubblicazione - scriveva Clay Shirky qualche mese fa - è diventata un pulsante». Il tastino Publish che trovi su Amazon, il tastino Post che trovi sui blog. O il tastino Upload che ci propone Youtube.

Tecnicamente, dunque, possiamo farlo tutti. Quello che ci manca è il dominio dei linguaggi espressivi. Posso produrre facilmente un video, ma non è detto che io sappia farlo. Posso mettere in vendita il mio libro, ma non è detto che io sappia scrivere. Qui subentra un altro fattore critico: la maggior lentezza della cultura rispetto alla tecnologia. Ma - lo abbiamo visto accadere con i blog e con il self-publishing negli Stati Uniti - la Rete diventa una formidabile comunità di pratiche. Si osservano i casi di successo, si condividono dati e consigli, si guarda a ciò che fanno i migliori. E si cresce.

Così l’idea stessa di alfabetizzazione tende a diventare più complessa. In un mondo come quello contemporaneo, essere alfabetizzati non significa più solo saper leggere e scrivere. Significa, piuttosto, essere in grado di navigare tra le informazioni, di usare nuovi strumenti, di saper riportare su se stessi il ruolo di «mediazione culturale» che prima delegavamo ai pochi che erano abilitati a diffondere cultura.

In tempi veloci come i nostri, il purista è per definizione un conservatore. Siamo nel mezzo di una grande «volgarizzazione» della cultura. Ma non è una volgarizzazione che possiamo raccontarci con una trama simile a quella dell’invasione dei barbari. È un processo che non accade per la prima volta: la stampa, per esempio, deve essere sembrata una specie di macchina infernale agli amanuensi. Il problema, se vogliamo, è che la «ferraglia per stampare libri» ci ha messo secoli per cambiare la grammatica culturale e portare, per esempio, al pensiero scientifico moderno e all’illuminismo. E all’idea di enciclopedia, che è un grande tentativo di mettere ordine nella conoscenza.

Internet e le tecnologie digitali sono molto più veloci. In un battito d’ali hanno costretto l’intera industria culturale a inseguire nuove regole del gioco. E noi stessi, da almeno 15 anni, stiamo raccontando il cambiamento dopo averlo visto accadere. La Rete fa un lavoro semplice da descrivere, ma bellissimo e potente. Consente a chiunque di immettere innovazione da ogni punto. E ogni innovazione apre nuove idee, ci fa pensare che possiamo fare le cose in modo diverso o che possiamo fare cose nuove. E, per quanto abbiamo visto finora, se dai a milioni di persone la possibilità di far cose che prima non potevano fare, le persone le fanno.

La nostra cultura ha sempre lavorato verso le volgarizzazioni. Ha sempre cercato di essere più efficiente nella circolazione e nell’accesso alla conoscenza. Ciò che alla gente del tempo sembrava volgare (i romanzi a puntate sui giornali) per noi oggi è diventato un classico: vedi alla voce Balzac o Hugo. Poi, certo, nuove soluzioni portano sempre nuovi problemi, un po’ come la ricerca scientifica - alla fine - produce solo nuove domande. Così ci troviamo di fronte a un modello - quello dell’abbondanza - che mette in crisi diversi punti di riferimento con cui siamo cresciuti. L’abbondanza di prodotto culturale ci obbliga a cambiare il nostro approccio (siamo noi a scegliere cosa ci interessa quando ci interessa) e ci richiede capacità nuove, tutte da imparare.

Ma, soprattutto, ridefinisce l’idea del valore del prodotto culturale. Prima era scarso, e pagavamo il supporto. Oggi è abbondante e tendiamo ad aspettarci che costi sempre meno. Ma qui, a cascata, arrivano i problemi: come si pagherà il lavoro di chi produce cultura? Alcuni mesi fa, in un’intervista a La Stampa, l’editore americano Richard Nash spiegava che difficilmente nei prossimi anni si faranno soldi vendendo i contenuti. Non sappiamo se è vero. Ma la cultura sta cambiando e tutti noi dobbiamo essere capaci di pensarla in modo diverso, di produrla invece di inseguirla.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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