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15.9.18

Quando la vita imita la letteratura

Guido Vitiello, insegnante e saggista

14 settembre 2018 

Gentile bibliopatologo,

temo di aver instaurato con un autore e una sua opera, in particolare, un rapporto a tal punto viscerale da travalicare il mero e sano apprezzamento, sconfinando in quel processo mentale che la psicoanalisi definisce “traslazione”. L’autore è Philip Roth, il libro L’animale morente. L’ho letto una decina di volte, introiettando ossessioni e fragilità della protagonista e trasponendo, più o meno consciamente, un’esperienza parallela alla sua nel mio vissuto. Disfarsi del libro basterà a liberarsi di questa struggente parabola che pare ormai destinata a perpetuarsi all’infinito?

-Wanda O.

Cara Wanda,
scrisse una volta Umberto Saba che “niente consola più di un bel verso pessimista”. Per esempio, diceva, versi come questi di Goethe, dal secondo Canto notturno del viandante (“Abbi pazienza. In breve / riposerai anche tu”), possono salvare un giovane dalla disperazione: “Sono versi eminentemente sociali”. Volendo, puoi considerarli i precursori letterari del Telefono amico.

Purtroppo Goethe li scrisse solo nel 1780: troppo tardi per farli leggere al giovane Werther e ai tanti disperati per amore che, imitando pedissequamente il protagonista del suo romanzo di sei anni prima, avevano preso il brutto vizio di spararsi un colpo alla tempia. Chissà, magari tutta la storia avrebbe preso un’altra piega. Allo stesso modo, supponeva Ennio Flaiano, se Madame Bovary avesse letto Madame Bovary forse non si sarebbe avvelenata.

Tu parli di traslazione, ma la parola più adatta credo sia un’altra: emulazione. Faccenda antica quanto la letteratura – Paolo e Francesca non imitavano forse Lancillotto e Ginevra? E Don Chisciotte non era un plagio ambulante dei romanzi cavallereschi? – che tuttavia, nella nostra epoca intossicata dalla fiction, ci è un po’ scappata di mano.

Ne ha scritto di recente Luca Mastrantonio in Emulazioni pericolose, un saggio che si apre con “l’effetto Werther” e procede con un lussureggiante inventario di casi noti e meno noti: la moda della roulette russa dopo il Cacciatore di Michael Cimino, Mark Chapman che spara a John Lennon dichiarando di essersi rifatto al Giovane Holden, le stragi scolastiche ispirate a Ossessione di Stephen King, i lenti avvelenamenti da tallio – facile da somministrare attraverso cibi e bevande – compiuti usando come manuale un romanzo di Agatha Christie, Un cavallo per la strega (propongo un’integrazione all’ipotesi di Flaiano: se Madame Bovary avesse letto anche la Christie, non solo non si sarebbe uccisa, ma avrebbe condito ogni giorno con il tallio la zuppa di cipolle del marito).

Il tuo sembrerebbe un caso di emulazione erotica, e nel libro di Mastrantonio ce n’è un buon esempio, anche se su un modello meno raffinato di Roth. Dalla febbre imitativa scatenata da Cinquanta sfumature di grigio di E.L. James si avvantaggiarono in molti. I sex shop moltiplicarono le vendite degli accessori che Christian Grey fa provare ad Anastasia, specie le “palline della geisha”; una grande catena di ferramenta inglese dovette approntare un vademecum per i dipendenti, un po’ sconcertati da tutte quelle richieste di corde, cavi e scotch da elettricisti; alcuni alberghi si attrezzarono per ospitare stanze a tema. Tutti soddisfatti, con un’eccezione:

Gli unici che si sono lamentati del boom delle Sfumature sono stati i vigili del fuoco di Londra, che nei tre anni successivi all’uscita del romanzo hanno visto aumentare considerevolmente le chiamate per “rimozione oggetti dalle persone” e “rimozione persone dagli oggetti”: espressioni asettiche che raggruppano casi di uomini con il pene incastrato nell’aspirapolvere o donne legate al letto con manette che non si aprono più.

Grazie alle peripezie di lettrici e lettori di adorabile goffaggine, un romanzo sadomasochistico un po’ incolore – ben più innocuo e blando della Venere in pelliccia a cui il tuo pseudonimo ammicca – ha offerto lo spunto per chissà quante gag comiche, con pompieri e fabbri impegnati a districare combinazioni anatomicamente spericolate. Capisci dove voglio arrivare? Il tuo registro fatalistico e melodrammatico – “struggente parabola che pare ormai destinata a perpetuarsi all’infinito” – non tiene conto di una cosa: ogni emulazione è una riscrittura, o se vogliamo un esperimento di fan fiction. Non potresti riprodurre la stessa storia neppure con tutto l’impegno del mondo. Magari la tua versione dell’Animale morente è destinata a un finale epico, con gli elicotteri dei pompieri che accorrono la notte di Capodanno sulle note della Cavalcata delle Valchirie.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

Dal 5 al 7 ottobre Guido Vitiello terrà un workshop sull’arte della recensioneal festival di Internazionale a Ferrara.

IL BIBLIOPATOLOGO RISPONDE


2.4.16

Come ti promuovo il libro su Facebook

Roberto Cotroneo

C’è gente che continua a pensare a Twitter come a un social efficace, perfetto per rimandare con dei link a quello che si fa altrove. Altri che invece non hanno ancora capito come funziona Pinterest o – peggio – cosa fare con Google Plus. Ma sono social più difficili da gestire. Quello che non si riesce davvero a capire è perché solo pochissimi hanno compreso come funziona davvero Facebook. Il punto è questo. È del tutto evidente che Facebook non serve più a contattare i vecchi amici del College o del liceo. Chi lo fa è un vecchio nostalgico, di quelli che rimpiangono ancora il cruscotto in radica delle vecchie automobili. Ma se Facebook non serve a rientrare in contatto con vecchi amici o compagni di scuola a cosa serve?

Escludiamo seduttori o seduttrici seriali, ovvero quelli che aggiungono amici e amiche su Facebook per motivi nobilissimi ma che hanno a che fare più con la comunicazione corporea piuttosto che con quella verbale. Un desiderio rispettabile che però sta prendendo nuove direzioni e nuovi social dove tutto è più esplicito e non si deve fingere di parlare dell’ultimo libro di Paul Beatty per poi chiedere le misure e lumi circostanziati sul colore della biancheria intima. Per cui, esclusi i seduttori e lasciata agli intenditori di nicchia la ricerca di vecchie amicizie (ci sarebbero anche i seduttori di vecchie amicizie ma entreremmo nelle vere eccentricità) resta solo una cosa: Twitter e Facebook come mostruose macchine di marketing. Ovvero: come mi promuovo.

Ma come mi promuovo? Di solito lo si fa in maniera istintiva e intima, perché il marketing, strategia fredda e impersonale atta a convincerti che ti serve proprio quello che ti stanno pubblicizzando, sui social si fa epidermico, amichevole. Si comincia dalla fotina di presentazione. A un certo punto scompare la faccia di una vecchia conoscenza e appare la copertina di un libro. Naturalmente nelle informazioni immediatamente visibili si aggiungono il numero di pagine, il prezzo, l’editore, e qualche ardito mette anche una frasetta che rende l’idea, tipo: in tutte le librerie. La foto del profilo fa il paio con una immagine di copertina che spesso è una sala, un teatro dove si presenta il libro. Così si capisce subito di cosa si parla. Quelli più sofisticati mettono loro stessi nell’atto di scrivere, nel proprio studio, davanti al computer, oppure nel gesto sempre molto apprezzato del correggere le ultime bozze. Altri, immaginando ci sia una connessione stretta tra lo scrivere e il pensare (sempre meno dimostrabile, va detto) aggiungono magari un ritratto dove il pollice e l’indice della mano vanno a sorreggere il mento con lo sguardo identico, si suppone, di Newton nell’atto del contemplare la celebre mela caduta dall’albero.

Dopo aver espletato queste formalità. Si pubblica tutto quanto riguarda il libro appena edito. Si comincia con l’aletta di copertina, per poi condividere la propria agenda personale con tutti quelli che ti sono amici o ti seguono. Genere: mercoledì alle 18.00 a Polizzi Generosa, nella sala consiliare del Comune, presentazione del libro: In cerca di te, sarà presente l’autore. Con preghiera inevitabile: venite tutti, se siete da quelle parti.

Oltre all’agenda si comincia un doppia attività per certi versi suggestiva. Postare citazioni dal libro, scelte per intervallare la spenta giornata dei frequentatori di social, ma alternandole a elogi che sono sempre commoventi, belli, intensi, inaspettati, anche se li posta tua sorella sotto falso nome.

Purtroppo non c’è niente di peggio del marketing intimistico. Finge di raccontare a un amico un libro per venderglielo. Quando, si sa, agli amici i libri si dovrebbero regalare. Ma sta diventando un’epidemia, e non solo tra gli scrittori meno noti. Anche quelli che dovrebbero cavarsela senza social e che hanno una visibilità discreta, fanno le stesse cose. In questa ossessione per il successo Facebook e Twitter sembrano la strada più breve. Eppure, nonostante tutto questo gigantesco marketing intimistico non si sono mai venduti così pochi libri come in questo periodo. Forse sarebbe il caso di cambiare metodo.

11.12.13

Il comune senso del censore

di Pierluigi Battista (Corriere.it)

Tagli e denunce per Moravia, Malaparte, Bianciardi e Testori 
Quando in Italia sembrava osceno anche l’«Ulisse» di Joyce

In una scena memorabile del film Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, il Totò oramai adulto guarda commosso tutte le scene di baci tagliate dal prete del paese e rimesse insieme per lui, come in un ardente collage, dal vecchio Philippe Noiret: è un nuovo film, tutto fatto di baci censurati. Un massiccio libro appena uscito da Aragno, Maledizioni di Antonio Armano, rivela i tratti di un’altra storia, parallela, della cultura dell’Italia democratica: quella tagliata dalla censura, sforbiciata, mutilata, sottoposta a sequestro, messa sul banco degli imputati. Un Indice dei libri (almeno provvisoriamente) proibiti e sequestrati che descrive le zone d’ombra di un modello culturale, di una mentalità conformista, di una mai domata volontà censoria. Che prosegue fino ad oggi, anche se si ammanta di nobili intenzioni, in nome del politicamente corretto, anzi immacolato.

Spesso le motivazioni censorie mescolano invocazione del «senso del pudore» offeso e imbarazzo politico. Gli editori spagnoli di obbedienza franchista aizzarono la magistratura italiana per perseguitare e cancellare l’edizione Einaudi dei Canti della nuova resistenza spagnola, raccolti e antologizzati da Sergio Liberovici e Michele Straniero nel 1963. Ma invece di rendere palese il motivo politico dei tentativi di sequestro del libro, l’indignazione si concentrò su una strofetta considerata indecente e blasfema: «Al Cristo de Limpias dicen que crece al pelo/ la qua crece es la polla/ de darla en culo al clero», così tradotta: «Al Cristo di Limpias dicono che gli crescono i capelli/ ma quel che gli cresce è il cazzo/ per darlo in culo al clero». Versi forti, non c’è che dire. E la mannaia si abbatté sul libro einaudiano. Difeso anche dall’etnologo Ernesto De Martino, che denunciava analoghe commistioni tra «blasfemia» e politica: «Quando ho fatto le mie raccolte di folklore religioso nel Sud d’Italia, le mie difficoltà le ho avute da parte della reazione. E tutto per strofette innocue come: “Santo Paolo mio delle Tarante/ che pizzichi le ragazze tutte quante”». Forbici vereconde, anche qui.

Moltissimi scrittori, racconta dettagliatamente Armano, entrarono nel mirino censorio degli inflessibili e austeri sacerdoti del pudore offeso che, come Alberto Sordi nel Moralista del 1959, magari finivano per gestire un giro di locali notturni. Ovviamente si accanirono contro Garzanti e Pier Paolo Pasolini per Ragazzi di vita nel 1955. «Io ho dei figli e non vorrei certo che il suo libro andasse per le loro mani», disse il presidente della IV sezione penale del Tribunale di Milano quando il romanzo venne denunciato e sequestrato. Erano i tempi in cui, come ricorda Armano, «in Rai la parola “rinculo” si sostituiva con “contraccolpo”». Pasolini tentò strenuamente di difendersi e, quando l’accusa mostrò il passo che aveva destato più scandalo, quello che descriveva il rapporto tra un ragazzo e una capra («Mo er pastore m’ha visto che me la inc…, li mortacci sua, e m’ha denunciato»), lo scrittore, a sua discolpa, contrattaccò: «Quanto alle parolacce, come vede, ho fatto molto uso di puntini». Alberto Moravia, poi, è come se avesse avuto appuntamento fisso con censori e denunciatori a ogni uscita di romanzo. Non venne risparmiata La ciociara nel 1956, ma non per la scena celeberrima e terribile dello stupro della figlia da parte delle truppe marocchine, bensì per certi passaggi sulla sessualità della madre, la vedova ciociara Cesira: «Così lui mi spinse sopra certi sacchi di carbon dolce, e io mi diedi a lui e sentii mentre mi davo a lui che era la prima volta che mi davo veramente a un uomo». Noie, è il caso di dire, Moravia le ebbe anche per La noia e per La vita interiore, a causa di certi passaggi irriferibili. Ma d’altronde tutta l’opera di Moravia sfiorava le fiamme dell’inferno, non foss’altro perché nel provvedimento in latino con cui il Vaticano metteva all’indice i suoi libri, si leggeva: «Opera omnia Alberti Pincherli».

Giovanni Testori ebbe molti guai con la censura. Non solo, come è ampiamente noto, per la trasposizione teatrale dell’Arialda, con la regia di Visconti, che scatenò proteste in sala, all’Eliseo, per talune «espressioni scatologiche» o «da lupanare», come scrisse un giornale di allora. Ma anche per Il ponte della Ghisolfa, grazie ad alcuni passaggi che suonavano come autentiche bestemmie. Non sfuggì alla tenaglia censoria Luciano Bianciardi, autore nel 1965 del racconto «La solita zuppa», all’interno di una raccolta di autori vari pubblicata dall’editore Sugar con il titolo L’arte di amare. Anche qui: immediata accusa per Bianciardi e l’editore Massimo Pini per «oltraggio al pudore» e «vilipendio della religione di Stato». A differenza di Riccardo Bacchelli, che in sostanza condivideva l’offensiva censoria, Oreste del Buono difese Bianciardi («Il racconto è uno scherzo, uno scherzo non per minorenni, ma uno scherzo che mira a colpire una stortura»). Ma per l’autore della Vita agra, i guai giudiziari furono pesantissimi. E non fu certo l’ultima volta che il «comune senso del pudore» si sentì oltraggiato, secondo quanto denunciato da chi se ne è sempre considerato, abusivamente, l’unico interprete autorizzato.

È curioso ricordare che a far le spese dello zelo dei «moralisti» alla Alberto Sordi fu anche negli anni Sessanta una Guida ai piaceri di Londra, perché venivano indicati gli hotel che rappresentavano, ad avviso dei curatori un po’ scombinati, «i posti migliori per uccidersi». Se Jacovitti, racconta Armano, avesse voluto continuare con la sua fortunatissima serie del «Diario-Vitt», il prezzo, imposto dall’editore, doveva essere l’immediata cessazione dei disegni per un Kamasutra i cui testi erano il parto del talento di Marcello Marchesi («Ammucchiata. Congresso carnale multiplo di almeno dieci persone. Fino a sei è un rapporto sentimentale»). Viene anche ampiamente ricostruito l’interdetto, con relativo e canonico sequestro, di Porci con le ali di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, e la lettera aperta al magistrato che sul «Corriere della Sera» vergò Giuliano Zincone, per denunciare il doppio standard morale che sfavoriva in modo iniquo il libro censurato: «I ragazzini leggono giornaletti chiamati “Sorchella”, “Spermula” e favolette porno dove i sette nani hanno nomi che è bello tacere», eppure in questo caso nessuno si muoveva. E la ghigliottina censoria colpì anche negli anni Ottanta Pier Vittorio Tondelli per il suo romanzo Altri libertini e Aldo Busi per Sodomie in corpo 11. Alla fine della sua vita Tondelli deciderà di rimettere mano al romanzo, purgandolo delle bestemmie. Fu ostinata la battaglia di Busi contro l’accusa di «oscenità»: «Che cos’è “sessualismo fine a se stesso”? Cosa vuol dire “rappresentazioni crudamente veristiche di amplessi”?». Ostinata come la decisione, molti anni prima, di Curzio Malaparte, di non chiedere scusa alla città di Napoli dopo la messa al bando «morale» che esponenti illustri di questa città avevano decretato contro l’autore di La pelle, considerata un atto di oltraggio nei confronti di Napoli, uno sfregio tremendo alla sua immagine.

Ovviamente la mannaia censoria non poteva non abbattersi anche su quegli autori stranieri che già in giro per il mondo avevano subito tagli e mutilazioni sotto l’accusa di «oscenità». A cominciare dall’Ulisse di James Joyce, uscito a Parigi per la Shakespeare & Co di Sylvia Beach, che vide la luce in Italia solo nel 1961, scatenando subito le velleità censorie di agguerriti delatori: «In data 23 gennaio 1961 alla Questura di Genova perveniva una segnalazione con la quale si faceva notare che nella parte terminale del romanzo Ulisse di Joyce vi erano pagine a sfondo erotico con descrizioni che potrebbero rivestire carattere pornografico». Erano le pagine del monologo di Molly Bloom, il monumento del «flusso di coscienza» che i censori italiani non potevano tollerare, anche se a Verona un giudice dichiarò «improponibile l’azione penale» contro il capolavoro di Joyce. Stessa sorte, denunce, accuse e sequestri, ovviamente per L’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence, la vicenda di una donna sposata a un marito paralizzato e reso impotente, a causa delle ferite di guerra, che troverà un rovente approdo erotico con un robusto guardiacaccia: un libro peraltro messo al bando in Inghilterra fino all’inizio degli anni Sessanta.

Sorte non dissimile per il Tropico del Capricorno di Henry Miller, tradotto in italiano dallo stesso Luciano Bianciardi. Ma sfiora il ridicolo la storia ricostruita da Armano delle vicissitudini subite in Italia dalla traduzione di Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg, pubblicata nel 1965 grazie all’ostinazione di Fernanda Pivano. Per evitare guai con la censura si provvide a una «snervante contrattazione», condotta eroicamente dalla stessa Pivano, allo scopo di edulcorare con eufemismi e attenuazioni le espressioni più crude, che avrebbero esposto il libro alle rappresaglie censorie. Ma tutti gli sforzi non impedirono che Ginsberg venisse addirittura arrestato a Spoleto, ospite del Festival dei Due Mondi allora diretto dal suo creatore Giancarlo Menotti. Secondo la Pivano, Ginsberg aveva affrontato l’arresto con molto nervosismo. Perché? «Perché stava perdendo un incontro con Ezra Pound». Un grande contro la censura, ottusa e piccina.

3.12.12

L’età dell’abbondanza (di informazioni)

Prosegue il viaggio de «La Stampa»
nel nuovo mondo digitale per scoprire come la tecnologia sta trasformando le nostre vite e quali sono e saranno le sfide e le opportunità che offre a ciascuno di noi. Questa quarta puntata dell’inchiesta è dedicata
alla cultura e all’informazione.

Giuseppe Granieri (La Stampa)

Noi siamo i nuovi consumatori - ha scritto recentemente Craig Mod - siamo i nuovi lettori, i nuovi scrittori, i nuovi editori. Con questa affermazione, Craig, uno dei più affermati book designer e una delle voci più attente all’innovazione nel mondo dell’editoria, non dice una cosa nuova. Già nel 2005 Kevin Kelly, un altro gigante dell’analisi del mondo contemporaneo, aveva scritto su «Wired» che entro una decina di anni tutti scriveremo il nostro libro, comporremo la nostra canzone e produrremo il nostro film.

Se vogliamo provare a ricostruire il senso di una cultura che sta iniziando a funzionare in un modo nuovo, questa è una delle possibili narrazioni. La tecnologia, che per anni abbiamo trattato come una sottocultura per «appassionati di computer» - magari anche un po’ sociopatici - sta abilitando milioni di persone a produrre contenuti. Detto in un altro modo, i costi di pubblicazione e di distribuzione tendono a zero. E l’accesso ai prodotti culturali sta diventando più semplice ed economico.

Veniamo da secoli in cui l’informazione (in tutte le sue forme, anche più universali, dal libro alla notizia) era un bene scarso. Era costosissimo produrla e distribuirla, farla circolare fisicamente, dare ai cittadini la possibilità di incontrarla. Tutta l’industria culturale si era disegnata intorno a questo limite funzionale. Un canale televisivo costa, un giornale è una grande avventura imprenditoriale, il vantaggio competitivo di un grande editore era la capacità di distribuire fisicamente un libro in tutte le librerie.

Poi nel giro di pochi anni, straordinariamente pochi, questo modello è andato in crisi. È cambiato il nostro modo di informarci e di leggere, abbiamo fatto amicizia con YouTube, il giornalismo sta imparando dai blogger la grammatica della Rete. E si stima che l’anno prossimo, con la facilità di produrre e distribuire ebook, si pubblicheranno tra i 10 e i 15 milioni di libri.

La previsione di Kelly non era un gesto visionario. Già oggi, semplicemente inclusi nel sistema operativo dei computer, anche quelli più a buon mercato, abbiamo software che ci consentono di fare produzione video. E solo pochi anni fa uno studio di montaggio richiedeva investimenti per decine di milioni di vecchie lire. Oggi possiamo scrivere un romanzo, dargli la forma dell’ebook e distribuirlo in tutto il mondo in pochi minuti. «La pubblicazione - scriveva Clay Shirky qualche mese fa - è diventata un pulsante». Il tastino Publish che trovi su Amazon, il tastino Post che trovi sui blog. O il tastino Upload che ci propone Youtube.

Tecnicamente, dunque, possiamo farlo tutti. Quello che ci manca è il dominio dei linguaggi espressivi. Posso produrre facilmente un video, ma non è detto che io sappia farlo. Posso mettere in vendita il mio libro, ma non è detto che io sappia scrivere. Qui subentra un altro fattore critico: la maggior lentezza della cultura rispetto alla tecnologia. Ma - lo abbiamo visto accadere con i blog e con il self-publishing negli Stati Uniti - la Rete diventa una formidabile comunità di pratiche. Si osservano i casi di successo, si condividono dati e consigli, si guarda a ciò che fanno i migliori. E si cresce.

Così l’idea stessa di alfabetizzazione tende a diventare più complessa. In un mondo come quello contemporaneo, essere alfabetizzati non significa più solo saper leggere e scrivere. Significa, piuttosto, essere in grado di navigare tra le informazioni, di usare nuovi strumenti, di saper riportare su se stessi il ruolo di «mediazione culturale» che prima delegavamo ai pochi che erano abilitati a diffondere cultura.

In tempi veloci come i nostri, il purista è per definizione un conservatore. Siamo nel mezzo di una grande «volgarizzazione» della cultura. Ma non è una volgarizzazione che possiamo raccontarci con una trama simile a quella dell’invasione dei barbari. È un processo che non accade per la prima volta: la stampa, per esempio, deve essere sembrata una specie di macchina infernale agli amanuensi. Il problema, se vogliamo, è che la «ferraglia per stampare libri» ci ha messo secoli per cambiare la grammatica culturale e portare, per esempio, al pensiero scientifico moderno e all’illuminismo. E all’idea di enciclopedia, che è un grande tentativo di mettere ordine nella conoscenza.

Internet e le tecnologie digitali sono molto più veloci. In un battito d’ali hanno costretto l’intera industria culturale a inseguire nuove regole del gioco. E noi stessi, da almeno 15 anni, stiamo raccontando il cambiamento dopo averlo visto accadere. La Rete fa un lavoro semplice da descrivere, ma bellissimo e potente. Consente a chiunque di immettere innovazione da ogni punto. E ogni innovazione apre nuove idee, ci fa pensare che possiamo fare le cose in modo diverso o che possiamo fare cose nuove. E, per quanto abbiamo visto finora, se dai a milioni di persone la possibilità di far cose che prima non potevano fare, le persone le fanno.

La nostra cultura ha sempre lavorato verso le volgarizzazioni. Ha sempre cercato di essere più efficiente nella circolazione e nell’accesso alla conoscenza. Ciò che alla gente del tempo sembrava volgare (i romanzi a puntate sui giornali) per noi oggi è diventato un classico: vedi alla voce Balzac o Hugo. Poi, certo, nuove soluzioni portano sempre nuovi problemi, un po’ come la ricerca scientifica - alla fine - produce solo nuove domande. Così ci troviamo di fronte a un modello - quello dell’abbondanza - che mette in crisi diversi punti di riferimento con cui siamo cresciuti. L’abbondanza di prodotto culturale ci obbliga a cambiare il nostro approccio (siamo noi a scegliere cosa ci interessa quando ci interessa) e ci richiede capacità nuove, tutte da imparare.

Ma, soprattutto, ridefinisce l’idea del valore del prodotto culturale. Prima era scarso, e pagavamo il supporto. Oggi è abbondante e tendiamo ad aspettarci che costi sempre meno. Ma qui, a cascata, arrivano i problemi: come si pagherà il lavoro di chi produce cultura? Alcuni mesi fa, in un’intervista a La Stampa, l’editore americano Richard Nash spiegava che difficilmente nei prossimi anni si faranno soldi vendendo i contenuti. Non sappiamo se è vero. Ma la cultura sta cambiando e tutti noi dobbiamo essere capaci di pensarla in modo diverso, di produrla invece di inseguirla.

13.4.12

Raffaele Simone: "La izquierda de hoy teme hasta presentarse como izquierda"

Pedro Vallín - La Vanguardia

El lingüista y especialista en filosofía del lenguaje y la cultura, sacudió las conciencia de su país con "El monstruo amable", en el que, a partir de la desaparición de la izquierda tradicional italiana, ensaya las causas del giro del mundo a la derecha.

Lingüista y especialista en filosofía del lenguaje y la cultura, Raffaele Simone ha conseguido sacudir las conciencia de su país con El monstruo amable (Taurus), provocadoramente subtitulado ¿El mundo se vuelve de derechas? en el que, a partir de la desaparición de la izquierda tradicional italiana, subsumida en la democracia cristiana, ensaya las causas del giro del mundo a la derecha y del capitalismo convertido en un marco de confortabilidad que todo lo envuelve —y por tanto es en buena medida invisible— al que llama monstruo amable. Habla un gran castellano, al que traslada una notable capacidad para el trazo fino, extraña cuando no se maneja la lengua materna.

-Una de las conclusiones que recoge en su libro alude a la “naturalidad” del pensamiento de derechas, frente a la condición “artificial” del pensamiento de izquierdas en la medida en que camina contra la tendencia natural al egoísmo.
-Exacto sí, eso es.

-Los científicos evolucionistas, sin embargo, han indicado que la generosidad, la filantropía y la moral son naturales, una ventaja evolutiva en la medida en que el hombre es un ser social. En el mundo primitivo, las sociedades con reglas se imponen a las demás porque permiten crecer en población y el surgimiento de los oficios, etcétera.
-En mi opinión dice exactamente lo mismo que yo postulo. Porque la idea que describo en el libro, con un poco de dramatización, digamos (no es una teoría sino una alegoría un poco dramatizada), es la misma idea de 2001 Odisea en el espacio de Kubrick: al comienzo teórico, al que nadie pudo asistir, los humanos primitivos solían masacrarse. En un momento dado, para evitar la masacre, es decir, como efecto del miedo generalizado, se crearon gradualmente reglas. Y aplicando esta metáfora a la relación entre izquierdas y derechas, creo yo, que estar a la izquierda es menos “natural” que estar a la derecha porque la persona de derechas dice: “Esto es mío y nadie debe tocarlo. Lo que quiero hacer nadie puede contradecirlo”. Son argumentos de tipo “primitivo”, entre comillas por favor, argumentos sin elaborar de ninguna forma. En cambio la izquierda dice: “Tú tienes que renunciar a una parte de lo tuyo porque hay gente que tendrá más necesidad que tú”. O bien: “El interés publico (que es un concepto muy sofisticado) prevalece sobre el interés privado. Lo que tú decides hacer debe ser mediado por una preocupación por el interés de los demás”. Es una actitud para la que yo empleo la imagen del muelle tenso, porque la tendencia natural es al egoísmo, y repartir lo que uno posee entre personas que uno ni conoce es antinatural, en este sentido, encuentra la resistencia del muelle.

-Esto enlaza con el eterno debate, muy intenso en colectivos feministas y entre educadores, entre lo natural y lo cultural. Natural sería ser de derechas y cultural, ser de izquierdas.
-Sí, esa es la oposición, apoyada en este momento por los estudios que usted mencionaba de los etólogos, los estudiosos del comportamiento de los monos superiores, etcétera. Sabemos de lo humano muchísimo más de lo que sabía Rousseau, que en su momento simpatizaba con las posiciones de la Iglesia, que suponen que el hombre es originariamente bueno y que se va haciendo peor con el paso del tiempo. Yo creo instintivamente lo contrario. Y en este caso, es una imagen para explicar el hecho de que es mucho más frecuente y más fácil el paso de izquierda a derecha a nivel individual que el contrario.

-Y además es simétrico.
-¿En qué sentido?

-Cuando uno viene de posiciones extremas de izquierda acaba en posiciones extremas de derechas, y si uno es moderado, termina en posiciones moderadas. Del stalinismo al fascismo, y de la socialdemocracia a la democracia cristiana, por así decir.
-Sí, sí. En Italia tenemos numerosos casos. Es exactamente así. En Italia el partido socialista, casi entero se ha trasladado sin inmutarse a las filas de Berlusconi. Y la gente que es realmente socialista sigue preguntándose cómo han podido. En mi interpretación, es el muelle que, en un momento dado, cansados de la tensión, se deciden a aflojarlo.

-¿Rendirse?
-Exacto.

-Usted cita, y su prologuista también, la escena de Abril (1998), de Nanni Moretti, en la que él mismo se queda ante el televisor gritándole a Mássimo D’Alema: “¡D’Alema, di algo de izquierdas!”. Moretti ya había propuesto una carnavalesca sátira sobre la descomposición del comunismo italiano, Palombella rossa (1993), transmutada en un partido de waterpolo, con un texto explícito sobre la crisis de la izquierda.
-En Moretti hay muchos elementos de este tipo. Además Moretti él activó hace unos años una manifestación de protesta fuerte contra la gestión actual de la izquierda que desembocó en manifestaciones importantes, el movimiento de los Girotondi. Ël fue uno de los iniciadores. En un momento dado se desinfló el movimiento porque era demasiado informal y quizá le faltaban liderazgos, pero fue un movimiento importante que duró varios años.

-¿Es usted muy pesimista?
-No, no. Yo tengo esperanza.

-Cuesta verlo en el libro.
-Creo que es mejor analizar los datos de forma penetrante antes de organizar una respuesta.

-¿No cree que esa pérdida de los principios o de las ideas poderosas de la izquierda que usted denuncia se ha producido de forma gemela en la derecha, que el tradicionalismo o las expresiones más reaccionarias en lo moral han retrocedido?
-Por eso hablo de neoderecha, es una derecha diferente de la anterior. No son fascistas, sólo tienen intereses de tipo material.

-Usted hace una enumeración de las metas no alcanzadas por la izquierda en Europa en los últimos 150 años. Dice que “no se ha producido una elevación estable de instrucción y de cultura”… Las estadísticas de progreso humano de Naciones Unidas dicen otra cosa, que los índices de alfabetización no han dejado de subir.
-No hemos alcanzado la meta.

-Pero usted sostiene que no hay progresos. Luego añade que “no se ha producido una revalorización de la actividad intelectual y creativa”. No le puedo dar datos, pero da la impresión de que es al revés, que nunca el trabajo creativo estuvo mejor remunerado que en el presente.
-Pero no estoy hablando de la modernidad y del resultado en lo moderno de la tradición anterior de la izquierda.

-También dice que no se ha logrado “la difusión generalizada de una mentalidad mínimamente racional y laica”. Esto ha sufrido altibajos.
-Varios momentos, sí. El actual es un momento difícil en España, Italia y Francia. Ustedes tienen un futuro de contrarreformas durísimo.

-Pero sigo: “Ni la creación de una conciencia cívica solidaria y de un espíritu de paz colectivo”. Hay ejemplos de progreso moral muy llamativos: en 2003 por primera vez se produjo una movilización social global y masiva contra una guerra que no había empezado y que iba a suceder a miles de kilómetros. No hay precedente.
-Lo que quería decir aquí yo es que no son todos resultados de tipo socialista. Son resultados de una conciencia nueva, posmoderna, más o menos, en la que la cultura juvenil tiene un papel fundamental no necesariamente de tipo socialista. Es decir, las grandes ilusiones del socialismo pueden haber sido parcialmente realizadas, pero no totalmente. Por ejemplo, la igualdad es un asunto en gravísima crisis y es uno de los rasgos principales de la izquierda. La desigual triunfa en prácticamente todo el mundo y era uno de los rasgos objetivos de la modernidad. Hay otra lista en el libro, las citas históricas, los grandes momentos a los que no acude la izquierda…

-¿Pero esto que usted denuncia de la izquierda no le ocurre también a la derecha? ¿Es decir, la desideologización?
-Pero a la derecha no le interesa de la misma manera, porque ser de derechas supone que los fenómenos, los procesos, se dejen marchar por sí solos.

-¿La neoderecha es entonces apolítica?
-Digamos que no tiene interés en modificar los procesos y en este sentido, argumento en mi libro, la izquierda ha acabado por adoptar las mismas aptitudes que la derecha, porque ha abrazado lo que yo llamo “la infinita tolerancia hacia lo social” que quiere decir que no importa lo que va a ocurrir sino que lo que importa es que pueda fluir tranquilamente. El asunto de la inmigración clandestina es central en este sentido. Ningún país de Europa ha elaborado una postura o un proyecto de gobernar este fenómeno que es inmenso y que va a modificar la faz del mundo en pocos años. Otro tema que a mí me parece muy relevante, otra cita a la que faltó la izquierda, es la revolución digital, que se ha considerado como una innovación tecnológica pura y simple, mientras que en realidad es un cambio de mentalidad.

-Uno de los motores tradicionales de la izquierdas es la idea de progreso, aunque en origen no sea marxista sino propia de la Ilustración.
-Sí, la idea de que la humanidad está en marcha, que camina de forma ascendente.

-¿La izquierda ha abdicado de ella?
-¿Por qué lo dice?

-Porque los mensajes que lanza son, aunque sean legítimos, conservadores: conservemos el medio ambiente, los derechos sociales, el estado de bienestar… es decir, una actitud a la defensiva, como si la izquierda, que era la soberana del futuro, por así decir, ahora tuviera miedo del futuro.
-Exactamente. La izquierda incluso tiene miedo de presentarse como izquierda. Estoy de acuerdo con usted, el lugar del progreso lo ha ocupado el crecimiento, el mito actual es el crecimiento, que yo creo que es otro mito peligrosísimo de la neoderecha. Yo soy bastante partidario del decrecimiento, si no a la Latouche, de otra manera más afable, pero mi idea es que el crecimiento es un gravísimo error. Es un trozo más de mundo que se destruye.

-Tampoco se dice mucho que la evolución demográfica es preocupante.
-Sí, es un problema, por supuesto. En Italia se habla un poco. Es un tema importantísimo porque el mundo está dimensionado para un determinado número de habitantes, que no se puede pasar. Pero, claro aquí de nuevo topamos con el mito de crecimiento. ¿Por qué el futuro ha de ser necesariamente de crecimiento y no de estabilización o redistribución. Por concluir, le diré que la izquierda ha asumido unos mitos de la derecha, liberales o neoliberales sin darse cuenta de lo que estaba haciendo.

-Usted habla mucho sobre la alianza pérfida entre socialdemocracia italiana y la democracia cristiana. Comparten un sustrato filosófico no menor: La pretensión de igualdad, la solidaridad, la compasión. A lo mejor no es una alianza tan contra natura.
-No, no lo es en absoluto. Tienen dos elementos en común, además del espíritu de Iglesia que se le ha atribuido a la izquierda durante años. Es el elemento de estatalismo fundamental, es decir, el Estado ocupa el centro de la vida de la sociedad, y además, al menos en Italia, pero creo que Europa la cosa va más o menos de la misma manera, el espíritu de asistencialismo, que el estado siempre tenga la obligación de asistir a los que tengas necesidades graves. Estos dos elementos aúnan las dos partes, en ese sentido no es una alianza contra natura. Lo que sí es contra natura es que el carácter químicamente infeliz de esta fusión se revela en los temas candentes, como por ejemplo los temas bioéticos. Pero lo que a mí me impresiona más es que el término mismo de socialismo en Italia ha desparecido por completo. Su amigo Walter Veltroni [líder hoy dimitido de la coalición Partido Democrático, que perdió en 2008 contra Berlusconi y ex secretario general de Demócratas de Izquierda. Fue alcalde de Roma y comenzó su carrera política en las filas del Partido Comunista Italiano] declaró a alguien que lo acusaba de insertar un espíritu socialista dentro del programa del Partido Democrático recién nacido: “No, por favor, no hay nada socialista”, como si fuera una acusación, una insinuación ofensiva. Y esta a mí me parece una traición grave, una traición histórica, porque hay gente que se declara socialista, que sigue creyendo en los principios del socialismo, como yo, que sigue teniendo ilusiones de este tipo, y no creo ser el único.

-Una característica también que acerca socialismo y democracia cristiana es la visión paternalista de la sociedad, tal vez hasta condescendiente.
-Creo que sí, porque pese a su preocupación digamos democrática, siguen teniendo fortísimas jerarquías, una esfera prácticamente intocable, los unos y los otros, en Italia pero también en otros países, hay una polémica durísima con los costes de la casta. Este espíritu de casta existe, en la izquierda como en los otros ámbitos. El espíritu democrático no es tan penetrante para eliminar este espíritu de casta.

-Entre las formas aberrantes de la política actual, tanto por la derecha como por la izquierda, es el populismo. Parece que la democracia digital apunta hacia ahí.
-Es por la mediatización del mundo. Es algo que ocurre en todo el mundo, porque los medios permiten a cualquier persona llegar hasta el individuo singular e inducirle a pensar que el poderoso es como ella. Y que tiene las mismas necesidades, gustos, costumbres, mismo lenguaje…

-El movimiento del 15-M, que seguramente es más un síntoma que un fenómeno…
-Sí, es más un indicio que un resultado.

-..es un indicador de que existe una izquierda, pero también de desafección respecto a los partidos de izquierdas.
-Son fenómenos de ebullición, pero la ebullición en política es cosa distinta de las propuestas y la elaboración de programas. En el momento en que nos ponemos a elaborar ideas y programas y proyectos, tenemos que crear una estructura, que es lo contrario del espíritu que se manifiesta en el fenómeno de los indignados. Además los indignados incorporan una idea que históricamente se ha demostrado, no falsa, sino imposible, que es la democracia directa.

-¿Indeseable?
-Para mí indeseable, peligrosísima. Pero siempre presente como ilusión, como esperanza en un momento determinado de la vida. Por eso los partidos de izquierdas no lo rentabilizan. En todo caso, me parece que los políticos deberían reflexionar con detenimiento, detalladamente sobre este fenómeno porque suponen la expresión de una inquietud, un punto de hartazgo frente al que no nos habíamos encontrado nunca antes.

-Se les reprocha no tener un discurso articulado, pero en todo caso es mucho más articulado que el de mayo del 68, que a pesar de tener lemas tan poco sofisticados como “debajo de los adoquines está la playa”, a la larga influyó en todo el pensamiento de izquierdas de las siguientes tres décadas.
-Es verdad, pero, si lo recuerda, pusieron contra las cuerdas al estado francés. En Francia hubo verdadero miedo a un golpe de estado. Además, había un sentimiento de joie de vivre que en los indignados no hay. Aquí aparece la mediatización y la cultura digital. Hay varios elementos muy distintos. En el momento en que un movimiento se concreta bajo la forma de propuesta ya se ha convertido en partido. La diferencia fundamental es la permanencia. En la medida que dure el movimiento, tendrá sus jefes y responsables. En el momento en que los cree y se dé cuenta de que unos jefes son necesarios para existir, se habrá convertido en partido. El movimiento como pura ebullición sólo es un síntoma de inquietud, nada más.

-¿Y cree que revela que hay una mayoría social de izquierdas no articulada?
-No sé si de izquierdas, pero sí expresión de hartazgo. No sé si sólo de izquierdas, porque hay una gran base proletaria en los movimientos de derecha históricos. El fascismo surgió aupado por las clases más desfavorecidas.

1.9.11

Meno sconti sui libri = più cultura?

Guido Scorza (ilfattoquotidiano.it)

E’ davvero curiosa l’equazione che sembra ispirare la nuova disciplina sul prezzo dei libri approvata in estate, con il consenso di tutti gli schieramenti politici, dopo un lungo e travagliato iter parlamentare iniziato nel 2008: meno sconti sui libri, anche se acquistati online, e più cultura per tutti.

Si tratta di un’iniziativa che – promossa con la dichiarata intenzione di difendere la rete dei piccoli librai italiani e con l’alibi di tutelare così la diffusione della cultura nel nostro Paese – danneggia in realtà i lettori e il commercio elettronico. I primi, tra qualche ora, si vedranno privati della possibilità di acquistare online o per corrispondenza libri di ogni genere a prezzi scontati mentre il commercio elettronico – che già, nel nostro Paese, arranca e stenta a decollare – si vedrà privato di un importante volano costituito dall’aver, sin qui, rappresentato un canale privilegiato per l’acquisto di prodotti editoriali a prezzi competitivi.

Difficile condividere lo spirito del disegno di legge che sembra andare contro il buon senso, lo sviluppo del mercato, l’innovazione e i consumatori. Più facile prendere atto del fatto che ci si trova, ancora una volta, dinanzi ad una scelta politica suggerita – per non dire imposta – da una delle tante caste italiane dure a morire: quella degli editori.

Impossibile spiegarsi diversamente perché nel 2011, in un Paese che ambisce a definirsi moderno e che le analisi dell’Unione Europea sullo stato di attuazione dell’agenda digitale ritraggono come drammaticamente indietro sul versante del commercio elettronico (solo il 14,7% degli italiani acquista beni o servizi online), il Parlamento decida di regolamentare un mercato come quello librario mentre in tutta Europa si deregolamentano tutti gli altri, contingentare i prezzi sui libri e, soprattutto, abrogare una norma del 2001 che riconosceva, almeno per le vendite online, libertà di sconto sulla vendita dei libri.

Per capire l’assurdità di una simile decisione basti pensare che, in una segnalazione inviata nel 2002 al Parlamento, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato auspicava “l’eliminazione di tutte le norme che prevedono prezzi minimi di vendita di beni e servizi, incluse le recenti regolamentazioni del sottocosto e quelle che introducono un tetto allo sconto sui libri” in quanto, scriveva l’Autorità, “la fissazione di prezzi minimi non risulta mai uno strumento direttamente funzionale a garantire il mantenimento di un livello minimo di qualità del servizio, il principale obiettivo comunemente invocato a suo sostegno”.

Detto, fatto, o quasi: non solo il Parlamento non ha eliminato la previgente disciplina sui prezzi minimi di vendita ma ne ha, addirittura ampliato l’ambito di applicazione e la portata. Maggioranza e opposizioni, in un’epoca di feroci faide, persino interne ai singoli schieramenti, questa volta si sono straordinariamente trovate d’accordo. Un’unica eccezione che merita una segnalazione e una nota di merito: quella della delegazione Radicale nel Gruppo Pd, rappresentata dai senatori Poretti e Perduca.

Questa la loro dichiarazione di voto a rompere l’unanimità dell’aula: “Proprio in questi giorni, in cui si fa un gran parlare di casta accusando la casta della politica, questo provvedimento ci rientra a pieno titolo. Stavolta si parla di un’altra casta, quella dell’editoria. Ancora una volta siamo qui a sottolineare che questo è un provvedimento corporativo e protezionista, che vede il mercato come un qualcosa di pericoloso, come una giungla non da regolamentare e da disciplinare, ma da cui scappare a gambe levate. Questo provvedimento dovrebbe invogliare la lettura e l’acquisto di un libro limitando gli sconti e imponendo i prezzi per legge; contro queste scelte, per quanto ci riguarda, ci asterremo”.

Da domani i libri, in Italia, costeranno di più e non li compreremo più on line. Secondo il nostro Parlamento, però leggeremo di più e la nostra cultura ci guadagnerà. Se incontrate uno qualsiasi delle centinaia di Parlamentari che ha votato il disegno di legge, chiedetegli di spiegarvi perché limitare gli sconti sui libri dovrebbe far bene alla cultura ed allo sviluppo del Paese.

24.8.11

Il libro sta bene, grazie

GIUSEPPE GRANIERI

«La fine dei libri è vicina?», si chiede il romanziere Ewan Morrison. E si risponde da solo: «Si, assolutamente. La rivoluzione digitale, nel giro di 25 anni, ci porterà la fine dei libri stampati. Ma, ed è ancora più importante, gli ebook e la facilità di pubblicazione elettronica segneranno la fine dello scrittore di professione».
Poi rincara la dose: «La rivoluzione digitale non emanciperà gli scrittori nè aprirà una nuova era di creatività: piuttosto significherà che gli scrittori dovranno offrire il loro lavoro per pochi spiccioli o addirittura gratis». E ribadisce: «Scrivere, e vivere di questo lavoro, non sarà più possibile».

L'analisi di Morrison, stimolata dalla tavola rotonda intitolata "La Fine dei Libri" che ha infiammato il Festival di Edimburgo, è molto meditata ed è complessa. Un ragionamento ricco di stimoli interessanti e costruito su una premessa che l'autore ci tiene a condividere con i lettori: «cerchiamo di non guardare a quello che vediamo ora, ma saltiamo una generazione e proviamo ad immaginare come sarà la realtà». Merita una lettura: Are books dead, and can authors survive?.

A margine vanno però aggiunte alcune considerazioni. La prima è che la «Rivoluzione Digitale», come la chiama Morrison, è una grande discontinuità nel modo in cui funzionano le nostre culture. Non è la prima (pensiamo all'introduzione della scrittura o a quella della stampa) e non sarà l'ultima. Ma sicuramente è la prima che accade e porta effetti immediati nell'arco di una sola generazione. Questa velocità di cambiamento (e di accettazione delle innovazioni) è un fenomeno cui non abbiamo ancora del tutto preso le misure. Nel digitale cambia l'unità di misura del tempo: cinque anni sono come venticinque con il metro del ventesimo secolo.
Quindi, è intuitivo, le previsioni a lungo termine semplicemente non sono possibili. Funziona un po' come con altre previsioni, quelle del tempo: fino ad una settimana hanno qualche probabilità di essere previsioni, oltre la settimana diventano descrizioni di scenario. E gli scenari futuri si costruiscono su due aspetti fondamentali: la lettura dei segnali deboli e quello che potremmo chiamare le «aspirazioni».
I segnali che possiamo leggere oggi non ci dicono nulla su come sarà il mondo tra 25 anni, al massimo ci aiutano a capire cosa succederà nel domani digitale. L'accelerazione del cambiamento è talmente rapida da consentirci di prevederla fino a un certo punto, e da obbligarci ad una lettura continua del contesto per mantenere la rotta.
Le aspirazioni invece sono la base di desideri, convinzioni e valori su cui innestiamo la lettura dei segnali deboli. Se abbiamo paura delle cose che cambiano, il nostro scenario sarà tendente al pessimismo. O, al contrario, vedremo un futuro luminoso e pieno di potenzialità.

Quindi cosa possiamo aspettarci? Quello che effettivamente sappiamo è che, al di là dei titoli ad effetto ricchi di morte e allarmismo, nulla muore e molto si trasforma. Va probabilmente separato il destino della carta da quello del libro: la carta non è il libro, è un supporto. E probabilmente è passibile di un destino simile a quello delle pellicole fotografiche o delle videocassette.
Il libro invece, da quello che vediamo accadere, godrà di ottima salute. Sarà persino troppo in salute, dal punto di vista del ventesimo secolo. Affrancandosi dalla carta, il libro abbasserà le sue barriere di ingresso, come già vediamo accadere con il self-publishing, e molte più persone (e idee) avranno accesso alla pubblicazione. Ma affrancandosi dalla carta, il libro sarà anche più facilmente reperibile (saranno tutti allo stesso click di distanza), più economico, più accessibile, più comodo da portare in giro, da conservare, da consultare (la ricerca e l'indice delle annotazioni sono una grande conquista).

Poi, è vero: ogni nuova soluzione porta con sè nuovi problemi. Il digitale, ogni volta che ha toccato l'industria culturale, ha ridisegnato il modo in cui funziona tutto, dall'accesso al sistema dei ricavi. Ci sono una serie di questi nuovi problemi che rimangono aperti: primo fra tutti -il che giustifica le preoccupazioni di Morrison- il problema della remunerazione. Che non riguarda solo l'autore, anzi: riguarda chiunque lavori nella filiera produttiva, dagli editor ai traduttori, dagli uffici stampa ai dirigenti dei gruppi editoriali.

Il sistema sta cambiando, adeguandosi al modo in cui funziona oggi la nostra cultura. C'è un aspetto di questo cambiamento che io trovo rassicurante: l'accelerazione che stiamo vivendo non è imposta da qualcuno e subita dagli altri. Fa parte di un meccanismo generale in cui si introduce un'innovazione e se quella innovazione ha abbastanza consenso, viene accettata dalla società. La chiave del futuro del libro, oggi, sono i lettori: saranno le loro preferenze a determinare la configurazione del mondo editoriale nei prossimi anni.
Su questo fronte, sebbene sembri controintuitivo, abbiamo molto da imparare. Ma soprattutto, se teniamo al futuro del libro, non possiamo restar fuori dal grande gioco dell'innovazione.

Poi come disse una volta Beppe Caravita, grande commentatore della transizione tecnologica, il digitale è ancora un adolescente con un brutto carattere. Siamo appena agli albori del cambiamento, che è molto profondo e che -al momento- ci fa vedere ancora molti problemi irrisolti.
Uno su tutti, la prima ingenua reazione all'amento di scala dei contenuti: come facciamo a trovare il libro buono tra tantissimi libri che strillano per ottenere la nostra attenzione? Anche qui, l'evoluzione del digitale è sempre andata per problemi e soluzioni. Algoritmi e innovazioni in grado di farci districare tra tanti dati in maniera efficace sono la nuova frontiera. Migliaia di menti stanno lavorando su questo fronte. Là dove si percepisce una problema, la soluzione significa mercato: ci sarà sempre qualcuno a cercarla. Poi si troverà, e porterà nuovi problemi. Il digitale non si fermerà mai, si ricomplicherà ogni giorno.

La parte più difficile sarà ridisegnare le regole in base al nuovo modo in cui funzionano le cose. Tutte le regole: dalla logica attuale del diritto d'autore ai sistemi di remunerazione. Ci vorranno anni e molto probabilmente dovremo sempre inseguire la realtà, più veloce ad evolversi dei sistemi normativi e delle organizzazioni.
Ma anche qui i segnali non sono tutti così tremendi. Un buon esempio è quello del giornalismo, che nella transizione ha qualche anno di vantaggio rispetto al mondo del libro. Se è vero che la crisi del modello di ricavi costruito sulla carta ha molti effetti preoccupanti, è anche vero che ha ricadute enormi sulla nostra società. Da un lato ci stiamo chiedendo chi (e come) sosterrà i costi del giornalismo, dall'altro la domanda di informazione è aumentata in modo esponenziale. Il sistema troverà un equilibrio. E lo stesso varrà per i libri.

Si sarà capito, a questo punto, che le «aspirazioni» nello scenario che immagino io tendono a non essere catastrofiche. Credo dipenda dal mio rapporto con l'idea di «diverso», che non è costruita sul timore ma, piuttosto, sulla curiosità di comprendere. Però forse dipende anche da quello che questi primi anni di digitale ci hanno insegnato: di fronte ad un cambiamento che opera a livello così profondo (e su una scala così ampia) la resistenza è futile. Aiuta molto di più accettare che la nostra cultura sta cambiando e cercare una posizione nel nuovo mondo. Quando i punti di riferimento si trasformano, in fondo, può capitare di dover rinunciare a qualcosa che si aveva prima. Ma si aprono tanti nuovi spazi per far cose che fino ad oggi non si potevano fare o che si potevano fare solo in modo diverso.

Sono certamente tempi difficili, questi. Ma non sono difficili perchè siamo condannati ad accettarli passivamente. Sono difficili perchè ci richiedono studio, comprensione, impegno e creatività. L'editoria oggi è un settore ad alta innovazione. E questa -forse- è la prima regola del gioco che cambia.

18.7.11

E-Book Revolution Upends a Publishing Course

By JULIE BOSMAN

For decades, even after it was renamed and relocated from its original home at Radcliffe, the Columbia Publishing Course seemed unchanging, a genteel summer tradition in the book business, a white-glove six-week course in which ambitious college graduates were educated in the time-honored basics of book editing, sales, cover design and publicity. Not this summer.

With the e-book revolution upending the publishing business, Madeline McIntosh, the president of sales, operations and digital for Random House, stood at the lectern on the opening day in June, projecting a slide depicting the industry as a roller coaster, its occupants frozen in motion at the top of a steep loop.

“You might be wondering if this is the moment where we’re at,” Ms. McIntosh, a tall figure in a slim navy dress, said with a smile, as dozens of students with plastic name tags hanging around their necks watched raptly.

So the summer session began with a focus on “The Digital Future.” Students were schooled in “Reinventing the Reading Experience: From Print to Digital” by Nicholas Callaway, the chairman of a company that produces book apps for children. Managers from Penguin Group USA explained how to master “e-marketing,” and a panel of digital experts talked about short-form electronic publishing — not quite a magazine article, not quite a book — which is so new, the genre doesn’t really have a name.

“You never know what’s going to happen,” Carolyn Pittis, the senior vice president of global author services at HarperCollins, told a packed room of students several days into the course. “So it’s very exciting for those of us who spent many years when a lot of things didn’t happen.”

As the students scribbled in notebooks and clicked on laptops, Ms. Pittis recounted some of the biggest developments in the industry so far in 2011. The proliferation of e-readers and the growing digital market share of Barnes & Noble. Amanda Hocking, a formerly self-published author, making a book deal with a traditional publisher. J. K. Rowling’s selling her own “Harry Potter” e-books online. Even the surprise success of “Go the — to Sleep,” a hilariously vulgar children’s book parody that rose to the top of best-seller lists after being widely pirated via e-mail for months.

In the past year, e-books have skyrocketed in popularity, especially in genre fiction like romance and thrillers. For some new releases, the first week has brought more sales of electronic copies than of print copies.

All of which were ripe topics for discussion for students in the course this year, even as they deciphered messages that could be simultaneously weary and optimistic.

“A lot of what we hear is, ‘Is the Internet going to eat book publishing?’ ” said Selby McRae, a petite 22-year-old from Jackson, Miss., who entered the course after graduating from Hamilton College and completing an internship at the University Press of Mississippi. “And then they say, ‘But everything’s better than ever!’ ”

After appearing on a panel with other literary agents, Douglas Stewart of Sterling Lord Literistic said he had simply tried to explain the unfamiliar aspects of his job. “It is a really scary time to go into the business, and I’m sure they’re hearing that,” he said. “We’re all thinking that as we look out at the sea of eager faces — I wonder if they should be doing this right now?”

The course, which begins every year in June, bills itself as the “shortest graduate school in the country,” where students can learn in six weeks what it would take them a year to learn in the real world. (The second half of the course is devoted to magazine publishing.)

Legions of high-placed publishing executives have been through the course, like Morgan Entrekin (Radcliffe Publishing Course ’77), the publisher and president of Grove/Atlantic; Arthur Levine (R.P.C. ’84), who has his own children’s imprint at Scholastic; and Molly Stern (R.P.C. ’94), the senior vice president and publisher of Crown Publishers and Broadway Books.

This year’s 101 students were chosen from more than 475 applicants, the highest number in years, showing that they were not deterred by the $6,990 fee for tuition and room and board on the Columbia campus — or by the limitations of entry-level positions that pay around $30,000 a year .

The chosen candidates tend to emerge from college with impressive résumés: some have journalism degrees, successful climbs of Mount Kilimanjaro or stints working in independent bookstores or for literary magazines.

“It was pretty magical for me,” said Scott Moyers, the publisher of the Penguin Press, who attended in the summer of 1991. “I went to a small public liberal arts school in Virginia; I didn’t know anybody in New York. I didn’t know anybody in publishing. I’d actually never been north of the Mason-Dixon line. For me, it was quite heady. It was a very cosmopolitan mix of kids.”

The course was established in 1947 at Radcliffe College and was held for more than 50 years in Cambridge, Mass. In 2001, after Radcliffe and Harvard University merged, there wasn’t much room for a publishing course at the newly renamed Radcliffe Institute for Advanced Study, so with the blessing of Drew G. Faust, the president of Harvard, the course was moved to Columbia, where it was housed in the School of Journalism building.

Since it moved to Manhattan, students have been able to plug directly into the industry and mingle with editors at book parties in the evening, a far cry from the cozy isolation of Cambridge. It is not unheard of for a student to get a job in publishing and drop out of the course before it is over.

Lindy Hess, the director of the course for 24 years, said she designed it to evolve with the business. “The industry has changed,” Ms. Hess said. “My philosophy is for the course to reflect the industry as it is, so students graduate and they know exactly what’s happening. Students have to learn all the old stuff and get a grasp on the digital world.”

After two weeks of lectures and panels explaining the basics of book publishing, students are divided into groups to form their own fictional publishing houses, designing covers, developing marketing plans and selling the finished products only days later to industry professionals like Sessalee Hensley, the fiction buyer for Barnes & Noble.

First they must appraise their own work. During one staff meeting, the group that called itself Wensel & Roe fine-tuned its catalog offerings, which included a cookbook with recipes inspired by romance novels, a nonfiction book examining how parenthood changes the brain and a biography of the fashion designer Alexander McQueen.

Last Wednesday, the real-life publishing executives took their turn. Sarah Crichton, the publisher of her own imprint at Farrar, Straus & Giroux, sat at the head of a conference table with a copy of the group’s professionally bound booklet of catalog copy, publicity materials and sales projections as the students nervously awaited her comments.

“This is extremely impressive,” Ms. Crichton said, peering around the table. “You’re grappling with a lot of the same things we’re grappling with, which is the impact of e-books. You’re taking it into account and thinking about it, and that’s very impressive and difficult. It’s something that we wrestle with on an hourly basis.”

28.4.11

Una scuola da rifare

UNA SCUOLA DA RIFARE. LETTERA AI GENITORI (Feltrinelli)
Giuseppe Caliceti

“Tre mesi di vacanza, eh? Bel lavoro l’insegnante!” Questa è la battuta che a
fine anno scolastico tanti docenti italiani sopportano. A inizio anno, invece:
“Le vacanze sono finite anche per voi, eh? Era ora che iniziaste a lavorare!”
Dal 2008 se ne è aggiunta un’altra: “Adesso ci pensa il Ministro all'Istruzione
a farvi lavorare!” Ti verrebbe da dire: come ti permetti? Poi lasci perdere. O
quasi. E’ vero, sono battute. Ma nascondono quello che pensa oggi la maggior
parte degli italiani. Quando iniziai a insegnare, più di venticinque anni fa,
non era così. C’era più rispetto per i docenti. C’era un patto di fiducia tra
insegnanti e genitori. Ora questo patto si è rotto. A volte ho tentato di
difendermi, di spiegare. “Le lezioni non si improvvisano, bisogna prepararle.
Il mio lavoro non inizia e si conclude in aula. Anche quando gli studenti sono
in vacanza, io continuo ad andare a scuola. E con la nuova riforma della scuola
io ci guadagno, sono i tuoi figli a perderci. E personalmente sono favorevole
al cartellino per i docenti: perchè tutti sappiano quanto lavoriamo”. E ho
tentato di parlare di responsabilità. Di autoformazione. Di psicologi,
assistenti sociali, medici, psichiatri, docenti: le professioni più usuranti
della nostra epoca. Cosa ricevevo in cambio? Sorrisi. Così ho deciso di
scrivere “Una scuola da rifare”. L'ho scritto sotto forma di una lunga lettera
ai genitori degli alunni. Per spiegare perchè i docenti non sono fannulloni.
Per raccontare un poco di quello che fanno oggi i loro figli a scuola. Per far
capire come è cambiata la scuola primaria oggi: Dal mio punto di vista, dopo la
scure infinita dei tagli sulla scuola, in peggio. Ma per parlare ai genitori
anche della scuola che abbiamo abbandonato. E di quella che vorrei. Nel 2008 le
piazze si sono riempite di migliaia di docenti e genitori che protestavano
contro lo smantellamento della scuola pubblica. A distanza di diversi mesi, mi
sono chiesto, cosa rimane di quella protesta? E – soprattutto – cosa rimane
della scuola pubblica? Ho cercato di rispondere a queste domande e di
analizzare lo stato di salute della nostra scuola. L'ho fatto alternando le mie
opinioni personali a quello dell'insegnante con il suo bagaglio di storie dove
i protagonisti sono gli alunni. Non si tratta solo di un libro sull'orgoglio
docente. Ho cercato di parlare anche di maestri come don Milani, Gianni Rodari,
Loris Malaguzzi, Mario Lodi. Ho cercato di difendere la scuola pubblica
italiana – una delle migliori al mondo per qualità di insegnamento prima della
controriforma Gelmini: la prima in europa (ora siamo al tredicesimo posto), la
quinta nel mondo. A tratti ho provocato anche i genitori degli alunni,
ricordando loro che l'istruzione primaria non è una bambinaia che tiene
impegnati i loro figli per qualche ora al giorno, ma è il momento fondamentale
della loro formazione. Una formazione che va oltre le continue riforme, i
ridimensionamenti di materie e personale docente, la fatiscenza delle strutture
scolastiche. Una formazione che da sempre deve insegnare la condivisione. Alla
fine ho pensato bene di scrivere un decalogo della scuola che vorrei. Eccolo:

La scuola che vogliamo
1 Laica, gratuita, libera, solidale
2 In cui si sta bene insieme
3 Che aiuti i nostri figli a diventare adulti felici e responsabili
4 Sulla quale lo Stato sappia investire come una risorsa
5 Che valuti l'apprendimento, ma che tenga conto anche delle emozioni
6 In cui i nostri figli imparino a lavorare insieme
7 Proiettata verso il futuro
8 Basata sul metodo delle domande e della ricerca
9 In cui i docenti siano preparati e si ricordino di essere stati bambini
10 Vogliamo una scuola senza paura di sbagliare e senza fretta: neppure di
diventare grandi

19.12.10

Libri sempre più social

La scorsa settimana, parlando dell'ingresso di Google nel mercato degli ebook, chiudevamo la discussione segnalando un articolo interessante, intitolato Social media invades book world. E accennavamo al fatto che una parte delle nostre abitudini relative al libro, «l'esperienza culturale di lettura», diventa sempre più sociale.

É abbastanza evidente che la lettura è un processo individuale e solitario. Fa parte del gioco di immersione che il nostro rapporto con il testo ci regala: mentre leggiamo entriamo compleamente nel mondo che ci sta raccontando l'autore e la nostra immaginazione lo ricrea quasi con pari merito. É questa una delle ragioni per cui molti di noi soffrono passando dal libro al film: per dirla con l'efficace boutade di Gaspar Torriero, «Quando esci dal cinema e dici"era meglio il libro", in realtà intendi "era meglio il film che mi sono fatto io"».
Questo rapporto intimo con la storia che leggiamo difficilmente verrà messo in discussione dalla lettura digitale, anche se qualche piccola intrusione della «lettura degli altri» nel nostro spazio già c'è. I possessori di Kindle, infatti, possono vedere nel libro appena comprato quali sono i passaggi che gli altri lettori hanno trovato significativi e sottolineato. Si tratta di una funzione chiamata social highlights, che può essere disattivata. Ma che molte persone amano e che rappresenta una frattura interessante con le nostre abitudini passate: come notava tempo fa il New York Times, praticamente si tratta di un intervento dei lettori nell post-produzione del libro. L'articolo non è recentissimo ma merita ancora attenzione: E-Readers' Collective.

Poi però, intorno al gesto totalmente personale della lettura, molti di noi costruiscono un livello complementare di esperienza: è quello che accade quando dopo aver letto un libro ne parliamo con gli amici o lo consigliamo a qualcuno. In questo caso dopo averla vissuta, condividiamo con altri l'esperienza di lettura. É questo layer che sta diventando sempre più centrale con i libri digitali. Da un lato perchè le tecnologie oggi ci consentono di condividere le nostre impressioni in modo molto potente e su una scala molto ampia. Dall'altro perchè con l'aumento della complessità che questa transizione sta portando, le esperienze degli altri lettori diventano una necessità di sistema.

Questo è il punto probabilmente più complicato da comprendere, perchè tocca diversi aspetti e raccorda diverse linee su cui il cambiamento sta agendo. Con l'aumento delle vendite in digitale dei libri fisici, e con la crescita degli ebook, lo «spazio sugli scaffali» tenderà a diminuire. La passeggiata tra i libri fisici, in libreria, era uno dei metodi strategici per farc conoscere i libri. Li vedevamo, leggevamo la quarta di copertina, le prime pagine, ci facevamo un'idea. Con il numero sempre crescente di titoli disponibili negli store digitali, invece, il nostro modo più efficace per muoverci nella complessità e per accedere ai titoli è farlo attraverso le esperienze degli altri. Vedere cosa hanno comprato, che impressione ne hanno avuto, eccetera.

Questo livello di informazione, racconta Mike Shatzkin in un lungo post, è il punto su cui tutti si stanno impegnando per costruire l'esperienza di acquisto degli ebook, con strategie differenti. Nessuno ha ancora una soluzione definitiva, e probabilmente ne emergeranno diverse per diverse esigenze, ma di sicuro è su questa linea che si combatte una delle battaglie più importanti per costruire l'accesso ai libri. L'analisi di Shatzkin, che parte dalle sue preferenze personali, si intitola: How will you win at ebook retailing?.

Ma sempre in tema di abitudini che cambiano (come è stato per la musica, anche il passaggio del libro al digitale potrebbe modificare radicalmente le nostre abitudini di consumo) ci sono altri fronti che potrebbero aprirsi e continuare a stupirci. Uno di questi è raccontato in un lungo articolo di Terry Jones che parte da un titolo dirompente: «il futuro dei libri è scrivibile».
Jones analizza alcune tendenze cui internet ci ha abituato, portandoci a pubblicare pezzi di informazione sempre più piccoli, in modo sempre più facile e con contenuti sempre più personali. E poi si chiede come queste tre tendenze potrebbero influire sul futuro del libro. «I libri hanno tipicamente una loro coerenza interna», scrive Jones, «ma se le difficoltà per gli editori continuano ad aumentare e i sistemi per vendere i libri evolvono, potremmo assistere al frazionamento del pacchetto libro per ragioni economiche. In fondo nella storia abbiamo avuto i romanzi pubblicati a puntate. Perchè non potrebbe essere così nel digitale?» E questo porta a spingere il ragionamento anche oltre. Leggi tu stesso: The future of publishing is writable.

É chiaro che siamo su un orizzonte di congetture e di scenario. Stiamo appena vivendo i primi anni di una fase completamente nuova e possiamo solo intuire dove ci porterà. Tuttavia, se per editori e autori c'è da fare molta attenzione e cercare di essere sempre pronti a sperimentare, per i lettori si profila una bella avventura. Saranno le loro scelte a determinare cosa funziona e cosa invece non va bene. Quale cambiamento è lì per restare e quale invece è destinato ad essere abrogato perchè non piace ad un numero sufficiente di persone.
E sarà interessante stare a vedere cosa succede.

3.12.10

I migliori libri 2010 dell'Economist parlano della Cina e dell'America di Obama

I migliori libri del 2010 parlano di Barack Obama e della Cina, di come il surfing si è diffuso nel mondo, della prosperità e del dominio dell'Occidente, di una lepre dagli occhi d'ambra e di molto altro ancora. L'Economist pubblica nel numero in edicola oggi la sua scelta dei più avvincenti libri dell'anno: sono 44 titoli tra saggistica, narrativa e poesia incoronati come "Page turners", libri di cui il lettore gira avidamente le pagine e che non smetterebbe mai di leggere.

In cima alla lista dei libri di politica e attualità, è l'America al tempo di Obama.
"Game Change: Obama and the Clintons, Mc Cain and Palin, and the Race of a Lifetime", scritto da due giornalisti americani, John Heilemann and Mark Halperin. La lettura è definita "scioccante" e "compulsiva", in particolare per quanto riguarda Hillary Clinton e John McCain. La campagna presidenziale 2008 emerge come "porno politico di alta qualità".
"The Bridge: The Life and Rise of Barack Obama", di David Remnik è una biografia del presidente Usa, ben scritta e ricca di nuovi dettagli sulla sua vita.

C'è anche l'America della guerra al terrorismo ereditata da George W. Bush. "The Watchers: The Rise of America's Surveillance State", di Shane Harris, racconta dell'ascesa dello stato di polizia negli Stati Uniti dopo l'11 settembre 2001.
Sulla Cina, l'altro grande protagonista della politica mondiale, L'Economist ha scelto due titoli. "The Party: The Secret World of China's Communist Rulers" di Richard Mc Gregor (ex capo dell'ufficio di Pechino del Financial Times), racconta il mondo segreto del partito comunista cinese e sostiene che il potere si basa su un sistema che rende la corruzione quasi inevitabile.
In "Country Driving: A Journey Through China from Farm to Factory", il giornalista americano Peter Hessler si mette dietro al volante di un'auto per esplorare come la Cina sta cambiando.

Uno sguardo alla Gran Bretagna alle prese con i costi dei baby boomers è "The Pinch: How the Baby Boomers Took Their Children's Future—and Why They Should Give it Back". La generazione che ha "rubato il futuro ai propri figli" dovrebbe ridarglielo. L'autore è David Willetts, ministro per l'Università e la Scienza di David Cameron, che l'Economist definisce uno dei pochi "pensatori profondi" dei Tories.

Tra le biografie e memorie, spicca "The Hare with Amber Eyes: A Hidden Inheritance" di Edmund de Waal. Si tratta, secondo il settimanale, di "uno studio magico di come gli oggetti sono manipolati, usati e poi passati di mano in mano", scritto da un ceramista britannico che ha ereditato 264 miniature giapponesi. Il titolo si riferisce a una di queste miniaure, la lepre con gli occhi d'ambra.

Nel paragrafo dedicato ai libri di storia, in primo piano la rivalità tra Occidente e Cina. "Why the West Rules—For Now: The Patterns of History and What They Reveal About the Future". Ian Morris, storico britannico alla Stanford University, spiega perché l'Occidente domina, per ora, e sostiene che i dibattiti sull'ascesa della Cina e il declino dell'Occidente saranno alla fine marginali perché la natura si ritorcerà contro la società umana.
Sempre con l'attenzione rivolta alle relazioni tra Est e Ovest, "Pearl Buck in China: Journey to the Good Earth", di Hilary Spurling, narra come gli scritti della prima donna americana vincitrice del Nobel per la letteratura abbiano contributo a lenire le tormentate relazioni tra l'Occidente e la Cina nella prima parte del 20.mo secolo. Ancora sulla Cina, la storia della grande carestia di Mao, "Mao's Great Famine: The History of China's Most Devastating Catastrophe, 1958-1962", di Frank Dikötter.

Ma c'è anche il sogno sovietico degli Anni Cinquanta: "Red Plenty: Industry! Progress! Abundance! Inside the Fifties' Soviet Dream". Francis Spufford racconta perché la pianificazione centralizzata dell'Unione Sovietica fu un fallimento.
Originale e certamente adatto come regalo di Natale, "A History of the World in 100 Objects", una storia del mondo attraverso cento oggetti raccontata elegantemente da Neil MacGregor, direttore del British Museum.
Sul fronte dell'economia, c'è quello che per il settimanale britannico è uno dei migliori libri sulla recente crisi, "The Big Short: Inside the Doomsday Machine", di Michael Lewis.
Contro tutti quelli che propendono per il pessimismo della ragione, nella sezione scienza e tecnologia, l'Economist segnala "The Rational Optimist: How Prosperity Evolves". Matt Ridley, noto autore di scienza, sfida chi vede nero e sostiene che il mondo non può sfamare 9 miliardi di bocche, che l'Africa è destinata a fallire e che il pianeta va verso il disastro climatico.

Toni più lievi e addirittura spensierati nel paragrafo dedicato a cultura, società e viaggi. Si scivola sull'onda del surf leggendo "Sweetness and Blood: How Surfing Spread from Hawaii and California to the Rest of the World, With Some Unexpected Results". Michael Scott Moore racconta come il surf si è diffuso dalle Hawaii e dalla California al resto del mondo, con "risultati inaspettati".
Nella narrativa, non poteva mancare "Freedom", il nuovo romanzo di Jonathan Franzen, l'autore di "Le Correzioni". E' la storia di una famiglia del Midwest che rappresenta il ceto medio dell'America contemporanea. Per l'Economist, un moderno "Paradiso perduto".
L'Economist ha scelto anche un romanzo ambientato a Roma, "The Imperfectionists", di Tom Rachman, che racconta vicissitudini e drammi di un grande quotidiano internazionale americano in crisi, non troppo lontano dall'International Herald Tribune, basato a Parigi, dove l'autore lavorava.
Due premi Nobel nei libri di poesia, "Human chain" del poeta nordirlandese Seamus Heaney e "White Egrets: Poems" del poeta santaluciano Derek Walcott.

L'Economist propone a parte una rassegna dei libri scritti dai suoi giornalisti "quando non erano in ufficio". Spiega di farlo su richiesta dei lettori, poiché abitualmente non fa recensioni di libri scritti dal suo staff o dagli ex che hanno lasciato il giornale da meno di cinque anni.
Nella lista di dodici titoli compaiono due libri sull'Italia. Il primo è "Forza, Italia: Come Ripartire dopo Berlusconi"di Bill Emmott, un saggio che – spiega l'Economist - "analizza la lotta tra ‘l'Italia buona' e ‘l'Italia cattiva' e dice come può vincere quella buona. Il secondo saggio, "Into the Heart of the Mafia: A Journey Through the Italian South", di David Lane (corrispondente dall'Italia per la finanza ), descrive come l'influenza della mafia nell'Italia del Sud è stata rafforzata dalla globalizzazione.
Da segnalare infine il libro degli "ismi" di John Andrews, "The Economist Book of Isms: From Abolitionism to Zoroastrianism"; una guida all'economia, "The Little Book of Economics: How the Economy Works in the Real World", di Greg Ip; e una guida agli hedge fund, "The Economist Guide to Hedge Funds: What They Are, What They Do, Their Risks, Their Advantages" di Philip Coggan.

27.11.10

Nella rete della stroncatura

Mentre i libri dei mostri sacri della scrittura scalano le classifiche e producono lenzuolate di encomi, le comunity online dei lettori bistrattano e maltrattano le opere dei venerati maestri

Gli antipatizzanti di Umberto Eco, che non hanno digerito le lenzuolate di encomi in mondovisione per il suo Cimitero di Praga (unica voce fuori dal coro, l’Osservatore Romano) e si rodono a vederlo svettare nella lista dei best-seller, possono trovare conforto nelle recensioni dei lettori su Internetbookshop (www.ibs.it). “Finalmente ho finito di leggerlo – si sfoga per esempio Giorgio G. – è una sensazione di sollievo. Dopo una prima parte abbastanza accettabile, almeno per quanto riguarda la spedizione dei Mille, il lunghissimo periodo parigino ha destato in me un moto di repulsione. È mai possibile che uno scrittore colto e preparato si lasci andare a scrivere simili fandonie (anche se lui dichiara che tutti gli avvenimenti sono accaduti realmente)? Fandonie che sfociano nel cattivo gusto più becero, come la descrizione della ‘messa nera’? Avevo apprezzato alcuni dei libri di Eco, ma questo mi ha proprio dissuaso dal comprarne altri, se mai ne scriverà” (voto: 2 su 5 punti complessivi, quindi insufficiente).

Riccardo confessa: “È la prima volta che non riesco a finire un romanzo di Eco. Peccato, perché l’inizio sembrava interessante… Se non si è proprio lettori onnivori, lo sconsiglio” (2/5). Guglielmo parla di “operazioni di montaggio da inserire, magari un gradino più in su, nella stessa categoria di Dan Brown”. Ancora più drastico uno che si firma, nientemeno, Alexandre Dumas: “Ennesima riproposta, noiosa e stiracchiata all’inverosimile, di una storia presentata da Eco nel volume Sei passeggiate nei boschi narrativi nel quale, fra tanta confusione di fatti e situazioni, collegava lo sterminio degli ebrei a una scena del Cagliostro di Dumas” (voto 1). Naturalmente ci sono anche gli entusiasti come Enrico (“Formidabile!”, 5/5) o Roberto (“Grazie, professore! Un capolavoro!”), ma non bastano a risollevare la media, che resta bassina: 3,21. Molto al di sotto del suo diretto competitore Giorgio Faletti (Appunti di un venditore di donne, Baldini Castoldi Dalai) che sia pur presso un’audience forse meno esigente raccoglie un autentico plebiscito: 4,4. Un bello smacco per la Bompiani, con gran giubilo di Alessandro Dalai.

Più diviso il pubblico di un’altra star delle classifiche, Niccolò Ammaniti (Io e te, Einaudi). Non tutti sono d’accordo con Antonio D’Orrico che su Sette ha sparato la consueta iperbole: “Mi fa schifo tanto è bravo”, paragonandolo a Manzoni. Accanto all’orgasmo dei fan più acritici, “Un gioiellino che ti cattura dalla prima all’ultima pagina. Grazie AMMA!” (Mikarlo), “Letto in meno di due ore… stupendo e commovente” (Ianì Valastro), spuntano parecchie voci dissonanti. Come uno che si nasconde dietro il nickname Saxsoul: “E così anche Ammaniti, dopo aver scritto una serie di romanzi di qualità, si è ridotto a fare le marchette per il periodo di Natale”. O il perfido Maurizio, che pur lodando il libro mette il dito su una castroneria indegna del figlio di uno psicoanalista: “I bambini delle elementari non si stendono sul lettino per le psicoterapie, ma giocano con il terapeuta”.
O il più spietato di tutti, tale Rupert: “Racconto stiracchiato fino a diventare libretto, caratteri giganteschi, spaziatura che un tir ci può fare inversione di marcia in una sola manovra, prezzo (10 euro) del tutto immotivato. La quarta di copertina, inspiegabilmente, parla della irruzione di una ‘sconosciuta’ nella cantina dove il protagonista Lorenzo si è rifugiato: salvo poi scoprire che si tratta della sorellastra del protagonista (quindi tanto sconosciuta non è, ma di certo fa più Hitchcock parlare di ‘sconosciuta’ al posto di sorellastra). Nell’ultima pagina del libro, quattro righe di nota esplicativa di cui non si sentiva assolutamente la mancanza: ma evidentemente Ammaniti ritiene così stupido (e giustamente) un lettore che sgancia dieci euro per questo suo nuovo libro, da sentirsi in obbligo di spiegare anche l’evidenza. ‘Io e te’, ovvero ‘You and me’, come le tariffe promozionali per i cellulari. E infatti, più telefonato di così…”. In ogni caso, l’ex ragazzo prodigio riesce a portare a casa un eccellente 4 di media.

Ben più misera la pagella del meno giovane Andrea De Carlo (Leielui, Bompiani) che non raggiunge la sufficienza (2,47 su 5), sommerso da un diluvio di giudizi negativi e a volte ingenerosi, come il seguente di tale Sonim: “Questo sarebbe un libro per cui spendere venti euro? me l’hanno prestato e nonostante ciò mi vergognavo nell’approfittare dell’ingenuità di chi l’ha acquistato. Definirlo bellissimo, coinvolgente, commovente, il migliore di Andrea, significa aver capito zero della letteratura che ci circonda e di quanto De Carlo ha composto fino al 2002, anno del suo ultimo libro decente I veri nomi. Mi insospettisce il ritmo di autori troppo prolifici (tipo 3 libri in 4 anni) a meno che non si tratti di Philip Roth o King (che pure qualche granchio lo prendono), perché le storie che propongono sono troppo raffazzonate e compilate in fretta. In questo caso allungate pure di almeno 200 pagine inutili, giusto per garantire il prezzo pieno di copertina. Consiglio ad Andrea De Carlo un amaro esame di coscienza al di là delle vendite e un riposo rigenerante per le idee con un arrivederci almeno al 2013. Questo libro vende e venderà perché titolo, copertina e sinossi richiamano il pubblico degli adolescenti o dei consumatori avidi di film sentimentali di serie b che cercano storie rassicuranti e calde in vista dell’inverno. Chi vuole leggere un autore italiano con una bella storia da raccontare, si rivolga a Piperno o Veronesi”.

Mah, io non ne sarei tanto sicuro. Dì la verità, Sonim, non è che per caso sei amico di uno dei due citati? O peggio, non sarai tu stesso un loro pseudonimo? Peraltro, se andiamo a vedere le pagelle, XY di Veronesi (Fandango) riesce a racimolare un magro 3,2 e il bravo Piperno (Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi, Mondadori) lo supera di poco con una media del 3,4: “Non ho aspettato cinque anni il tuo nuovo libro per poi ritrovarmi a leggere una sorta di compitino”, scrive un certo Slapsy che si professa suo ammiratore.
Più che una grande rete, il Web è un gigantesco mattatoio che non risparmia neppure gli animali sacri. Ma è anche un sismografo che registra gusti e sbalzi d’umore del pubblico ben più fedelmente delle classifiche di vendita. La domanda è: in che misura possiamo e dobbiamo affidarci a questo strumento, per capire se un libro merita di essere comprato e letto? I recensori online sono per lo più anonimi o schermati da un nickname.
Come si fa a distinguere i lettori autentici da quelli fasulli? Chi ci garantisce che certi commenti non siano dettati dall’editore, o dall’autore, o dai suoi rivali? Come possiamo smascherare le zie premurose, gli amanti delusi o le ex mogli vendicative?

Nel suo seguitissimo blog Pierre Assouline, critico letterario di Le Monde, parlava giorni fa di “morte della prescrizione, nascita della raccomandazione e agonia del critico”.
Lo spunto, un’inchiesta del sito Nonfiction.fr che ha cercato di far luce su chi orienti oggi le scelte dei francesi in libreria: al primo posto resta l’inserto letterario per eccellenza, Le Monde des livres, seguito dal settimanale Télérama e da alcune trasmissioni radio del mattino. Ma cresce l’influenza di blog, siti multimediali e librerie online come Amazon. La “raccomandazione” numerica, il clic del mouse, il passaparola elettronico sta soppiantando la “prescrizione” del critico tradizionale. Calma però, avverte Assouline: è troppo presto per annunciare la Rivoluzione Culturale, espressione peraltro che fa rizzare i capelli in testa a chiunque abbia un po’ di memoria. Ve li immaginate gli intellettuali col cappello dell’asino mandati a zappare la terra, e le Guardie Rosse degli uffici marketing che arringano le folle dei lettori imbestialiti al grido di “morte alle élite, viva la democrazia letteraria”?

Se l’unica alternativa alle conventicole accademico-editoriali è il populismo del click, stiamo davvero freschi. Certo, finché nelle pagine culturali i romanzi di Eco o di Ammaniti raccolgono solo applausi, è inutile poi lamentarsi che il mercato abbia ammazzato una critica già defunta.

13.1.10

C'era una volta il libro

di Daniel Lyons
Sì, i volumi di carta spariranno. Ma quelli digitali regaleranno una nuova primavera alla letteratura. Parola dell'inventore di Kindle. Colloquio con Jeff Bezos

Nel 1994 Jeffrey Preston Bezos, aveva appena 30 anni. Nato ad Albuquerque, nel New Mexico, dopo essersi laureato a Princeton, in quell'anno Bezos aveva fondato Amazon. La libreria on line ha rivoluzionato l'idea stessa di vendita al dettaglio. Ma a Bezos (il cui patrimonio è valutato in 10 miliardi di dollari), quel successo non è bastato. Tanto che ora, dopo aver lanciato Kindle, il lettore digitale dei libri, sta cercando di sovvertire anche il modo in cui leggiamo. Come spiega in questa intervista.

Jeff Bezos, Amazon ha avuto un anno eccezionale, nonostante la crisi economica. Come ci siete riusciti?

"Grazie a principi basilari: ci siamo concentrati su una selezione accurata di prodotti, su prezzi bassi e spedizioni affidabili, convenienti e veloci. Abbiamo un approccio simile da 14 anni, in pratica da quando esistiamo. Il nostro successo è, per così dire, frutto di un'accumulazione. Per esempio, se ci capita di aver avuto un buon trimestre, sappiamo che ciò era dovuto al lavoro che abbiamo svolto tre, quattro, cinque anni prima, e non per il buon lavoro immediatamente precedente".

Amazon è nato come un sito di vendita al dettaglio. Ora sono disponibili prodotti informatici e siete nel business dell'elettronica di consumo con Kindle. Come potrebbe definire Amazon, oggi?
"Prendiamo le mosse dal consumatore, e lavoriamo 'con lo sguardo all'indietro'. Acquisiamo tutte le capacità utili a soddisfare il cliente, costruendo ogni genere di tecnologia per soddisfarlo. Inoltre inventiamo prodotti nuovi, non calchiamo strade già percorse da altri: ci piace invece camminare per strade inesplorate per vedere cosa c'è alla fine. Alcune volte sono vicoli ciechi, ma altre si trasformano in ampi viali, pieni di eccitanti opportunità. Desideriamo proiettarci nel futuro e muoverci in una prospettiva a lungo termine, una caratteristica rara di questi tempi. Il senso di prospettiva non è virtù comune nel mondo delle aziende. Tuttavia la maggior parte delle cose che abbiamo fatto ci ha richiesto tantissimo tempo".

Lei ha parlato di Kindle come un esempio del concetto di guardare all'indietro, rispetto al cliente. Può spiegarci in che senso?
"Esistono due modi possibili, per le compagnie, di ampliare il proprio operato. Primo: possono creare un inventario delle loro capacità e competenze e dirsi: ok, con questo tipo di capacità e competenze, cos'altro possiamo fare? Una tecnica estremamente utile, che ogni azienda dovrebbe mettere in atto. Ma esiste un secondo metodo, che richiede un orientamento a lungo termine: invece di chiedersi in cosa si è bravi, e cos'altro fare con le proprie abilità, ci si interroga sull'identità e i bisogni dei potenziali clienti. E poi si dà loro ciò che desiderano, anche se non se ne possiedono ancora le capacità. Tutto si può imparare, non importa quanto ci vorrà. Kindle ne è un esempio vincente: è sul mercato da due anni, ma abbiamo lavorato tre anni prima di lanciarlo. E ne abbiamo parlato, ancora prima, per un anno. Abbiamo assunto un team di ingegneri elettronici per costruire il dispositivo e acquisire nuove conoscenze. In genere, nelle aziende, i dirigenti seguono pedissequamente una tendenza: pensano che il modo giusto di procedere sia continuare a fare ciò che si sa fare al meglio. Può essere, forse, una buona regola. Ma il problema è che il mondo cambia continuamente sotto i nostri occhi, e non ci si può adattare a questo cambiamento senza acquisire nuovi strumenti e capacità".

Il successo di Kindle l'ha sorpresa?
"Francamente, sono rimasto di stucco. Due anni fa nessuno si sarebbe aspettato tutto questo. È il prodotto più venduto, desiderato e regalato su Amazon. E non sto parlando solo dell'informatica, ma di tutte le categorie disponibili. Abbiamo trascorso anni a lavorare al business dei libri, e ora, per i titoli esistenti in edizioni Kindle, le vendite sono cresciute del 48 per cento. Ma per noi non è soltanto un business. È quasi uno zelo missionario, perché riguarda la cultura. Pensiamo che Kindle sia più grande di noi".

Steve Jobs, il padre di Apple, ha detto che Kindle fallirà poiché "la gente non legge più".
"Io penso invece che la lettura resisterà e che si meriti un dispositivo dedicato. Per chi è un lettore, l'atto del leggere è qualcosa di davvero importante. Non è possibile leggere per tre ore su uno schermo Lcd retroilluminato: questo va bene per le forme brevi. Un punto molto importante, che mi preme sottolineare: noi umani ci evolviamo assieme ai nostri strumenti. Cambiamo gli strumenti e gli strumenti cambiano noi: è un ciclo che si ripete. Durante gli ultimi vent'anni strumenti network-connected come gli smart phones, i Blackberry e i personal computer connessi alla Rete hanno mosso la nostra civiltà verso forme brevi di lettura. Amo il mio Blackberry: è fantastico per leggere e-mail. Stessa cosa per il mio computer. Sono felice di leggere articoli brevi e post nei blog, ma non voglio leggere un romanzo di 300 pagine sul mio pc. Kindle aggiunge la convenienza di una connessione wireless alla forma letteraria lunga. Penso che si imparino cose diverse da un romanzo rispetto a una forma breve di letteratura, pur essendo entrambi importanti. Se si legge 'Ciò che resta del giorno' di Kazuo Ishiguro - uno dei miei romanzi preferiti - non si può non pensare di aver speso dieci ore in una vita alternativa, imparando qualcosa riguardo la natura dell'esistenza e del rimorso. E questo non è possibile in un blog".

Esisterà, secondo lei, un momento in cui il romanzo verrà reinventato e il nuovo medium digitale darà avvio a nuove forme artistiche?
"Sono scettico riguardo la possibilità di reinventare il romanzo. Forse inventare sarà possibile per i testi scientifici: la letteratura medica è abbastanza matura da scegliere per sé nuove forme. Penso ad animazioni di un cuore pulsante, ad esempio. Ma credo che il romanzo continuerà a crescere e fiorire nella sua forma attuale. Ciò non significa che non assisteremo anche a nuove invenzioni narrative - potrebbero nascere e, di fatto, ce ne saranno. Ma sono sicuro che non sostituiranno il romanzo".

Si parla molto di un possibile tablet della Apple. Sarebbe un concorrente di Kindle o no?
"Per noi più lettori ci sono meglio è, visto che vendiamo libri in formato elettronico. E vogliamo far sì che ognuno sia libero di leggere i nostri libri elettronici comunque e ovunque lo desideri".

Ma vi interessa più vendere il dispositivo in sé, l'hardware che producete, o i libri?
"Sono obiettivi diversi e noi lavoriamo su entrambi. Per ciò che riguarda i titoli disponibili, vogliamo che tutti siano in grado di leggere ciò che vogliono, dove vogliono. Riguardo a Kindle, desideriamo che diventi il migliore supporto di lettura del mondo. Non è, ovviamente, un coltellino svizzero: non è in grado di compiere una quantità infinita di cose. Pensiamo che l'atto della lettura si meriti uno strumento specializzato e vogliamo che Kindle sia quello strumento. È come per la fotografia: mi piace scattare immagini con il mio telefonino, ma quando voglio fare una foto vera preferisco farlo con la mia macchina fotografica. Kindle è quella macchina fotografica".

Pensa che il libro di carta, come viene comunemente inteso, è destinato a scomparire?
"Penso di sì. Non so quanto ci vorrà. Amiamo le storie e la narrativa; amiamo perderci nel mondo di un autore. Questo non scomparirà mai, e continuerà a crescere. Ma il libro fisico ha 500 anni di vita. È probabilmente la tecnologia che ha avuto più successo nella storia. È difficile pensare a un prodotto con vita più lunga. Se Gutenberg fosse vivo, oggi, saprebbe riconoscere esattamente un libro e saprebbe come utilizzarlo, immediatamente. Soggetto anch'esso, come naturale, ai cambiamenti del tempo, il libro ha mantenuto una forma stabile per moltissimi anni. Ma nessuna tecnologia, nemmeno quella così elegante di un libro, dura per sempre".

Legge ancora romanzi su carta?
"No, se posso farne a meno".

traduzione di Valeria Dani. L'espresso-Newsweek

19.9.09

Google diventa editore con due milioni di titoli

La biblioteca virtuale di Google diventa improvvisamente reale con titoli quasi dimenticati, ma che hanno fatto la storia della letteratura da Mark Twain a Carlo Collodi, passando anche per Alice nel paese delle meraviglie e Jane Eyre. Così dopo aver passato 5 anni a scannerizzare libri, Google si prepara a riportali in formato cartaceo grazie ad un accordo stretto con On Demand Books, la società che ha inventato Espresso Book, la macchina capace di stampare volumi da 300 pagine con copertina rigida in meno di cinque minuti.
La decisione di un colosso dell'online come Google di puntare sull'editoria tradizionale sembra però stonare con il recente successo dei libri elettronici. Basti pensare a The Lost Symbol, l'ultimo libro di Dan Brown (l'autore del Codice da Vinci) che ha venduto più copie nella versione e-Book scaricabile su Kindle che in cartaceo. La mossa di Google però riporterà in vita oltre 2 milioni di libri spariti anche dalle biblioteche.
Di fatto saranno edizioni economiche con un costo di circa 8 dollari (5,45 euro) di cui 3 serviranno a coprire i costi di produzione sostenuti da On Demand Books. Nelle casse del colosso di Mountain View entrerà un dollaro e il resto sarà donato in beneficienza. «La missione di Google è di rendere più accessibili i libri del mondo», ha detto Jennie Johnson, portavoce della società, ammettendo che il volume di carta resta un oggetto desiderabile per buona parte del pubblico nonostante il successo dell'editoria online. «Il cerchio si sta per chiudere. Gli utenti potranno ottenere la copia fisica di un libro del quale esistono magari due sole copie in alcune biblioteche del paese, o del quale magari non esistono più copie», ha detto la Johnson.
La novità – almeno per il momento – non riguarderà l'Italia perché le macchine Espresso per l'instant publishing, che nel 2007 hanno ricevuto da Time un premio per l'invenzione dell'anno, sono disponibili solo nel mondo anglosassone nei campus universitari e nelle biblioteche. Costano circa 100 mila dollari l'una, ma On Demand, che già offre ai suoi clienti oltre un milione di titoli punta a concederle in affitto ai rivenditori. Google consentirà la pubblicazione di titoli quindi non più protetti da copyright. «La riscoperta di questi titoli non è un problema» dice Marco Polillo, presidente degli editori italiani «piuttosto – continua – mi incuriosisce che Google, dopo aver iniziato a pubblicare notizie online ogni secondo, torni al buon vecchio libro». A preoccupare il numero uno dell'Aie è invece il confine tra titoli protetti e non protetti: «Ho sentito parlare del 1923 come data limite, in realtà in Europa si considerano i 70 anni dalla morte dell'autore».
Alla libreria istantanea potrebbero aggiungersi milioni di altri testi se a Google verrà dato il diritto di scannerizzare e vendere libri protetti da copyright ma non più in commercio: ottenendo tale diritto, il catalogo del colosso di Mountain View potrebbe rapidamente raggiungere i sei milioni di volumi. Se ne sta occupando un tribunale di New York dopo che Microsoft, Sony, Amazon, e le autorità antitrust, si sono opposti sostenendo che in tal modo Google avrebbe il monopolio sui libri fuori stampa. Evidentemente la carta stampata è ancora molto più sexy di quanto si creda. «I libri sono bellissimi – prosegue Polillo –, ma non sono come le tv che parla. Bisogna essere attenti e voler dedicare tempo alla lettura. Il problema non è certo nell'offerta, già vastissima, quanto nella mentalità dei lettori».
G. Bal.