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27.4.15
Derivati. Le scommesse sbagliate sul calo dei tassi. Un conto miliardario per i contribuenti
In quattro anni abbiamo visto evaporare 15,3 miliardi pubblici, soldi finiti a rimpinguare il conto economico di 17 banche estere e due italiane (Intesa Sanpaolo e Unicredit)
Sergio Rizzo
Discutiamo da settimane della possibile esistenza nei conti pubblici di un tesoretto di 1,6 miliardi e scopriamo ora che lo scorso anno il Tesoro ha bruciato con i derivati una somma pari a ben due di quei presunti tesoretti. Tre miliardi e trecento milioni, per l’esattezza. Due tesoretti lo scorso anno, quasi due nel 2013, altri due e mezzo nel 2012, e ancora un paio l’anno precedente. Più un altro tesoretto e mezzo, ha spiegato Stefania Rimini per Report di Milena Gabanelli, causa rinegoziazioni dei contratti di cui sopra. Il risultato è che in quattro anni abbiamo visto evaporare 15,3 miliardi pubblici. Per capirci, è la somma che il governo Renzi dovrà trovare quest’anno per evitare l’aumento delle tasse contemplato dalle clausole di salvaguardia. Tutti soldi finiti a rimpinguare il conto economico di 17 banche estere e due italiane (Intesa Sanpaolo e Unicredit). Quelle, appunto, con cui il Tesoro ha sottoscritto una decina d’anni fa i contratti di finanza derivata.
Per quale motivo l’ha fatto? Gli esperti spiegano che quei contratti sono come delle polizze assicurative. Servirebbero a coprire parte del debito pubblico dal rischio di aumento dei tassi d’interesse e dal conseguente aggravio della spesa. Come funziona è presto detto. Il Tesoro si impegna a pagare alla banca, di solito una delle grandi major internazionali del ramo, un tasso fisso su un certo ammontare di debito pubblico. Poniamo che sia il 4 per cento annuo. La banca, a sua volta, corrisponde allo Stato italiano un interesse variabile misurato sull’ Euribor. Se quest’ultimo è più alto del tasso fisso, il Tesoro ci guadagna la differenza. Ma se è più basso, ci rimette. Oggi che i tassi sono a zero, ci rimette tutto.
Il caso vuole che quei contratti siano stati stipulati pochi anni prima della crisi finanziaria e del crollo verticale dei tassi. E per un ammontare gigantesco: 160 miliardi. Il che rende evidente come quell’operazione, lungi dall’essere una polizza assicurativa contro un rischio finanziario, sia diventata essa stessa un rischio finanziario incalcolabile.
Spiegano i tecnici ministeriali che quando si è deciso di ricorrere ai derivati il mercato dei tassi era in altalena, più su che giù. Andrebbe però ricordato come fra il 2000 e il 2002 l’ Euribor fosse precipitato dal 5 al 2 per cento. Mentre l’ingresso nell’euro tutto poteva far immaginare tranne l’impennata inarrestabile dei tassi.
Questo fa apparire ancora più avventurose le decisioni prese in quegli anni, che hanno finito per favorire soltanto le banche vanificando parte del risparmio sul servizio del debito garantito dalla moneta unica. Qualche numero? Nel 2011 abbiamo speso per interessi 78 miliardi: cifra identica in termini nominali a quella del 2001, quando c’era ancora la lira e il volume dei titoli di Stato in circolazione era nettamente inferiore.
In termini reali il risparmio è stato di ben 18 miliardi, ridotti però a 15 per quella sconsiderata iniziativa sui derivati. I maligni potrebbero anche malignare a proposito di certi passaggi di alti papaveri del Tesoro ai vertici di certe grandi banche internazionali. Ma c’è da dire che all’inizio degli anni Duemila la febbre dei derivati non contagiava solo via XX settembre, bensì anche le amministrazioni locali. Qualcuno di loro ne è uscito con le ossa rotte.
Già nel 2014 la Procura della Corte dei conti, nella relazione sull’apertura dell’anno giudiziario, aveva sottolineato i pericoli crescenti causati da queste operazioni, facendo presente che il rapporto fra deficit pubblico e pil del 2013 sarebbe stato ben migliore (il 2,8 anziché il 3 per cento) senza un salasso di 3,2 miliardi provocato dai derivati, dei quali 250 milioni a carico dei Comuni. E il 10 febbraio scorso ha rincarato la dose, argomentando che «con crescente frequenza tali contratti sono stati utilizzati non tanto con finalità di copertura, bensì con intenti di tipo speculativo incrementando paradossalmente, in caso di utilizzo distorto, una nuova rilevante fonte di rischio e di conseguente danno erariale». Il problema è che fermare questo bagno di sangue non è affatto facile. Rinegoziare i contratti costa un sacco di soldi: e pagano sempre i contribuenti. A differenza dei responsabili.
2.5.13
E Draghi prolunga fino a metà 2014 le aste per fornire liquidità illimitata al sistema bancario
Marika De Feo (corriere.it)
Da Bratislava, la capitale della Slovacchia, la Bce è scesa in campo in modo deciso per rilanciare l’economia e i prestiti al settore privato, tagliando i tassi di interesse e garantendo liquidità «fino a quando è necessario», e almeno fino al luglio del 2014. Perché l’inflazione è calata più in fretta del previsto, a un minimo pari all’1,2%, mentre l’obiettivo principale perseguito dalla Bce corrisponde a un target inferiore ma vicino al 2%, e anche le aspettative per il futuro sono ben ancorate a questo obiettivo.
SPAZIO DI MANOVRA - In questo quadro la Bce aveva ancora spazio di manovra per contribuire a sostenere la ripresa dell’economia, la quale, contrariamente al previsto, arriverà soltanto «più tardi» nel corso della seconda metà dell’anno. Mentre il settore del credito continua ad arrancare, soprattutto nei paesi sotto stress, anche se recentemente è intervenuto un leggero miglioramento, a fronte, tuttavia, di un aumento della domanda e di un restringimento delle condizioni dei prestiti. Da un lato quindi, le manovre guidate dal presidente della Bce Mario Draghi, contribuiranno a dare più ossigeno alle famiglie e alle imprese, rendendo meno caro il debito nei confronti del sistema bancario. Inoltre, sempre per cercare di riattivare il flusso di credito alle imprese e sostenere la ripresa, il Consiglio direttivo della Bce ha iniziato consultazioni con altre istituzioni, come l’Ebrd (L’Ente europeo per la ricerca e lo sviluppo), per trovare misure atte a sostenere i titoli che hanno come collaterali i prestiti emessi dalle banche, e facilitare così il flusso di credito a famiglie e imprese. Ma l’altro segnale, altrettanto importante, è stata la misura di prolungare fino a metà 2014 le aste trimestrali con le quali fornisce liquidità illimitata al sistema bancario, per rendere più certo il rifinanziamento delle banche in un orizzonte temporale garantito e migliorare così la fiducia nei mercati. In questo modo le banche «non avranno scuse», ha detto Draghi, sperando che gli istituti di credito tornino a prestare danaro a tassi inferiori invece che tenere ben stretta la liquidità, contribuendo nel frattempo a migliorare anche la frammentazione dei mercati finanziari, che costituisce uno dei problemi principali sorti con la crisi. La Bce ha dato un nuovo contributo alla crisi, ma esorta ora i governi a proseguire sulla strada delle riforme e, a Bruxelles, a spronare l’introduzione «cruciale» dell’unione bancaria.
Da Bratislava, la capitale della Slovacchia, la Bce è scesa in campo in modo deciso per rilanciare l’economia e i prestiti al settore privato, tagliando i tassi di interesse e garantendo liquidità «fino a quando è necessario», e almeno fino al luglio del 2014. Perché l’inflazione è calata più in fretta del previsto, a un minimo pari all’1,2%, mentre l’obiettivo principale perseguito dalla Bce corrisponde a un target inferiore ma vicino al 2%, e anche le aspettative per il futuro sono ben ancorate a questo obiettivo.
SPAZIO DI MANOVRA - In questo quadro la Bce aveva ancora spazio di manovra per contribuire a sostenere la ripresa dell’economia, la quale, contrariamente al previsto, arriverà soltanto «più tardi» nel corso della seconda metà dell’anno. Mentre il settore del credito continua ad arrancare, soprattutto nei paesi sotto stress, anche se recentemente è intervenuto un leggero miglioramento, a fronte, tuttavia, di un aumento della domanda e di un restringimento delle condizioni dei prestiti. Da un lato quindi, le manovre guidate dal presidente della Bce Mario Draghi, contribuiranno a dare più ossigeno alle famiglie e alle imprese, rendendo meno caro il debito nei confronti del sistema bancario. Inoltre, sempre per cercare di riattivare il flusso di credito alle imprese e sostenere la ripresa, il Consiglio direttivo della Bce ha iniziato consultazioni con altre istituzioni, come l’Ebrd (L’Ente europeo per la ricerca e lo sviluppo), per trovare misure atte a sostenere i titoli che hanno come collaterali i prestiti emessi dalle banche, e facilitare così il flusso di credito a famiglie e imprese. Ma l’altro segnale, altrettanto importante, è stata la misura di prolungare fino a metà 2014 le aste trimestrali con le quali fornisce liquidità illimitata al sistema bancario, per rendere più certo il rifinanziamento delle banche in un orizzonte temporale garantito e migliorare così la fiducia nei mercati. In questo modo le banche «non avranno scuse», ha detto Draghi, sperando che gli istituti di credito tornino a prestare danaro a tassi inferiori invece che tenere ben stretta la liquidità, contribuendo nel frattempo a migliorare anche la frammentazione dei mercati finanziari, che costituisce uno dei problemi principali sorti con la crisi. La Bce ha dato un nuovo contributo alla crisi, ma esorta ora i governi a proseguire sulla strada delle riforme e, a Bruxelles, a spronare l’introduzione «cruciale» dell’unione bancaria.
27.1.13
La bomba-derivati che fa esplodere i bilanci delle banche
26.1.13
Sulle banche più vigilanza da Bruxelles
Stefano Lepri (La Stampa)
Nell'Europa continentale le banche che hanno combinato più guai sono quelle vicine al potere politico locale: le Landesbanken (banche regionali) tedesche, le Cajas de ahorro (Casse di risparmio) spagnole, il Monte dei Paschi. Per fortuna le dimensioni del caso italiano, pur grave in sé, appaiono assai inferiori a quanto accaduto negli altri due Paesi, dove è questione di svariate decine di miliardi di euro.
Se è così è fuori luogo che si indigni chi, come Giulio Tremonti e la Lega Nord, appena dieci anni fa intendeva accrescere in tutte le Fondazioni bancarie il peso degli enti locali (li fermò la Corte Costituzionale). Ancor più è paradossale proporre di nazionalizzare il Mps: per sottrarlo all'influenza dei dirigenti locali del Pd lo si' restituirebbe ad accordi spartitori tra tutti i partiti nazionali, come negli Anni 80. Il problema di un controllo esiste. Se le banche vengono sorrette con denaro dei contribuenti, occorre dissipare anche il più piccolo sospetto che si faccia un regalo ai banchieri. I 3,9 miliardi al Monte regalo non sono, sono un prestito a tassi di interesse assai alti, dunque il Tesoro ci guadagna; però occorre la garanzia che gli sbagli non si ripetano. Le vecchie ricette si rivelano tutte inadeguate. Il grande disordine della finanza mondiale nasce dall'illusione, di marca ultraliberista, che quel mercato così complicato e oscuro potesse regolarsi da solo. Ma se poi i banchieri di Wall Street quando volevano piazzare i titoli più tossici trovavano facile rifilarli alle Landesbanken, vuol dire che anche l'intrusione del potere politico nell'economia provoca danni gravissimi. Ovvero, gli alti rischi della finanza sregolata hanno attirato cattivi banchieri che sugli affari normali guadagnavano poco perché prestavano agli amici degli amici. Ancor peggio, una parte delle difficoltà dell'area curo si deve alle complicità tra governi e poteri bancari nazionali nel loro insieme. Per due anni almeno la Spagna si era rifiutata di riconoscere l'ampiezza del buco nelle sue Cajas: Tuttora la Germania resiste a una sorveglianza comune europea sulle sue banche medio-piccole, dopo averne lavato in casa i panni sporchi. Avremmo meglio avviato a soluzione la crisi dell'euro se una sola autorità sovrannazionale avesse potuto decidere quali banche in difficoltà chiudere e quali soccorrere, in modo trasparente, sotto controllo collettivo. Le controindicazioni del controllo politico sono minori se Io si esercita al livello più alto possibile. Invece l'intreccio troppo stretto fra Stati e banche fa sì che le fragilità degli uni si riflettano sulle altre, e viceversa. Resta vero che le banche italiane hanno sbagliato assai meno di altre, grazie alla vigilanza della Banca d'Italia. La lunga crisi le ha tuttavia messe in difficoltà; potrebbero prestare più soldi alle imprese se fossero più capitalizzate, ma il sistema proprietario che si regge sulle Fondazioni ha abbastanza esaurito le energie. I suoi limiti risaltano anche nell'apprendere che ora il più qualificato aspirante alla presidenza dell'Associazione bancaria è un ex politico. La vicenda anomala del Mps mostra inoltre in versione politicizzata i difetti del più asfittico capitalismo familiare all'italiana: rifiutare gli apporti di capitale esterni per paura di diluire il proprio controllo, strapagare acquisizioni valutate in termini di potere più che di guadagno. Far parte di una unione monetaria richiede banche non necessariamente grandi (le economie di scala sono dubbie), ma aperte oltre i confini nazionali.
Nell'Europa continentale le banche che hanno combinato più guai sono quelle vicine al potere politico locale: le Landesbanken (banche regionali) tedesche, le Cajas de ahorro (Casse di risparmio) spagnole, il Monte dei Paschi. Per fortuna le dimensioni del caso italiano, pur grave in sé, appaiono assai inferiori a quanto accaduto negli altri due Paesi, dove è questione di svariate decine di miliardi di euro.
Se è così è fuori luogo che si indigni chi, come Giulio Tremonti e la Lega Nord, appena dieci anni fa intendeva accrescere in tutte le Fondazioni bancarie il peso degli enti locali (li fermò la Corte Costituzionale). Ancor più è paradossale proporre di nazionalizzare il Mps: per sottrarlo all'influenza dei dirigenti locali del Pd lo si' restituirebbe ad accordi spartitori tra tutti i partiti nazionali, come negli Anni 80. Il problema di un controllo esiste. Se le banche vengono sorrette con denaro dei contribuenti, occorre dissipare anche il più piccolo sospetto che si faccia un regalo ai banchieri. I 3,9 miliardi al Monte regalo non sono, sono un prestito a tassi di interesse assai alti, dunque il Tesoro ci guadagna; però occorre la garanzia che gli sbagli non si ripetano. Le vecchie ricette si rivelano tutte inadeguate. Il grande disordine della finanza mondiale nasce dall'illusione, di marca ultraliberista, che quel mercato così complicato e oscuro potesse regolarsi da solo. Ma se poi i banchieri di Wall Street quando volevano piazzare i titoli più tossici trovavano facile rifilarli alle Landesbanken, vuol dire che anche l'intrusione del potere politico nell'economia provoca danni gravissimi. Ovvero, gli alti rischi della finanza sregolata hanno attirato cattivi banchieri che sugli affari normali guadagnavano poco perché prestavano agli amici degli amici. Ancor peggio, una parte delle difficoltà dell'area curo si deve alle complicità tra governi e poteri bancari nazionali nel loro insieme. Per due anni almeno la Spagna si era rifiutata di riconoscere l'ampiezza del buco nelle sue Cajas: Tuttora la Germania resiste a una sorveglianza comune europea sulle sue banche medio-piccole, dopo averne lavato in casa i panni sporchi. Avremmo meglio avviato a soluzione la crisi dell'euro se una sola autorità sovrannazionale avesse potuto decidere quali banche in difficoltà chiudere e quali soccorrere, in modo trasparente, sotto controllo collettivo. Le controindicazioni del controllo politico sono minori se Io si esercita al livello più alto possibile. Invece l'intreccio troppo stretto fra Stati e banche fa sì che le fragilità degli uni si riflettano sulle altre, e viceversa. Resta vero che le banche italiane hanno sbagliato assai meno di altre, grazie alla vigilanza della Banca d'Italia. La lunga crisi le ha tuttavia messe in difficoltà; potrebbero prestare più soldi alle imprese se fossero più capitalizzate, ma il sistema proprietario che si regge sulle Fondazioni ha abbastanza esaurito le energie. I suoi limiti risaltano anche nell'apprendere che ora il più qualificato aspirante alla presidenza dell'Associazione bancaria è un ex politico. La vicenda anomala del Mps mostra inoltre in versione politicizzata i difetti del più asfittico capitalismo familiare all'italiana: rifiutare gli apporti di capitale esterni per paura di diluire il proprio controllo, strapagare acquisizioni valutate in termini di potere più che di guadagno. Far parte di una unione monetaria richiede banche non necessariamente grandi (le economie di scala sono dubbie), ma aperte oltre i confini nazionali.
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16.5.12
Europe’s Economic Suicide
By PAUL KRUGMAN (The New York Times)
On Saturday The Times reported on an apparently growing phenomenon in Europe: “suicide by economic crisis,” people taking their own lives in despair over unemployment and business failure. It was a heartbreaking story. But I’m sure I wasn’t the only reader, especially among economists, wondering if the larger story isn’t so much about individuals as about the apparent determination of European leaders to commit economic suicide for the Continent as a whole.
On Saturday The Times reported on an apparently growing phenomenon in Europe: “suicide by economic crisis,” people taking their own lives in despair over unemployment and business failure. It was a heartbreaking story. But I’m sure I wasn’t the only reader, especially among economists, wondering if the larger story isn’t so much about individuals as about the apparent determination of European leaders to commit economic suicide for the Continent as a whole.
Just a few months ago I was feeling some hope about Europe. You may recall that late last fall Europe appeared to be on the verge of financial meltdown; but the European Central Bank, Europe’s counterpart to the Fed, came to the Continent’s rescue. It offered Europe’s banks open-ended credit lines as long as they put up the bonds of European governments as collateral; this directly supported the banks and indirectly supported the governments, and put an end to the panic.
The question then was whether this brave and effective action would be the start of a broader rethink, whether European leaders would use the breathing space the bank had created to reconsider the policies that brought matters to a head in the first place.
But they didn’t. Instead, they doubled down on their failed policies and ideas. And it’s getting harder and harder to believe that anything will get them to change course.
Consider the state of affairs in Spain, which is now the epicenter of the crisis. Never mind talk of recession; Spain is in full-on depression, with the overall unemployment rate at 23.6 percent, comparable to America at the depths of the Great Depression, and the youth unemployment rate over 50 percent. This can’t go on — and the realization that it can’t go on is what is sending Spanish borrowing costs ever higher.
In a way, it doesn’t really matter how Spain got to this point — but for what it’s worth, the Spanish story bears no resemblance to the morality tales so popular among European officials, especially in Germany. Spain wasn’t fiscally profligate — on the eve of the crisis it had low debt and a budget surplus. Unfortunately, it also had an enormous housing bubble, a bubble made possible in large part by huge loans from German banks to their Spanish counterparts. When the bubble burst, the Spanish economy was left high and dry; Spain’s fiscal problems are a consequence of its depression, not its cause.
Nonetheless, the prescription coming from Berlin and Frankfurt is, you guessed it, even more fiscal austerity.
This is, not to mince words, just insane. Europe has had several years of experience with harsh austerity programs, and the results are exactly what students of history told you would happen: such programs push depressed economies even deeper into depression. And because investors look at the state of a nation’s economy when assessing its ability to repay debt, austerity programs haven’t even worked as a way to reduce borrowing costs.
What is the alternative? Well, in the 1930s — an era that modern Europe is starting to replicate in ever more faithful detail — the essential condition for recovery was exit from the gold standard. The equivalent move now would be exit from the euro, and restoration of national currencies. You may say that this is inconceivable, and it would indeed be a hugely disruptive event both economically and politically. But continuing on the present course, imposing ever-harsher austerity on countries that are already suffering Depression-era unemployment, is what’s truly inconceivable.
So if European leaders really wanted to save the euro they would be looking for an alternative course. And the shape of such an alternative is actually fairly clear. The Continent needs more expansionary monetary policies, in the form of a willingness — an announced willingness — on the part of the European Central Bank to accept somewhat higher inflation; it needs more expansionary fiscal policies, in the form of budgets in Germany that offset austerity in Spain and other troubled nations around the Continent’s periphery, rather than reinforcing it. Even with such policies, the peripheral nations would face years of hard times. But at least there would be some hope of recovery.
What we’re actually seeing, however, is complete inflexibility. In March, European leaders signed a fiscal pact that in effect locks in fiscal austerity as the response to any and all problems. Meanwhile, key officials at the central bank are making a point of emphasizing the bank’s willingness to raise rates at the slightest hint of higher inflation.
So it’s hard to avoid a sense of despair. Rather than admit that they’ve been wrong, European leaders seem determined to drive their economy — and their society — off a cliff. And the whole world will pay the price.
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21.4.12
La grande beffa delle regole
di Alesssandro Plateroti
Sui mercati finanziari, la differenza tra un bravo e un cattivo trader si misura prima di tutto sulla velocità di reazione: dal «timing», cioè dalla tempestività delle decisioni, dipende non solo il successo di un'operazione, ma anche quello della carriera. «Se si applicasse questa regola anche ai politici o ai regolatori del mercato - ironizza un vecchio banchiere di investimento - sarebbero in pochi a superare il primo esame». L'autocritica, verrebbe da rispondere, non è certamente la qualità dei banchieri. Ma davanti al ritardo con cui politica e regolatori stanno rispondendo ai problemi, ai rischi sistemici e alle distorsioni emerse sui mercati finanziari dopo la crisi dei mutui e il crack di Lehman Brothers è davvero difficile dargli torto. Poco o niente di quanto era stato deciso dal G20, dalle autorità di vigilanza e dai governi di Europa, Stati Uniti e Asia per evitare gli eccessi speculativi e i rischi sistemici, si è infatti tradotto in regole condivise e di efficacia immediata. Soprattutto in Europa, le norme approvate dal legislatore sul controllo dei titoli derivati, sulla trasparenza degli intermediari e delle operazioni, sulla riduzione dei rischi sistemici e sulla protezione del risparmio e del debito sovrano dagli attacchi speculativi, sono ancora in attesa dei regolamenti di attuazione necessari per renderli pienamente operativi. Senza regolamenti, il mercato continua ad agire come un far west. Prendiamo il caso delle banche americane e del loro comportamento speculativo nei confronti dei titoli di Stato europei: ebbene, se le nuove norme approvate dal Parlamento europeo sulla vendita allo scoperto dei Credit default swap sui titoli sovrani avessero già dei regolamenti attuativi, Morgan Stanley e le altre banche Usa non avrebbero potuto speculare su Bonos e BTp. Per avere quei regolamenti bisognerà attendere ancora a lungo: alla luce del ritardo nelle consultazioni, l'obiettivo di fine 2012, sostengono già gli operatori, non potrà mai essere rispettato. E così la bolla torna a gonfiarsi: i derivati finanziari Over the counter (Otc), cioè quelli negoziati fuori dai mercati regolamentati e tenuti fuori bilancio, nel primo semestre del 2011 sono aumentati in modo stratosferico. Il valore nozionale totale ha raggiunto 708 trilioni di dollari con un aumento del 18% rispetto ai livelli calcolati a fine dicembre 2010! In sei mesi, quindi, le operazioni in derivati sono aumentate di 107 trilioni, cioè di 107.000 miliardi di dollari: invece di mettere un freno al mercato, sono stati superati tutti i record. E si ricordi che alla vigilia della grande crisi, a giugno 2008, il totale Otc aveva raggiunto la vetta di 673 trilioni di dollari. La Bri rivela che l'esplosione dei contratti Otc è determinata quasi totalmente dalla crescita dei derivati accesi sul rischio dei tassi di interesse. Da soli, essi coprono 554 trilioni. In questo campo le operazioni sono aumentate del 19% in 6 mesi. Un altro aspetto preoccupante è che la maggior parte dei contratti ha una scadenza sempre più breve. Quelli con scadenza oltre i 5 anni si sono ridotti del 6%, assestandosi intorno a 130 trilioni di dollari, mentre quelli con scadenza a meno di un anno sono aumentati del 30% raggiungendo i 247 trilioni di dollari. Ciò è sintomo di alta instabilità e di grande volatilità che, nel momento in cui gli Otc entrassero in fibrillazione, potrebbero provocare un devastante «effetto tsunami» soprattutto sulle economie più deboli. È chiaro che questa nuova ondata speculativa - e il ritardo nelle regole - è una manna per gli operatori e gli speculatori della City e di Wall Street. Che nel ritardo delle regole, hanno accelerato il loro processo di concentrazione e di controllo del potere finanziario. Se nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l'80% di tutti i derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche (JP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America e Goldman Sachs, ne detengono il 94% del totale). Davanti a queste cifre, è chiaro quanto sia necessario per l'Italia e per l'Europa non solo adottare con celerità le decisioni di propria competenza, ma anche soprattutto di giocare un ruolo più attivo in sede di G20. Dove, purtroppo, finora non si è mai deciso nulla di realmente efficace contro lo strapotere e gli abusi del sistema finanziario.
Sui mercati finanziari, la differenza tra un bravo e un cattivo trader si misura prima di tutto sulla velocità di reazione: dal «timing», cioè dalla tempestività delle decisioni, dipende non solo il successo di un'operazione, ma anche quello della carriera. «Se si applicasse questa regola anche ai politici o ai regolatori del mercato - ironizza un vecchio banchiere di investimento - sarebbero in pochi a superare il primo esame». L'autocritica, verrebbe da rispondere, non è certamente la qualità dei banchieri. Ma davanti al ritardo con cui politica e regolatori stanno rispondendo ai problemi, ai rischi sistemici e alle distorsioni emerse sui mercati finanziari dopo la crisi dei mutui e il crack di Lehman Brothers è davvero difficile dargli torto. Poco o niente di quanto era stato deciso dal G20, dalle autorità di vigilanza e dai governi di Europa, Stati Uniti e Asia per evitare gli eccessi speculativi e i rischi sistemici, si è infatti tradotto in regole condivise e di efficacia immediata. Soprattutto in Europa, le norme approvate dal legislatore sul controllo dei titoli derivati, sulla trasparenza degli intermediari e delle operazioni, sulla riduzione dei rischi sistemici e sulla protezione del risparmio e del debito sovrano dagli attacchi speculativi, sono ancora in attesa dei regolamenti di attuazione necessari per renderli pienamente operativi. Senza regolamenti, il mercato continua ad agire come un far west. Prendiamo il caso delle banche americane e del loro comportamento speculativo nei confronti dei titoli di Stato europei: ebbene, se le nuove norme approvate dal Parlamento europeo sulla vendita allo scoperto dei Credit default swap sui titoli sovrani avessero già dei regolamenti attuativi, Morgan Stanley e le altre banche Usa non avrebbero potuto speculare su Bonos e BTp. Per avere quei regolamenti bisognerà attendere ancora a lungo: alla luce del ritardo nelle consultazioni, l'obiettivo di fine 2012, sostengono già gli operatori, non potrà mai essere rispettato. E così la bolla torna a gonfiarsi: i derivati finanziari Over the counter (Otc), cioè quelli negoziati fuori dai mercati regolamentati e tenuti fuori bilancio, nel primo semestre del 2011 sono aumentati in modo stratosferico. Il valore nozionale totale ha raggiunto 708 trilioni di dollari con un aumento del 18% rispetto ai livelli calcolati a fine dicembre 2010! In sei mesi, quindi, le operazioni in derivati sono aumentate di 107 trilioni, cioè di 107.000 miliardi di dollari: invece di mettere un freno al mercato, sono stati superati tutti i record. E si ricordi che alla vigilia della grande crisi, a giugno 2008, il totale Otc aveva raggiunto la vetta di 673 trilioni di dollari. La Bri rivela che l'esplosione dei contratti Otc è determinata quasi totalmente dalla crescita dei derivati accesi sul rischio dei tassi di interesse. Da soli, essi coprono 554 trilioni. In questo campo le operazioni sono aumentate del 19% in 6 mesi. Un altro aspetto preoccupante è che la maggior parte dei contratti ha una scadenza sempre più breve. Quelli con scadenza oltre i 5 anni si sono ridotti del 6%, assestandosi intorno a 130 trilioni di dollari, mentre quelli con scadenza a meno di un anno sono aumentati del 30% raggiungendo i 247 trilioni di dollari. Ciò è sintomo di alta instabilità e di grande volatilità che, nel momento in cui gli Otc entrassero in fibrillazione, potrebbero provocare un devastante «effetto tsunami» soprattutto sulle economie più deboli. È chiaro che questa nuova ondata speculativa - e il ritardo nelle regole - è una manna per gli operatori e gli speculatori della City e di Wall Street. Che nel ritardo delle regole, hanno accelerato il loro processo di concentrazione e di controllo del potere finanziario. Se nel 2009 le cinque maggiori banche americane detenevano l'80% di tutti i derivati emessi negli Usa, oggi 4 banche (JP Morgan Chase, Citigroup, Bank of America e Goldman Sachs, ne detengono il 94% del totale). Davanti a queste cifre, è chiaro quanto sia necessario per l'Italia e per l'Europa non solo adottare con celerità le decisioni di propria competenza, ma anche soprattutto di giocare un ruolo più attivo in sede di G20. Dove, purtroppo, finora non si è mai deciso nulla di realmente efficace contro lo strapotere e gli abusi del sistema finanziario.
16.1.12
Collisione in vista per la Banca europea qualche consiglio per evitare lo schianto
Bruno Amoroso * (Il Manifesto)
Avviso ai naviganti: la nave Euro si sta schiantando contro un iceberg. Bisogna sganciare alcuni missili. Fuori di metafora, nazionalizzare le banche e riprendere il controllo della sovranità monetaria.
Il Titanic Euro è ormai a vista d'occhio dalla collisione con l'iceberg della speculazione finanziaria internazionale. A bordo il capitano, Mario Draghi, con l'ausilio del personale precario e dei mozzi - Merkel, Sarkozy e Monti - mantiene la calma e si accinge a pulire i vetri della nave con i pannicelli caldi chiamati «liberalizzazioni» e «disciplina di bilancio», e del «mercato del lavoro».
Qualche telefonata arriva dalla terra ferma dagli attoniti osservatori (Wolf, Galbraith, Krugman ecc.), che raccomandano di mettere in mare le scialuppe di salvataggio per salvare quanti più paesi è possibile e tentare di fermare l'iceberg prima dello scontro. Mario Draghi e i suoi mozzi hanno già pronti gli elicotteri per il loro salvataggio.
Le misure estreme da prendere - estreme perché ormai è già tardi - sono quelle di inviare dei missili ben mirati che frantumino l'iceberg della finanza e del gruppo di potere che ha pilotato l'Europa dalla zona dell'Ue alla zona della Grande Germania. Il primo missile, che potrebbe partire dall'Italia, è quello di nazionalizzare le grandi banche nazionali togliendogli ogni ruolo nel campo del credito e del controllo finanziario, mettendole in liquidazione mediante il trasferimento delle loro funzioni al sistema del credito cooperativo e popolare nelle sue varie forme assunte dal credito locale.
Questa è la vera liberalizzazione da fare smettendola con il fumo dei fuochi d'artificio dei taxisti e delle farmacie. Il secondo missile va diretto alla Banca d'Italia e Banca centrale europea, uffici regionali della Goldman Sachs, restituendo il controllo e la sovranità monetaria ai governi dei paesi e ai rispettivi «Ministeri del tesoro pubblico».
Il terzo missile - lasciamolo ai francesi che di omicidi mirati se ne intendono come hanno dimostrato da ultimo in Libia - deve colpire le società di rating, accecando così il sistema di rilevazione e di pilotaggio della speculazione, e i paradisi fiscali che sono i centri di benessere della speculazione. Queste società vanno bandite dall'Europa (la guardia di finanza e l'antimafia potrebbero prendersi carico del compito unificando così la lotta all'evasione con quella alla mafia), e le Borse che ne seguono gli indirizzi vanno immediatamente «sospese» come si fa normalmente quando interviene una disturbativa d'asta a scopo speculativo.
Il quarto missile non deve contenere una bomba, ma un annuncio ai cittadini europei che il debito sovrano va riportato dentro i confini dei vari paesi con l'annullamento di tutti gli impegni su titoli ceduti a tassi che superano il corretto interesse bancario (2,5-3 % max), e collocandoli tra i propri cittadini con un prestito nazionale solidale così come fu fatto in Italia con il «prestito per la ricostruzione» del dopoguerra. Cessioni di titoli al prestito internazionale devono essere contrattati a livello dei governi dei vari paesi, dentro norme e costi concordati in modo trasparente e con la garanzia solidale dell'Ue.
Le ricchezze così recuperate devono costituire la base di un nuovo patto sociale tra i paesi europei che preveda, insieme alla ricostituzione di un «serpente monetario flessibile», quella di una «divisione europea del lavoro» che metta al bando le mire di competizione e rivalità neocoloniali della vecchia Europa, sia dentro che fuori dei suoi confini, e ne fissi invece le scelte produttive dentro un programma di cooperazione internazionale che parta dal riconoscimento delle priorità di crescita e organizzazione sociale, concordate in modo sinergico con le grandi aree mondiali (Asia, America latina, Africa, ecc.). Questa può essere la base per una riorganizzazione delle istituzioni europee che avvii un reale processo d'istituzione dell'Europa federale. Un programma minimo, senza il quale i cittadini europei, colori che si salveranno dall'inabissamento della nave Euro saranno ridotti al ruolo di lavavetri di una nave sul fondo del Mediterraneo.
* Centro studi Federico Caffè
22.6.11
Il potere della verità
di Barbara Spinelli (da Repubblica)
Man mano che si moltiplicano crisi e bancarotte degli Stati, crescono in Europa le rivolte degli indignati: in Grecia, Spagna, anche in Italia dove il tracollo è per ora solo temuto. I governi tendono a vedere il lato oscuro delle rivolte: il faticoso riconoscimento della realtà, la rabbia quasi cieca. Ma la cecità spiega in piccola parte una ribellione che ha come bersaglio non solo i contenuti, ma le forme di comportamento (dunque l'etica) dei governi: l'abitudine a una vista sempre corta, abbarbicata al prossimo voto o sondaggio; la vocazione a nascondere conti squassati. A non dire la verità su immigrazione o deficit, ad accusare i giornali, le Banche centrali, l'Europa: tutti sospettati di spandere brutte notizie.
L'Italia in questo è all'avamposto. Da quando è tornato al governo, Berlusconi ripete lo stesso ritornello: lo squasso è nelle vostre teste disfattiste, noi ce la facciamo meglio di tanti paesi virtuosi. Lunedì ha detto d'un tratto, ai microfoni: «La crisi non è finita». Non ne aveva mai annunciato l'inizio. Come si spiega l'allarme dei mercati sulla nostra economia e sulla paralisi governativa, se le cose andavano nel migliore dei modi? Il governo se lo spiega probabilmente con le gag del ministro Brunetta: se milioni di precari sono «l'Italia peggiore», vuol dire che c'è del marcio in chi soffre la crisi invece di creare ricchezza.
Non dimentichiamo che una delle iniziative più trascinanti degli indignados spagnoli concerne l'informazione. L'ha presa Antòn Losada, professore di Scienze politiche, e s'intitola "Sinpreguntasnocobertura" (senza domande niente copertura). Migliaia di giornalisti hanno aderito. Se una conferenza stampa non ammette quesiti scomodi sarà boicottata, e il potere resterà solo con i suoi barcollanti giuramenti. È segno che nelle rivolte c'è una domanda, possente, di verità e giustizia. Alla crisi non si risponde solo imponendo la cinghia più stretta, e instillando nel popolo paure incongrue. Si risponde con la trasparenza d'informazioni: sulle tasse che non si possono abbassare, sul calo demografico che solo l'immigrazione frenerà, sugli ingredienti della crescita che sono la giustizia, la legalità, il merito, il prezzo che possono pagare i più fortunati e ricchi.
Alle rivolte generate dalla crisi, i governanti italiani reagiscono con tagli che colpiscono tutti indiscriminatamente, e soprattutto con false promesse. Tremonti stesso, oggi considerato uomo del rigore, ha mal tollerato lungo gli anni i moniti della Banca d'Italia, permettendo che nella Lega e nella destra montasse l'irresponsabilità. In un editoriale di mercoledì sul giornale greco Kathimerini, il direttore Nikos Konstandaras parla del «fascino impossibile della solitudine»: è l'illusione che la crisi non scoppierà, se gli Stati chiudono gli occhi all'Europa, al mondo, ai mercati. Certo, i mercati sono strane bestie: possono scatenarsi istericamente - hanno sete di sangue - e in questo non sono molto diversi dai militanti leghisti che reclamano meno tasse e secessione (verso quale paese del balocchi, dove non ti chiedono nulla ed è sempre domenica?). Hanno la vista corta, ma non anticipano del tutto a casaccio le catastrofi: scattano foto istantanee di governi istantanei, e ne traggono conclusioni. Accanto all'urna elettorale, sono un nostro secondo tribunale. Saranno loro, se non lo fanno altri, ad «aprire la crisi»: quella vera, che screditerà Berlusconi, che sfiderà anche l'opposizione, e metterà a nudo la presente non-politica italiana.
Giacché non è politica nascondersi, fingersi Stati sovrani che decidono da soli, ignorare l'esistenza di uno spazio pubblico europeo verso cui siamo responsabili come verso la nazione. Esiste ormai una res publica che oltrepassa i nostri confini, che ha sue regole, e i cui dirigenti non sono emanazioni dei governi ma rispondono a geografie più vaste. Valga come esempio la nomina di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea. Una scelta ineccepibile, ma fatta nella più sgangherata e vecchia delle maniere. In cambio della nomina, Sarkozy ha chiesto che venisse liberato un posto per Parigi nell'esecutivo Bce e Berlusconi gli ha dato la testa di Lorenzo Bini Smaghi, come se quest'ultimo fosse un suo uomo, non un dirigente dell'Unione. Il mandato di Bini Smaghi, prescelto nel 2005 per otto anni, scade il 31-5-2013 e non può esser revocato né da Stati né da accordi tra Stati. Non è uno schiaffo a lui, ma alle istituzioni europee verso cui va la sua lealtà. Il caso crea peraltro un precedente ominoso: ogni governo potrà decidere da ora in poi di sottrarre mandati e regole alla giurisdizione europea.
La reazione di Bini Smaghi è stata rigorosa, da questo punto di vista. In un discorso tenuto in Vaticano su etica e affari, il 16 giugno, ha spiegato la ferita alle istituzioni europee con parole chiare e vere: «Non è un caso che i banchieri centrali abbiano adottato come loro protettore San Tommaso Moro, che con la sua indipendenza di giudizio e la ferma convinzione nella supremazia dell'interesse pubblico riuscì a resistere alle pressioni del Re Enrico VIII, del quale era stato il più stretto consigliere (...) fino ad essere costretto alle dimissioni, incarcerato e condannato a morte». Tommaso Moro volle servire Dio piuttosto che il re cui prima sottostava. L'interesse pubblico cui allude Bini Smaghi è quello, superiore agli Stati, dell'Unione: è solo quest'ultima a poterlo «dimettere». La violazione del Trattato di Maastricht, giustificata con la presunta «regola non scritta tra gli Stati», è palese. Anche Mario Monti, ex commissario europeo, ha mostrato irritazione: il governo, ha detto domenica a Lucia Annunziata, si è comportato in modo «dilettantesco» e «paradossale», disponendo di Bini Smaghi come di una propria pedina («Le decisioni spettano a Bini Smaghi e alla sua coscienza. È sbagliato aspettarsi giuridicamente e moralmente che avrebbe dato le dimissioni, se non si è parlato prima con lui di questo tema»).
Anche qui, sono mancati informazione trasparente e riconoscimento dello spazio pubblico europeo. Così come non c'è trasparenza sulle tasse che non si possono abbassare, sull'immigrazione di cui abbiamo bisogno, economicamente e demograficamente. È stato calcolato che i flussi migratori si eleveranno a 4,4 milioni nel 2011, che supereranno 8 milioni nel 2031 e 10 nel 2051: « Il valore finale - scrive l'economista Nicola Sartor - è inferiore di 8 milioni a quanto necessario, secondo l'Onu, a compensare la flessione della popolazione nazionale in età attiva» (Invecchiamento, immigrazione, economia, Il Mulino 2010).
Gran parte degli equivoci sono imputabili all'Unione: all'inerzia dei suoi dirigenti, succubi degli Stati. Ancora una volta, è il parlar vero che manca: è per un eccesso di false cortesie e per l'assurda deferenza verso i grandi Paesi che l'Europa è giunta alle odierne bancarotte, scrive Monti in un illuminante articolo sul Financial Times di ieri. Sono tante le politiche su cui l'Unione potrebbe far valere la sua parola: a cominciare dalle missioni di guerra, abusivamente dette «di pace». L'articolo 11 della nostra Costituzione, quello che ripudia la guerra, prevede limitazioni volontarie della sovranità nazionale e azioni congiunte con organi internazionali. Le guerre che sta consentendo andrebbero oggi ridiscusse dall'Europa, alla luce di una politica Usa che comincia a trattare unilateralmente con i talebani e a dubitare dell'utilità della Nato.
Una Commissione europea autonoma, conscia della propria autorità, reagirebbe a tutti questi eventi (caso Bini Smaghi, debiti sovrani, guerre) come ai tempi di Walter Hallstein. Il primo capo dell'esecutivo di Bruxelles non esitò a confutare De Gaulle, alla fine degli anni ‘60, in nome della nascente res publica europea. Fu un «perdente designato», scrive lo storico Corrado Malandrino in una bella biografia pubblicata dal Mulino: ma ci sono sconfitte che salvano, se le si vuol salvare, le istituzioni umiliate.
Man mano che si moltiplicano crisi e bancarotte degli Stati, crescono in Europa le rivolte degli indignati: in Grecia, Spagna, anche in Italia dove il tracollo è per ora solo temuto. I governi tendono a vedere il lato oscuro delle rivolte: il faticoso riconoscimento della realtà, la rabbia quasi cieca. Ma la cecità spiega in piccola parte una ribellione che ha come bersaglio non solo i contenuti, ma le forme di comportamento (dunque l'etica) dei governi: l'abitudine a una vista sempre corta, abbarbicata al prossimo voto o sondaggio; la vocazione a nascondere conti squassati. A non dire la verità su immigrazione o deficit, ad accusare i giornali, le Banche centrali, l'Europa: tutti sospettati di spandere brutte notizie.
L'Italia in questo è all'avamposto. Da quando è tornato al governo, Berlusconi ripete lo stesso ritornello: lo squasso è nelle vostre teste disfattiste, noi ce la facciamo meglio di tanti paesi virtuosi. Lunedì ha detto d'un tratto, ai microfoni: «La crisi non è finita». Non ne aveva mai annunciato l'inizio. Come si spiega l'allarme dei mercati sulla nostra economia e sulla paralisi governativa, se le cose andavano nel migliore dei modi? Il governo se lo spiega probabilmente con le gag del ministro Brunetta: se milioni di precari sono «l'Italia peggiore», vuol dire che c'è del marcio in chi soffre la crisi invece di creare ricchezza.
Non dimentichiamo che una delle iniziative più trascinanti degli indignados spagnoli concerne l'informazione. L'ha presa Antòn Losada, professore di Scienze politiche, e s'intitola "Sinpreguntasnocobertura" (senza domande niente copertura). Migliaia di giornalisti hanno aderito. Se una conferenza stampa non ammette quesiti scomodi sarà boicottata, e il potere resterà solo con i suoi barcollanti giuramenti. È segno che nelle rivolte c'è una domanda, possente, di verità e giustizia. Alla crisi non si risponde solo imponendo la cinghia più stretta, e instillando nel popolo paure incongrue. Si risponde con la trasparenza d'informazioni: sulle tasse che non si possono abbassare, sul calo demografico che solo l'immigrazione frenerà, sugli ingredienti della crescita che sono la giustizia, la legalità, il merito, il prezzo che possono pagare i più fortunati e ricchi.
Alle rivolte generate dalla crisi, i governanti italiani reagiscono con tagli che colpiscono tutti indiscriminatamente, e soprattutto con false promesse. Tremonti stesso, oggi considerato uomo del rigore, ha mal tollerato lungo gli anni i moniti della Banca d'Italia, permettendo che nella Lega e nella destra montasse l'irresponsabilità. In un editoriale di mercoledì sul giornale greco Kathimerini, il direttore Nikos Konstandaras parla del «fascino impossibile della solitudine»: è l'illusione che la crisi non scoppierà, se gli Stati chiudono gli occhi all'Europa, al mondo, ai mercati. Certo, i mercati sono strane bestie: possono scatenarsi istericamente - hanno sete di sangue - e in questo non sono molto diversi dai militanti leghisti che reclamano meno tasse e secessione (verso quale paese del balocchi, dove non ti chiedono nulla ed è sempre domenica?). Hanno la vista corta, ma non anticipano del tutto a casaccio le catastrofi: scattano foto istantanee di governi istantanei, e ne traggono conclusioni. Accanto all'urna elettorale, sono un nostro secondo tribunale. Saranno loro, se non lo fanno altri, ad «aprire la crisi»: quella vera, che screditerà Berlusconi, che sfiderà anche l'opposizione, e metterà a nudo la presente non-politica italiana.
Giacché non è politica nascondersi, fingersi Stati sovrani che decidono da soli, ignorare l'esistenza di uno spazio pubblico europeo verso cui siamo responsabili come verso la nazione. Esiste ormai una res publica che oltrepassa i nostri confini, che ha sue regole, e i cui dirigenti non sono emanazioni dei governi ma rispondono a geografie più vaste. Valga come esempio la nomina di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea. Una scelta ineccepibile, ma fatta nella più sgangherata e vecchia delle maniere. In cambio della nomina, Sarkozy ha chiesto che venisse liberato un posto per Parigi nell'esecutivo Bce e Berlusconi gli ha dato la testa di Lorenzo Bini Smaghi, come se quest'ultimo fosse un suo uomo, non un dirigente dell'Unione. Il mandato di Bini Smaghi, prescelto nel 2005 per otto anni, scade il 31-5-2013 e non può esser revocato né da Stati né da accordi tra Stati. Non è uno schiaffo a lui, ma alle istituzioni europee verso cui va la sua lealtà. Il caso crea peraltro un precedente ominoso: ogni governo potrà decidere da ora in poi di sottrarre mandati e regole alla giurisdizione europea.
La reazione di Bini Smaghi è stata rigorosa, da questo punto di vista. In un discorso tenuto in Vaticano su etica e affari, il 16 giugno, ha spiegato la ferita alle istituzioni europee con parole chiare e vere: «Non è un caso che i banchieri centrali abbiano adottato come loro protettore San Tommaso Moro, che con la sua indipendenza di giudizio e la ferma convinzione nella supremazia dell'interesse pubblico riuscì a resistere alle pressioni del Re Enrico VIII, del quale era stato il più stretto consigliere (...) fino ad essere costretto alle dimissioni, incarcerato e condannato a morte». Tommaso Moro volle servire Dio piuttosto che il re cui prima sottostava. L'interesse pubblico cui allude Bini Smaghi è quello, superiore agli Stati, dell'Unione: è solo quest'ultima a poterlo «dimettere». La violazione del Trattato di Maastricht, giustificata con la presunta «regola non scritta tra gli Stati», è palese. Anche Mario Monti, ex commissario europeo, ha mostrato irritazione: il governo, ha detto domenica a Lucia Annunziata, si è comportato in modo «dilettantesco» e «paradossale», disponendo di Bini Smaghi come di una propria pedina («Le decisioni spettano a Bini Smaghi e alla sua coscienza. È sbagliato aspettarsi giuridicamente e moralmente che avrebbe dato le dimissioni, se non si è parlato prima con lui di questo tema»).
Anche qui, sono mancati informazione trasparente e riconoscimento dello spazio pubblico europeo. Così come non c'è trasparenza sulle tasse che non si possono abbassare, sull'immigrazione di cui abbiamo bisogno, economicamente e demograficamente. È stato calcolato che i flussi migratori si eleveranno a 4,4 milioni nel 2011, che supereranno 8 milioni nel 2031 e 10 nel 2051: « Il valore finale - scrive l'economista Nicola Sartor - è inferiore di 8 milioni a quanto necessario, secondo l'Onu, a compensare la flessione della popolazione nazionale in età attiva» (Invecchiamento, immigrazione, economia, Il Mulino 2010).
Gran parte degli equivoci sono imputabili all'Unione: all'inerzia dei suoi dirigenti, succubi degli Stati. Ancora una volta, è il parlar vero che manca: è per un eccesso di false cortesie e per l'assurda deferenza verso i grandi Paesi che l'Europa è giunta alle odierne bancarotte, scrive Monti in un illuminante articolo sul Financial Times di ieri. Sono tante le politiche su cui l'Unione potrebbe far valere la sua parola: a cominciare dalle missioni di guerra, abusivamente dette «di pace». L'articolo 11 della nostra Costituzione, quello che ripudia la guerra, prevede limitazioni volontarie della sovranità nazionale e azioni congiunte con organi internazionali. Le guerre che sta consentendo andrebbero oggi ridiscusse dall'Europa, alla luce di una politica Usa che comincia a trattare unilateralmente con i talebani e a dubitare dell'utilità della Nato.
Una Commissione europea autonoma, conscia della propria autorità, reagirebbe a tutti questi eventi (caso Bini Smaghi, debiti sovrani, guerre) come ai tempi di Walter Hallstein. Il primo capo dell'esecutivo di Bruxelles non esitò a confutare De Gaulle, alla fine degli anni ‘60, in nome della nascente res publica europea. Fu un «perdente designato», scrive lo storico Corrado Malandrino in una bella biografia pubblicata dal Mulino: ma ci sono sconfitte che salvano, se le si vuol salvare, le istituzioni umiliate.
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18.6.10
Il bluff europeo della tassa alle banche
di Galapagos (ilManifesto)
«L'Europa non ha anima», ha detto l'economista francese Jean Paul Fitoussi ieri al termine di una audizione in commissione Bilancio della Camera. E ha spiegato: «ll problema dell'Europa sta nel fatto che abbiamo creato una zona economica senz'anima, senza governo e senza democrazia vera: questo conduce a politiche sbagliate perché abbiamo solo un bene comune, la moneta, senza avere un governo. Anzi, al contrario, abbiamo competizione tra i Paesi dell'euro e questa si fa al ribasso ed è un dramma perché stiamo entrando in una situazione di deflazione». Quello che è accaduto ieri conferma la giustezza dell'analisi.
Vale la pena partire dal Consiglio d'Europa, massima espressione politica della Ue, che ieri doveva trovare una posizione comune sulla introduzione di una imposta sulle transazioni finanziarie e su una tassazione del sistema bancario. Provvedimenti da presentare al prossimo G20 di Toronto. È finita con un brutto compromesso. In particolare, la tassa sulle banche è un «optional», nel senso che gli stati dovrebbero in ordine sparso introdurre meccanismi di prelievo sulle istituzioni finanziarie per garantire una divisione degli oneri della crisi. Una crisi, vale la pena ricordarlo, generata dalle stesse istituzioni finanziarie, ma che finora è stata pagata a piè di lista dalle finanze pubbliche, ovvero da tutti i cittadini. Creare un fondo finanziato dalle stesse banche era una idea niente affatto estremista, ma solo di buon senso. Ma il provvedimento vincolante per tutti non è passato, sembra a causa dell'atteggiamento intransigente della Gran Bretagna, uno dei paesi i cui cittadini hanno più sofferto per la crisi finanziaria e che ora soffriranno ancora di più per i tagli allo stato sociale e agli investimenti pubblici. Fitoussi ha fatto un'altra giusta affermazione quando dice che «stiamo entrando in una fase di deflazione». La conferma è arrivata ieri dal «Bollettino mensile» della Bce, che parla di un fase di crescita con «incremento moderato» a causa dei processi di «aggiustamento dei bilanci» e dalle «prospettive di debolezza del mercato dei lavoro». Questo potrebbe portare nel prossimo anno a una crescita ancora più bassa di quella prevista per quest'anno e non per merito dei paesi europei, ma per il sostegno alla domanda che arriva dagli altri paesi. La Bce spiega anche che la crescita moderata nell'area dell'euro è causata da «perduranti tensioni in alcuni segmenti dei mercati finanziari» e da «un livello insolitamente elevato di incertezza». Normalmente, come sosteneva Lorenzo dei Medici, «del doman non v'è certezza», figuriamoci oggi che la percezione comune è di una profonda instabilità e di occupazione che non si trova.
Ci sono poi le «perduranti tensioni finanziarie». Questo dovrebbe obbligare la Ue e il G20 a varare manovre che mettano sotto controllo la speculazione, ma a parte il divieto di vendite allo scoperto varato dalla Merkel nulla è stato fatto non solo perché tra gli stati gli interessi confliggono. Nulla è stato fatto perché le banche sulla speculazione campano, come ci hanno spiegato i dati Usa apparsi alcuni giorni fa, ma ignorati dalla stampa italiana (con l'eccezione de il sole 24 ore e de il manifesto) indicano in oltre 210 mila miliardi di dollari le operazioni sui derivati nel 2009. Operazioni di carta che non danno plusvalore all'economia reale, ma sono in grado di destabilizzarla. Siamo in una situazione di caos. Gli stati, consapevoli di vivere una fase tremenda, non trovano strumenti comuni per affrontarla con strumenti di controllo più stringenti, tasse anti speculazione e rilanciare gli investimenti pubblici. Perché questo contrasta con l'ideologia dominante. Ne è la prova un'affermazione della Bce che parla dell'importanza delle riforme strutturali. Per poi spiegare che la prima vera riforma è rendere il salario una variabile dipendente del capitale e richiedere «aggiustamenti», cioè diminuzioni a seconda dell'andamento della congiuntura e dell'occupazione. Diminuire i salari e aumentare lo sfruttamento per rilanciare l'economia non serve, soprattutto quando il comportamento diventa generalizzato e amplia lo spazio tra chi è ricco e chi no. D'altronde l'economia è una «triste scienza» che non pone al centro le persone.
«L'Europa non ha anima», ha detto l'economista francese Jean Paul Fitoussi ieri al termine di una audizione in commissione Bilancio della Camera. E ha spiegato: «ll problema dell'Europa sta nel fatto che abbiamo creato una zona economica senz'anima, senza governo e senza democrazia vera: questo conduce a politiche sbagliate perché abbiamo solo un bene comune, la moneta, senza avere un governo. Anzi, al contrario, abbiamo competizione tra i Paesi dell'euro e questa si fa al ribasso ed è un dramma perché stiamo entrando in una situazione di deflazione». Quello che è accaduto ieri conferma la giustezza dell'analisi.
Vale la pena partire dal Consiglio d'Europa, massima espressione politica della Ue, che ieri doveva trovare una posizione comune sulla introduzione di una imposta sulle transazioni finanziarie e su una tassazione del sistema bancario. Provvedimenti da presentare al prossimo G20 di Toronto. È finita con un brutto compromesso. In particolare, la tassa sulle banche è un «optional», nel senso che gli stati dovrebbero in ordine sparso introdurre meccanismi di prelievo sulle istituzioni finanziarie per garantire una divisione degli oneri della crisi. Una crisi, vale la pena ricordarlo, generata dalle stesse istituzioni finanziarie, ma che finora è stata pagata a piè di lista dalle finanze pubbliche, ovvero da tutti i cittadini. Creare un fondo finanziato dalle stesse banche era una idea niente affatto estremista, ma solo di buon senso. Ma il provvedimento vincolante per tutti non è passato, sembra a causa dell'atteggiamento intransigente della Gran Bretagna, uno dei paesi i cui cittadini hanno più sofferto per la crisi finanziaria e che ora soffriranno ancora di più per i tagli allo stato sociale e agli investimenti pubblici. Fitoussi ha fatto un'altra giusta affermazione quando dice che «stiamo entrando in una fase di deflazione». La conferma è arrivata ieri dal «Bollettino mensile» della Bce, che parla di un fase di crescita con «incremento moderato» a causa dei processi di «aggiustamento dei bilanci» e dalle «prospettive di debolezza del mercato dei lavoro». Questo potrebbe portare nel prossimo anno a una crescita ancora più bassa di quella prevista per quest'anno e non per merito dei paesi europei, ma per il sostegno alla domanda che arriva dagli altri paesi. La Bce spiega anche che la crescita moderata nell'area dell'euro è causata da «perduranti tensioni in alcuni segmenti dei mercati finanziari» e da «un livello insolitamente elevato di incertezza». Normalmente, come sosteneva Lorenzo dei Medici, «del doman non v'è certezza», figuriamoci oggi che la percezione comune è di una profonda instabilità e di occupazione che non si trova.
Ci sono poi le «perduranti tensioni finanziarie». Questo dovrebbe obbligare la Ue e il G20 a varare manovre che mettano sotto controllo la speculazione, ma a parte il divieto di vendite allo scoperto varato dalla Merkel nulla è stato fatto non solo perché tra gli stati gli interessi confliggono. Nulla è stato fatto perché le banche sulla speculazione campano, come ci hanno spiegato i dati Usa apparsi alcuni giorni fa, ma ignorati dalla stampa italiana (con l'eccezione de il sole 24 ore e de il manifesto) indicano in oltre 210 mila miliardi di dollari le operazioni sui derivati nel 2009. Operazioni di carta che non danno plusvalore all'economia reale, ma sono in grado di destabilizzarla. Siamo in una situazione di caos. Gli stati, consapevoli di vivere una fase tremenda, non trovano strumenti comuni per affrontarla con strumenti di controllo più stringenti, tasse anti speculazione e rilanciare gli investimenti pubblici. Perché questo contrasta con l'ideologia dominante. Ne è la prova un'affermazione della Bce che parla dell'importanza delle riforme strutturali. Per poi spiegare che la prima vera riforma è rendere il salario una variabile dipendente del capitale e richiedere «aggiustamenti», cioè diminuzioni a seconda dell'andamento della congiuntura e dell'occupazione. Diminuire i salari e aumentare lo sfruttamento per rilanciare l'economia non serve, soprattutto quando il comportamento diventa generalizzato e amplia lo spazio tra chi è ricco e chi no. D'altronde l'economia è una «triste scienza» che non pone al centro le persone.
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5.2.10
Stiglitz: "Fanno soldi sul disastro che loro hanno creato"
Il Nobel per l'Economia: paradosso assurdo,
colpa degli speculatori che prendono di mira i governi più deboli
STEFANO LEPRI
«E' un paradosso assurdo, da voi in Europa - si infervora Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia 2001 - una ironia della storia. Non lo vede? I governi hanno contratto molti debiti per salvare il sistema finanziario, le banche centrali tengono i tassi bassi per aiutarlo a riprendersi oltre che per favorire la ripresa. E la grande finanza che cosa fa? Usa i bassi tassi di interesse per speculare contro i governi indebitati. Riescono a far denaro sul disastro che loro stessi hanno creato».
Che può succedere ora?
«Aspetti. Non è finita qui. I governi varano misure di austerità per ridurre l’indebitamento. I mercati decidono che non sono sufficienti e speculano al ribasso sui loro titoli. Così i governi sono costretti a misure di austerità aggiuntive. La gente comune perde ancora di più, la grande finanza guadagna ancora di più. La morale della favola è: colpevoli premiati, innocenti puniti».
Come si può rimediare?
«Tre punti. Primo: niente denaro alla speculazione. Negli Stati Uniti come in Europa, bisogna fare nuove regole per le banche. Devono finanziare le imprese produttive, non gli hedge funds. Bisogna impedirgli di speculare».
Una parola. Se è il governo a dirigere il credito, il rischio è di distribuirlo ancora peggio.
«Non credo. Secondo me si può e si deve intervenire. Punto secondo: bisogna imporre tasse molto alte sui guadagni di capitale. Oggi è più vantaggioso speculare che lavorare per vivere. Deve tornare ad essere il contrario».
E poi?
«Punto terzo: in Europa dovete appoggiare i governi in difficoltà».
Si rischia di premiare i politici che governano male.
«No. La prova la dà la Spagna. Oggi è in difficoltà senza aver fatto errori. Il governo aveva un bilancio in attivo fino all’altr’anno; la Banca centrale ha sorvegliato le banche molto bene, tanto che viene citata ad esempio nel mondo. Che colpa hanno? Certo, anche loro hanno visto crescere la bolla, nel mercato immobiliare, e non l’hanno fermata. Ma è l’errore che hanno fatto tutti. Era nello spirito dei tempi. Lo ispirava l’ideologia neo-liberista che ha dominato per molti anni».
In Grecia però hanno sbagliato. Hanno anche truccato i conti.
«Non l’attuale governo, il precedente. Sono stati colpiti dalla crisi della navigazione commerciale, settore importante per loro, e dal calo del turismo. Insomma, perché dobbiamo costringere la gente a fare ancora più sacrifici, se non ha colpa?».
Il debito c’è. Prima o poi gli Stati dovranno ripagarlo.
«Ma perché mai dobbiamo dare retta ai mercati? I mercati non si comportano in maniera razionale, lo abbiamo visto nel modo in cui si è prodotta la crisi. Allora perché mai dovrebbero avere ragione, nel chiedere ancora più sacrifici ai cittadini di quei paesi? In più, anche se la avessero, si comportano in maniera troppo erratica. E per finire, qui è in corso un attacco speculativo: non è che se uno fa bene non lo colpiscono, è che se ti possono far fuori ti fanno fuori».
Come possiamo fare, in Europa?
«Dovete costruire dei meccanismi di solidarietà fra Stati. L’Unione deva avere più risorse a disposizione. Si spendono un sacco di soldi per la politica agricola comune, che è uno spreco, mentre...»
Si potrebbero emettere dei titoli europei, gli Eurobonds.
«Certo. E poi occorre tassare le attività nocive. Soprattutto due: la finanza e le emissioni di anidride carbonica. Anche negli Stati Uniti».
Obama riuscirà a imporsi alle banche?
«Sarà una lunga battaglia. Ma la rabbia della gente è forte, e il presidente lo sa. I banchieri hanno contro tutto il resto della popolazione».
Il Congresso è riluttante.
«Spero che non si debba arrivare ad un’altra crisi, prima di riuscire a mettere la finanza sotto controllo. Sarebbe davvero triste. Pensi a quanto danno hanno causato. Lo sa che secondo le rpevisioni del Cbo, l’Ufficio bilancio del Congresso, la disoccupazione comincerà a diminuire sono a metà del decennio? Queste sono cose che restano a lungo nella memoria della gente».
colpa degli speculatori che prendono di mira i governi più deboli
STEFANO LEPRI
«E' un paradosso assurdo, da voi in Europa - si infervora Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia 2001 - una ironia della storia. Non lo vede? I governi hanno contratto molti debiti per salvare il sistema finanziario, le banche centrali tengono i tassi bassi per aiutarlo a riprendersi oltre che per favorire la ripresa. E la grande finanza che cosa fa? Usa i bassi tassi di interesse per speculare contro i governi indebitati. Riescono a far denaro sul disastro che loro stessi hanno creato».
Che può succedere ora?
«Aspetti. Non è finita qui. I governi varano misure di austerità per ridurre l’indebitamento. I mercati decidono che non sono sufficienti e speculano al ribasso sui loro titoli. Così i governi sono costretti a misure di austerità aggiuntive. La gente comune perde ancora di più, la grande finanza guadagna ancora di più. La morale della favola è: colpevoli premiati, innocenti puniti».
Come si può rimediare?
«Tre punti. Primo: niente denaro alla speculazione. Negli Stati Uniti come in Europa, bisogna fare nuove regole per le banche. Devono finanziare le imprese produttive, non gli hedge funds. Bisogna impedirgli di speculare».
Una parola. Se è il governo a dirigere il credito, il rischio è di distribuirlo ancora peggio.
«Non credo. Secondo me si può e si deve intervenire. Punto secondo: bisogna imporre tasse molto alte sui guadagni di capitale. Oggi è più vantaggioso speculare che lavorare per vivere. Deve tornare ad essere il contrario».
E poi?
«Punto terzo: in Europa dovete appoggiare i governi in difficoltà».
Si rischia di premiare i politici che governano male.
«No. La prova la dà la Spagna. Oggi è in difficoltà senza aver fatto errori. Il governo aveva un bilancio in attivo fino all’altr’anno; la Banca centrale ha sorvegliato le banche molto bene, tanto che viene citata ad esempio nel mondo. Che colpa hanno? Certo, anche loro hanno visto crescere la bolla, nel mercato immobiliare, e non l’hanno fermata. Ma è l’errore che hanno fatto tutti. Era nello spirito dei tempi. Lo ispirava l’ideologia neo-liberista che ha dominato per molti anni».
In Grecia però hanno sbagliato. Hanno anche truccato i conti.
«Non l’attuale governo, il precedente. Sono stati colpiti dalla crisi della navigazione commerciale, settore importante per loro, e dal calo del turismo. Insomma, perché dobbiamo costringere la gente a fare ancora più sacrifici, se non ha colpa?».
Il debito c’è. Prima o poi gli Stati dovranno ripagarlo.
«Ma perché mai dobbiamo dare retta ai mercati? I mercati non si comportano in maniera razionale, lo abbiamo visto nel modo in cui si è prodotta la crisi. Allora perché mai dovrebbero avere ragione, nel chiedere ancora più sacrifici ai cittadini di quei paesi? In più, anche se la avessero, si comportano in maniera troppo erratica. E per finire, qui è in corso un attacco speculativo: non è che se uno fa bene non lo colpiscono, è che se ti possono far fuori ti fanno fuori».
Come possiamo fare, in Europa?
«Dovete costruire dei meccanismi di solidarietà fra Stati. L’Unione deva avere più risorse a disposizione. Si spendono un sacco di soldi per la politica agricola comune, che è uno spreco, mentre...»
Si potrebbero emettere dei titoli europei, gli Eurobonds.
«Certo. E poi occorre tassare le attività nocive. Soprattutto due: la finanza e le emissioni di anidride carbonica. Anche negli Stati Uniti».
Obama riuscirà a imporsi alle banche?
«Sarà una lunga battaglia. Ma la rabbia della gente è forte, e il presidente lo sa. I banchieri hanno contro tutto il resto della popolazione».
Il Congresso è riluttante.
«Spero che non si debba arrivare ad un’altra crisi, prima di riuscire a mettere la finanza sotto controllo. Sarebbe davvero triste. Pensi a quanto danno hanno causato. Lo sa che secondo le rpevisioni del Cbo, l’Ufficio bilancio del Congresso, la disoccupazione comincerà a diminuire sono a metà del decennio? Queste sono cose che restano a lungo nella memoria della gente».
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14.9.09
Intervista a Joseph Stiglitz - "Stiamo peggio di un anno fa. Servono regole"
di Molinari Maurizio
Il Nobel: il sistema è rimasto fragile e le banche sono ancora più grosse
Servono nuove regole e in fretta, oggi a Wall Street la situazione è peggiore rispetto a un anno fa». Il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz dà un giudizio severo su quanto avvenuto dall’indomani del crollo della banca di investimenti Lehman Brothers: «Sembra che non abbiamo imparato nulla».
Perché ritiene che la situazione sia peggiorata?
«Per il semplice motivo che in America abbiamo banche assai più grandi di quelle che c’erano un anno fa mentre non abbiamo varato le regole necessarie per garantire una maggiore protezione del denaro dei risparmiatori e degli investitori».
Partiamo dalle banche «troppo grandi per fallire».
«Sono il pericolo più evidente. L’idea di avere delle banche "troppo grandi per fallire" si è rivelata nella crisi dello scorso anno il vero tallone d’Achille del nostro sistema finanziario. Hanno avuto comportamenti ad alto rischio. Ma cosa è avvenuto dopo la caduta di Lehman Brothers? Anziché farle diminuire di numero e dimensione, sono aumentate. Ci troviamo adesso di fronte a quattro-cinque istituti finanziari giganteschi, le cui dimensioni tengono in ostaggio l’intero sistema finanziario. E continuano a crescere, sommando percentuali da capogiro della quantità di mutui erogati e carte di credito emesse».
Qual è il problema connesso all’eccesso di dimensioni?
«L’assenza di controlli. Le dimensioni sono tali da renderli impossibili e il tutto si riduce a un assegno in bianco sulla gestione che, di fatto, gli viene dato dai regolatori. Aprendo la strada a eccessi, errori e sbandamenti che mettono a rischio i soldi degli investitori e la tenuta dell’economia».
Quali regole sarebbero necessarie?
«Quelle di cui il governo e la Federal Reserve parlano da tempo ma che continuano a non esistere e, anche quando ci sono, a non essere applicate. Servono maggiori controlli sui bilanci, sulle transazioni, sui movimenti, soprattutto a garanzie della liquidità delle banche. Ciò che portò al fallimento di Lehman Brothers fu l’eccesso e la simultaneità di tutte queste mancanze. Ebbene da allora è cambiato davvero poco».
Fu un errore far crollare la banca di Lehman Brothers?
«Avrebbero potuto esservi altre soluzioni. Si sarebbe potuto intervenire in maniera da scongiurare il rischio della crisi finanziaria che venne innescata da quel crollo. La scelta fatta all’epoca fu frettolosa, compiuta sotto la pressione del momento al fine di mandare un segnale a Wall Street sul fatto che gli eccessi del passato non sarebbero più stati consentiti. In realtà è avvenuto il contrario. Dunque sarebbe stato meglio evitare il crollo e intervenire con il bisturi per sanare le ferite finanziarie dove sono».
Dunque ritiene che nuovi crolli siano possibili?
«Certo che lo sono. Non c’è alcun dubbio in proposito. Siamo in una situazione di maggiore pericolo rispetto all’autunno 2008 perché il crollo di una delle banche "troppo banche per fallire" innescherebbe un terremoto di dimensioni maggiori. Il rischio che corriamo è che per salvare questi istituti finanziari potremmo trovarci presto nella condizione di dover sacrificare la riforma della Sanità oppure i fondi della "Social Security", la previdenza sociale. Il governo federale ha già immesso sul mercato volumi molto alti di denaro. In situazioni di pericolo potrebbe essere obbligato ad attingere alle risorse necessarie per realizzare le riforme di cui parla il presidente Obama».
Il Nobel: il sistema è rimasto fragile e le banche sono ancora più grosse
Servono nuove regole e in fretta, oggi a Wall Street la situazione è peggiore rispetto a un anno fa». Il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz dà un giudizio severo su quanto avvenuto dall’indomani del crollo della banca di investimenti Lehman Brothers: «Sembra che non abbiamo imparato nulla».
Perché ritiene che la situazione sia peggiorata?
«Per il semplice motivo che in America abbiamo banche assai più grandi di quelle che c’erano un anno fa mentre non abbiamo varato le regole necessarie per garantire una maggiore protezione del denaro dei risparmiatori e degli investitori».
Partiamo dalle banche «troppo grandi per fallire».
«Sono il pericolo più evidente. L’idea di avere delle banche "troppo grandi per fallire" si è rivelata nella crisi dello scorso anno il vero tallone d’Achille del nostro sistema finanziario. Hanno avuto comportamenti ad alto rischio. Ma cosa è avvenuto dopo la caduta di Lehman Brothers? Anziché farle diminuire di numero e dimensione, sono aumentate. Ci troviamo adesso di fronte a quattro-cinque istituti finanziari giganteschi, le cui dimensioni tengono in ostaggio l’intero sistema finanziario. E continuano a crescere, sommando percentuali da capogiro della quantità di mutui erogati e carte di credito emesse».
Qual è il problema connesso all’eccesso di dimensioni?
«L’assenza di controlli. Le dimensioni sono tali da renderli impossibili e il tutto si riduce a un assegno in bianco sulla gestione che, di fatto, gli viene dato dai regolatori. Aprendo la strada a eccessi, errori e sbandamenti che mettono a rischio i soldi degli investitori e la tenuta dell’economia».
Quali regole sarebbero necessarie?
«Quelle di cui il governo e la Federal Reserve parlano da tempo ma che continuano a non esistere e, anche quando ci sono, a non essere applicate. Servono maggiori controlli sui bilanci, sulle transazioni, sui movimenti, soprattutto a garanzie della liquidità delle banche. Ciò che portò al fallimento di Lehman Brothers fu l’eccesso e la simultaneità di tutte queste mancanze. Ebbene da allora è cambiato davvero poco».
Fu un errore far crollare la banca di Lehman Brothers?
«Avrebbero potuto esservi altre soluzioni. Si sarebbe potuto intervenire in maniera da scongiurare il rischio della crisi finanziaria che venne innescata da quel crollo. La scelta fatta all’epoca fu frettolosa, compiuta sotto la pressione del momento al fine di mandare un segnale a Wall Street sul fatto che gli eccessi del passato non sarebbero più stati consentiti. In realtà è avvenuto il contrario. Dunque sarebbe stato meglio evitare il crollo e intervenire con il bisturi per sanare le ferite finanziarie dove sono».
Dunque ritiene che nuovi crolli siano possibili?
«Certo che lo sono. Non c’è alcun dubbio in proposito. Siamo in una situazione di maggiore pericolo rispetto all’autunno 2008 perché il crollo di una delle banche "troppo banche per fallire" innescherebbe un terremoto di dimensioni maggiori. Il rischio che corriamo è che per salvare questi istituti finanziari potremmo trovarci presto nella condizione di dover sacrificare la riforma della Sanità oppure i fondi della "Social Security", la previdenza sociale. Il governo federale ha già immesso sul mercato volumi molto alti di denaro. In situazioni di pericolo potrebbe essere obbligato ad attingere alle risorse necessarie per realizzare le riforme di cui parla il presidente Obama».
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24.2.09
Gli Zombie del credito
(da La Repubblica)
PAUL KRUGMAN
Il collega Greenspan vuole che prendiamo possesso dei vertici dell'economia. Beh, non esattamente. Ciò che ha detto Alan Greenspan, ex presidente della Federal Re serve - nonché strenuo difensore del libero mercato - per la precisione è stato: «Potrebbe essere necessario procedere a una temporanea nazionalizzazione di alcune banche».
Privatizzarle con l'obiettivo di rendere più facile una loro ristrutturazione in tempi rapidi e con ordine». Condivido pienamente.
Gli argomenti validi adducibili a favore della nazionalizzazione si basano essenzialmente su tre osservazioni. La prima è che alcune banche di grosse proporzioni sono pericolosamente vicine al baratro, anzi, sarebbero già precipitate nell'abisso se gli investitori non avessero dato per scontato che sarebbe stato il governo a soccorrerli, qualora se ne fosse presentatala necessità. La seconda è che le banche devono essere salvate: il crollo della Lehman Brothers ha pressoché distrutto il sistema finanziario mondiale e non possiamo rischiare di lasciare che altri istituti ancora più importanti, come Citigroup o Bank of America, implodano su se stessi. La terza è che se da un lato è necessario salvare le banche, dall'altro il governo degli Stati Uniti non può permettersi, né da un punto di vista fiscale, né da un punto di vista politico, di elargire grossi regali agli azionisti delle banche.
Cerchiamo però di esser e pragmatici. Esistono ragionevoli possibilità - per quanto non si possa ancora parlare di certezze - che Citi (Citigroup) e BofA (Bank of America) possano perdere complessivamente entro i prossimi anni centinaia di miliardi di dollari. E i loro capitali, gli asset eccedenti i loro passivi, non sono nemmeno lontanamente sufficienti a coprire queste perdite presunte.
Forse, l’unica ragione per la quale non sono già fallite è che il governo sta fungendo da rete di contenimento, a garanzia implicita delle loro obbligazioni. Si tratta in ogni caso di banche-zombie, incapaci di fornire quel credito di cui necessita l'economia. Per porre fine al loro status di zombie, le banche hanno un bisogno vitale di maggiori capitali, che non possono attingere più da investitori privati: da qui la necessità che sia il governo a fornire i finanziamenti necessari.
Ecco il problema, però: i finanziamenti necessari a riportare pienamente in vita queste banche supererebbero di gran lunga per ammontare il loro stesso valore attuale. Citi e BofA hanno insieme un valore di mercato inferiore a 30 miliardi di dollari. In realtà, perfino questo presunto valore si basa principalmente (se non interamente) sulla speranza che gli azionisti ottengano una parte di ciò che il governo distribuirà sotto forma di sovvenzioni. Di conseguenza, se in sostanza il governo ci mette i soldi, in pratica dovrebbe in cambio ottenere la proprietà di questi istituti.
Ma la nazionalizzazione non era qualcosa di totalmente alieno all'America? Niente affatto: è americana tanto quanto la torta di mele. Negli ultimi tempi la Federai Deposit Insurance Corporation sta rilevando banche che reputa essere insolventi al ritmo di due a settimana. Quando la Fdic procede a tale operazione, si appropria degli asset negativi della banca, salda parte dei suoi debiti e rivende a investitori privati l'istituto bancario riassestato. Questo è esattamente ciò che i propugnatori della nazionalizzazione temporanea auspicano di veder realizzato, non soltanto nel caso delle piccole banche di cui la Fdic sta assumendo il controllo, ma anche delle grosse banche insolventi nello stesso modo.
La vera domanda da porsi è perché l'Amministrazione Obama continui a venirsene fuori con proposte che sembrano plausibili alternative al processo di nazionalizzazione, ma che in realtà si rivelano comportare ingenti sovvenzioni agli azionisti delle banche.
Per esempio, l'Amministrazione in un primo tempo aveva ventilato l'idea di offrire alle banche garanzie contro perdite o asset problematici. Ciò avrebbe rappresentato un gran bell'affare per gli azionisti delle banche, ma non altrettanto per il resto di noi: se esce testa vincono, se esce croce ci rimettono i contribuenti.
Adesso l'Amministrazione parla di una «partnership tra pubblico e privato» per acquisire asset problematici dalle banche. A tal fine, il governo dovrebbe prestare i soldi agli investitori del settore privato e ciò di fatto offrirebbe loro una "one-way bet", ovvero una scommessa a senso unico: se gli asset aumentano di prezzo, gli investitori ci guadagnano; se calano considerevolmente, gli investitori possono ritirarsi e lasciare che ad accollarsene l'onere sia il governo. Anche in questo caso dunque, se esce testa vincono, se esce croce ci rimettiamo in ogni caso noi.
Perché dunque non procedere direttamente alla nazionalizzazione? Sappiatelo: quanto più a lungo convivremo con queste banche-zombie, tanto più difficile sarà porre fine alla crisi economica.
Come dovrebbe svolgersi la nazionalizzazione? Tutto ciò che l'Amministrazione deve fare è prendere sul serio lo "stress test" da lei stessa messo a punto per le banche più grosse, e non occultarne i risultati quando una di esse non riesce a superare tale test, rendendo inevitabile la sua acquisizione. Ebbene sì, l'intera operazione riporterebbe vagamente alla mente Claude Rains, nei momento in cui un governo che da mesi puntella e sostiene le banche dovesse dichiararsi all'improvviso sconvolto e completamente sbigottito per la miserabile situazione dei loro bilanci.
Ma va bene così. Ancora una volta, l'obiettivo di tutto ciò non è che il governo acquisisca proprietà a lungo termine: al pari delle piccole banche rilevate di settimana in settimana dalla Fdic, le banche più grosse dovrebbero fare ritorno al controllo dei privati quanto prima possibile. Il blog di finanza Calculated Risk suggerisce di utilizzare il termine "pre-privatizzazione", invece di definire l'intero processo "nazionalizzazione".
L'Amministrazione Obama, dice Robert Gibbs, portavoce della Casa Bianca, crede che «il sistema giusto e corretto per procedere sia un sistema bancario di proprietà privata». Lo stesso crediamo noi tutti, ma per il momento per le mani non ci troviamo un'imprenditoria privata, bensì un socialismo-bidone: le banche ottengono benefici, ma i rischi li corrono i contribuenti. E tutto ciò significa una cosa soltanto: tenere in vita le banche-zombie, precludendo la ripresa economica.
Noi, invece, vogliamo un sistema nel quale le banche si accollino anche gli svantaggi oltre che beneficiare dei vantaggi: e la strada giusta verso un sistema di questo tipo passa solo attraverso la nazionalizzazione.
©2009 The New York Times
Traduzione di Anna Bissanti
PAUL KRUGMAN
Il collega Greenspan vuole che prendiamo possesso dei vertici dell'economia. Beh, non esattamente. Ciò che ha detto Alan Greenspan, ex presidente della Federal Re serve - nonché strenuo difensore del libero mercato - per la precisione è stato: «Potrebbe essere necessario procedere a una temporanea nazionalizzazione di alcune banche».
Privatizzarle con l'obiettivo di rendere più facile una loro ristrutturazione in tempi rapidi e con ordine». Condivido pienamente.
Gli argomenti validi adducibili a favore della nazionalizzazione si basano essenzialmente su tre osservazioni. La prima è che alcune banche di grosse proporzioni sono pericolosamente vicine al baratro, anzi, sarebbero già precipitate nell'abisso se gli investitori non avessero dato per scontato che sarebbe stato il governo a soccorrerli, qualora se ne fosse presentatala necessità. La seconda è che le banche devono essere salvate: il crollo della Lehman Brothers ha pressoché distrutto il sistema finanziario mondiale e non possiamo rischiare di lasciare che altri istituti ancora più importanti, come Citigroup o Bank of America, implodano su se stessi. La terza è che se da un lato è necessario salvare le banche, dall'altro il governo degli Stati Uniti non può permettersi, né da un punto di vista fiscale, né da un punto di vista politico, di elargire grossi regali agli azionisti delle banche.
Cerchiamo però di esser e pragmatici. Esistono ragionevoli possibilità - per quanto non si possa ancora parlare di certezze - che Citi (Citigroup) e BofA (Bank of America) possano perdere complessivamente entro i prossimi anni centinaia di miliardi di dollari. E i loro capitali, gli asset eccedenti i loro passivi, non sono nemmeno lontanamente sufficienti a coprire queste perdite presunte.
Forse, l’unica ragione per la quale non sono già fallite è che il governo sta fungendo da rete di contenimento, a garanzia implicita delle loro obbligazioni. Si tratta in ogni caso di banche-zombie, incapaci di fornire quel credito di cui necessita l'economia. Per porre fine al loro status di zombie, le banche hanno un bisogno vitale di maggiori capitali, che non possono attingere più da investitori privati: da qui la necessità che sia il governo a fornire i finanziamenti necessari.
Ecco il problema, però: i finanziamenti necessari a riportare pienamente in vita queste banche supererebbero di gran lunga per ammontare il loro stesso valore attuale. Citi e BofA hanno insieme un valore di mercato inferiore a 30 miliardi di dollari. In realtà, perfino questo presunto valore si basa principalmente (se non interamente) sulla speranza che gli azionisti ottengano una parte di ciò che il governo distribuirà sotto forma di sovvenzioni. Di conseguenza, se in sostanza il governo ci mette i soldi, in pratica dovrebbe in cambio ottenere la proprietà di questi istituti.
Ma la nazionalizzazione non era qualcosa di totalmente alieno all'America? Niente affatto: è americana tanto quanto la torta di mele. Negli ultimi tempi la Federai Deposit Insurance Corporation sta rilevando banche che reputa essere insolventi al ritmo di due a settimana. Quando la Fdic procede a tale operazione, si appropria degli asset negativi della banca, salda parte dei suoi debiti e rivende a investitori privati l'istituto bancario riassestato. Questo è esattamente ciò che i propugnatori della nazionalizzazione temporanea auspicano di veder realizzato, non soltanto nel caso delle piccole banche di cui la Fdic sta assumendo il controllo, ma anche delle grosse banche insolventi nello stesso modo.
La vera domanda da porsi è perché l'Amministrazione Obama continui a venirsene fuori con proposte che sembrano plausibili alternative al processo di nazionalizzazione, ma che in realtà si rivelano comportare ingenti sovvenzioni agli azionisti delle banche.
Per esempio, l'Amministrazione in un primo tempo aveva ventilato l'idea di offrire alle banche garanzie contro perdite o asset problematici. Ciò avrebbe rappresentato un gran bell'affare per gli azionisti delle banche, ma non altrettanto per il resto di noi: se esce testa vincono, se esce croce ci rimettono i contribuenti.
Adesso l'Amministrazione parla di una «partnership tra pubblico e privato» per acquisire asset problematici dalle banche. A tal fine, il governo dovrebbe prestare i soldi agli investitori del settore privato e ciò di fatto offrirebbe loro una "one-way bet", ovvero una scommessa a senso unico: se gli asset aumentano di prezzo, gli investitori ci guadagnano; se calano considerevolmente, gli investitori possono ritirarsi e lasciare che ad accollarsene l'onere sia il governo. Anche in questo caso dunque, se esce testa vincono, se esce croce ci rimettiamo in ogni caso noi.
Perché dunque non procedere direttamente alla nazionalizzazione? Sappiatelo: quanto più a lungo convivremo con queste banche-zombie, tanto più difficile sarà porre fine alla crisi economica.
Come dovrebbe svolgersi la nazionalizzazione? Tutto ciò che l'Amministrazione deve fare è prendere sul serio lo "stress test" da lei stessa messo a punto per le banche più grosse, e non occultarne i risultati quando una di esse non riesce a superare tale test, rendendo inevitabile la sua acquisizione. Ebbene sì, l'intera operazione riporterebbe vagamente alla mente Claude Rains, nei momento in cui un governo che da mesi puntella e sostiene le banche dovesse dichiararsi all'improvviso sconvolto e completamente sbigottito per la miserabile situazione dei loro bilanci.
Ma va bene così. Ancora una volta, l'obiettivo di tutto ciò non è che il governo acquisisca proprietà a lungo termine: al pari delle piccole banche rilevate di settimana in settimana dalla Fdic, le banche più grosse dovrebbero fare ritorno al controllo dei privati quanto prima possibile. Il blog di finanza Calculated Risk suggerisce di utilizzare il termine "pre-privatizzazione", invece di definire l'intero processo "nazionalizzazione".
L'Amministrazione Obama, dice Robert Gibbs, portavoce della Casa Bianca, crede che «il sistema giusto e corretto per procedere sia un sistema bancario di proprietà privata». Lo stesso crediamo noi tutti, ma per il momento per le mani non ci troviamo un'imprenditoria privata, bensì un socialismo-bidone: le banche ottengono benefici, ma i rischi li corrono i contribuenti. E tutto ciò significa una cosa soltanto: tenere in vita le banche-zombie, precludendo la ripresa economica.
Noi, invece, vogliamo un sistema nel quale le banche si accollino anche gli svantaggi oltre che beneficiare dei vantaggi: e la strada giusta verso un sistema di questo tipo passa solo attraverso la nazionalizzazione.
©2009 The New York Times
Traduzione di Anna Bissanti
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