Ernesto Galli della Loggia (corriere.it)
Il fallimento del Centro registrato alle recenti elezioni - e  dunque, per logica conseguenza, il fallimento del personale di governo  alla guida del Paese per oltre un anno - dice molte cose sulle  caratteristiche delle élite italiane. Proprio perché per la sua parte  più significativa è da queste élite che proveniva un tale personale di  governo.
L'aspetto che più colpisce è la scarsa conoscenza da esso  dimostrata dei meccanismi della politica e quindi la sua scarsa capacità  di leadership . Non vorrei apparire ingeneroso verso Mario Monti e i  suoi ministri, impegnatisi in un compito certo non facile. Sta di fatto  però che per oltre un anno tutti hanno potuto vedere come essi non siano  riusciti in alcun modo ad accompagnare all'adozione di provvedimenti  tecnici indispensabili, tecnicamente obbligati, l'idea che tali  provvedimenti dovessero poi anche essere «venduti» politicamente ai  cittadini (e perciò, ad esempio, comprendere forti indicazioni di equità  sociale). Invece la democrazia - cioè il regime del suffragio  universale e dell'«uomo della strada» - è precisamente questo: e lo è  tanto più quando i tempi sono difficili e ai cittadini si chiedono  sacrifici non indifferenti. 
Allora più che mai coloro che governano hanno l'obbligo non già  solamente di spiegare, di enumerare cifre, vincoli, e rimedi: tutte cose  sacrosante, intendiamoci, ma che tuttavia devono essere accompagnate da  altro. Dalla capacità di parlare ai cuori più che alle menti, di  invogliare al riscatto, di muovere alla tenacia, all'orgoglio, alla  speranza. Tutte cose che appartengono alla politica, e di cui i veri  capi politici devono essere capaci. Per le quali però bisogna essere  convinti della propria autorevolezza, avere una dimestichezza con il  comando sociale e con l'esposizione pubblica, essere animati da un  pathos di condivisione nazionale, da un capacità di comunicare e di  mettersi personalmente in gioco, che le classi dirigenti italiane,  chiuse nel loro autoreferenziale esclusivismo professionale e  proprietario, evidentemente possiedono in scarsissima misura. E tutte  cose, aggiungo, alle quali il lungo e feroce dominio degli apparati dei  partiti sulla cosa pubblica le ha da tempo disabituate. Staccandole nel  profondo dalla politica.
Lo si è visto al momento di organizzarsi in vista delle elezioni.  Il Centro ha mostrato di aver capito poco o nulla dell'ansia di grande  cambiamento che agitava l'Italia. A un Paese percorso dalle performance  di Grillo, ha pensato di potersi presentare da un lato con figure della  più esausta nomenclatura partitica (Udc, Fli), dall'altro con il pallido  volto di un notabilato catto-confindustriale insaporito da qualche  prezzemolino sportivo-accademico. In complesso la raffigurazione di una  compiaciuta oligarchia italiana all'insegna del «lei non sa chi sono io e  quanto sono importante». Nessuno invece che fosse capace di un parlare  vivo e autentico, di una proposta suggestiva, che desse voce a una  qualche novità culturale, che incarnasse una figura sociale inedita.
 Un'oligarchia, quella del Centro, che ha dato la misura della  sua mancanza di sintonia rispetto alla condizione politica reale del  Paese quando ha deciso, segnando così la propria sconfitta, di  contrapporsi frontalmente e sprezzantemente all'elettorato che fino ad  allora era stato della Destra. Come si è visto allorché Monti si è  rifiutato di prestare il benché minimo ascolto all'invito di essere il  «federatore dei moderati» rivoltogli da Berlusconi: nonostante fosse  ovvio che l'elettorato della Destra costituiva l'unico elettorato dove  il Centro avrebbe potuto ottenere il consenso di cui andava in cerca.
Perché questo errore? Forse per l'influenza dell'onorevole Casini  e del cattolicesimo politico più sprovveduto, mai rassegnatosi al  bipolarismo e invece sempre vagheggiante un'illusoria collocazione al di  là della Destra e della Sinistra? No, non credo per questo; anche se  certamente tutto questo ha contato. Sono invece convinto che nel  paralizzare qualunque interlocuzione con il popolo della Destra da parte  di Monti e dei suoi, nel far loro escludere qualunque approccio meno  che ostile in quella direzione, ha contato molto di più quella sorta di  generico interdetto sociale che da sempre la Sinistra si mostra capace  di esercitare nei confronti della Destra stessa: in modo specialissimo  da quando a destra c'è Berlusconi.
È l'interdetto che si nutre dell'idea che la Destra costituisca  la parte impresentabile del Paese, il lato negativo della sua storia.  L'Italia imbrogliona, priva di senso civico, che evade le tasse, che non  fa la fila e urla al telefonino; l'Italia incolta dei cinepanettoni,  che non sa le lingue e non è iscritta al Fai, che non gliene importa  nulla dell' Economist e non è di casa né alla Biennale né alla Columbia.  E che di conseguenza non può che essere naturalmente clericale,  conformista, sessista, solo e sempre reazionaria. In una parola  quell'Italia che non è possibile ricevere in società e con la quale non  conviene avere alcun rapporto se si vuole essere annoverati tra le  persone per bene.
La borghesia che conta, il grande notabilato di ogni genere,  l'alto clero in carriera, insomma l' élite italiana, ha profondamente  introiettato questo stereotipo (che come tutti gli stereotipi ha  naturalmente anche qualcosa di vero). Uno stereotipo tanto più potente  perché in sostanza pre-politico, attinente al bon ton civil-culturale.  Con la Destra dunque l' élite italiana non vuole avere nulla a che fare:  per paura di contaminarsi ma soprattutto per paura di entrare nel  mirino dell'interdizione della Sinistra. Cioè di farsi la fama di nemica  del progresso, di non essere più invitata nei salotti televisivi de  La7, a Cernobbio o al Ninfeo di Valle Giulia; di diventare  «impresentabile» (oltre che, assai più prosaicamente, per paura degli  scheletri negli armadi, che non le mancano...).
Il Centro - così affollato di avveduta «gente per bene» - è  rimasto vittima di questo interdetto, del timore di farsi etichettare di  destra dalla Sinistra (e magari per giunta dal Club Europeo). In questo  modo esso ha mantenuto sì la propria rispettabilità, ma al prezzo non  proprio insignificante di diventare un attore politico di terz'ordine.
---------------------------------------------------------
Replica
Monti: «Io, la sfida del Centro e la vera leadership senza demagogie»
Caro direttore, ho letto con il consueto interesse, nel Corriere di ieri, l'editoriale di Ernesto Galli della Loggia («Ciò che il Centro non ha capito»).  Concordo con un punto importante: sarebbe stato un errore «contrapporsi  frontalmente e sprezzantemente all'elettorato che fino ad allora era  stato della Destra». Dissento invece, con grande rispetto verso  l'autore, da tutte le altre asserzioni contenute nell'articolo.
Esse mi fanno ritenere che l'autore non abbia colto le  motivazioni del progetto politico di Scelta civica, né i vincoli entro i  quali questa atipica esperienza politica si è collocata. 
Prima c'è  stato, per il governo nato nel novembre 2011, come Galli della Loggia  riconosce, il duro vincolo imposto dalle circostanze: salvare l'Italia  dalla crisi finanziaria. L'autore ci rimprovera, forse giustamente, di  non avere avuto «la capacità di parlare ai cuori più che alle menti».  Quella capacità l'avevano, e l'hanno molto esercitata, i precedenti  governi di Centro-sinistra e di Centro-destra, che però per 15 anni,  sempre pensando alle prossime elezioni, non avevano fatto né le riforme  necessarie per la crescita e l'occupazione, né quelle necessarie per una  finanza pubblica sostenibile. Poi ci siamo dati noi un vincolo,  proponendo agli elettori la prosecuzione di un percorso, capace certo di  far fruttare i molti sacrifici in una crescita a medio termine, ma  fondato sul realismo e sulla responsabilità, non sulle illusioni.
Parrà incomprensibile a un politologo che ci sia chi governa per  realizzare non il consenso ma ciò che ritiene essere, in un dato  momento, l'obiettivo vitale per la sopravvivenza del Paese e per la sua  sovranità, senza cederla a una troika di occupazione (quella sì)  tecnocratica. Ma non crede che l'avere spiegato ai cittadini che  l'Italia ce l'avrebbe fatta da sola, senza chinare il capo e chiedere  prestiti all'Europa o al Fondo monetario internazionale - come la  Grecia, il Portogallo, la Spagna - abbia «invogliato al riscatto, mosso  alla tenacia, all'orgoglio»? Perché in Italia, a differenza che in quei  Paesi, i durissimi sacrifici non hanno portato alla rivolta sociale o di  piazza?
Parrà ancora più incomprensibile a un politologo che ci sia chi  proponga alle elezioni un progetto che non concede nulla al populismo e  alla demagogia, pur in un «Paese percorso dalle performance di Grillo» e  di un redivivo, formidabile Berlusconi. E che insiste su riforme, come  quelle sul mercato del lavoro, indigeste alla Sinistra ma essenziali,  con altre, per dare lavoro e speranza ai giovani. Così come propone di  proseguire le azioni contro l'evasione fiscale e la corruzione che hanno  trovato ostacoli a Destra durante il governo che sta per chiudersi.
Ma  questa Scelta civica - penserà il politologo - ha fatto proprio di  tutto per perdere le elezioni! Come se non bastasse, è stata così  ingenua da rivendicare i «meriti» del governo uscente, che ha dovuto  prendere i provvedimenti più impopolari della storia repubblicana,  invece di prenderne le distanze come hanno fatto le altre forze che  avevano approvato quei provvedimenti, platealmente il Pdl, in modo meno  chiassoso il Pd.
Chi governa così, chi si presenta alle elezioni così, secondo  Galli della Loggia denota «scarsa capacità di leadership». Non tocca  certo a chi viene giudicato di giudicare il giudice. Ma sarebbe  interessante capire meglio che cosa debba intendersi per leadership. È  migliore leader chi cerca, magari facendo molti errori perché è un  politico inesperto, di guidare il Paese verso quello che considera  l'interesse generale e cerca il consenso degli elettori su ciò che è  poco gradevole ma utile a più lungo termine; o chi cerca, magari non  facendo nessun errore perché è il più abile dei politici, di assecondare  gli elettori proponendo proprio ciò che essi vogliono vedersi proporre  perché è più gradevole anche se dannoso a più lungo termine? È meglio,  per un Paese, avere dei leader non perfetti o dei perfetti follower? Ai  politologi l'ardua sentenza.
Forse, il professor Galli della Loggia ha in mente il secondo  scenario, quando emette le sue sentenze liquidatorie: «il fallimento del  Centro», «il fallimento del personale di governo alla guida del Paese  per oltre un anno», il Centro è diventato «un attore politico di  terz'ordine». Siano consentite due osservazioni.
Centro. Si direbbe, con l'uso di questo termine come sinonimo di  Scelta civica, che l'autore non abbia prestato nessuna attenzione allo  sforzo fatto da Scelta civica per spiegare la propria identità. Non si  tratta di qualcosa di intermedio tra la Sinistra e la Destra lungo  l'asse, a nostro giudizio screditato, di un inconcludente bipolarismo  italiano, che alla fine ha avuto bisogno di un governo tecnico per fare  alcune riforme che sapeva necessarie, senza mai trovare la forza  politica per farle. Si tratta di un impegno nuovo, per unire volontà  riformatrici ed europeiste, prima disperse nei due poli contrapposti.
Fallimento. Non ho mai parlato di successo di Scelta civica. 
Trovo però curioso che si parli di fallimento per un'entità  politica nuova, costruita nella scia di un governo che non aveva fatto  proprio nulla per non essere impopolare, portata avanti dall'impegno  generoso di molti ma certo senza l'esperienza e la professionalità dei  partiti tradizionali o l'articolazione del M5S; e che tuttavia in  cinquanta giorni è riuscita a raccogliere tre milioni di voti laddove il  Pd e il Pdl hanno perso molti milioni di voti. Se non vi fossero stati  quei voti a Scelta civica, provenuti in particolare dalla Destra, la  coalizione Pdl-Lega sarebbe ora in grado di formare il governo e, dal 15  aprile, di eleggere il presidente della Repubblica. 
Concludo con il punto, importante, sul quale il mio pensiero  coincide con quello di Galli della Loggia. Sarebbe stato un errore  «contrapporsi frontalmente e sprezzantemente all'elettorato che fino ad  allora era stato della Destra». Ha ragione l'autore quando, pur con  cattiveria eccessiva, scrive «Uno stereotipo tanto più potente perché in  sostanza pre-politico, attinente al bon ton civil-culturale. Con la  Destra dunque l'élite italiana non vuole avere nulla a che fare: per  paura di contaminarsi ma soprattutto per paura di entrare nel mirino  dell'interdizione della Sinistra». Per parte mia, forse perché ho idee  mie ben radicate, non ho mai condiviso la paura di contaminarmi con la  Destra. Sono orgoglioso di aver fatto cooperare per il bene del Paese,  nella «strana» maggioranza, Bersani e Berlusconi (oltre a Casini). Né  temo l'interdizione della Sinistra, che pure ho sperimentato, in alcuni  suoi alti esponenti politici e culturali detentori della moralità, per  il solo fatto di avere promosso un movimento politico.
Ma Scelta civica, caro professor Galli della Loggia, non ha  compiuto quello che lei e io consideriamo un errore: non si è  contrapposta agli elettori della Destra. Anzi, ne ha sollecitato il  voto. E sono sorpreso che tanti abbiano scelto Scelta civica e non il  Pdl, che pure recava nella scheda il profumo dei soldi, il rimborso  dell'Imu.
Quello che non ho fatto, qui lei ha ragione, è accettare l'invito  di Berlusconi ad essere il «federatore dei moderati». Per questo  invito, che mi ha fatto piacere, ho ringraziato Berlusconi. Ma non l'ho  accettato non per sprezzo degli elettori di Destra, ma per due diverse  ragioni. In primo luogo, mi sembrava più importante unire i riformatori  che federare i moderati. In secondo luogo, avrei forse potuto federare i  moderati ma solo se Berlusconi si fosse davvero ritirato dal progetto  che cortesemente mi offriva. Non avrei voluto trovarmi nella situazione  di Alfano.
Presidente del Consiglio
 
 
Nessun commento:
Posta un commento