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22.3.18

La politica ai tempi di Facebook


 
Questo articolo è stato pubblicato il 6 gennaio 2017 a pagina 40 di Internazionale, con il titolo “La politica ai tempi di Facebook”. 

Alle 8.30 del 9 novembre 2016 Michal Kosinski si è svegliato nella sua stanza all’hotel Sunnehus di Zurigo. Kosinski, che ha 34 anni e fa il ricercatore, era in Svizzera per tenere una conferenza all’Eidgenössische technische hochschule (Eth), il politecnico di Zurigo. Il tema dell’incontro era “i pericoli dei big data e la rivoluzione digitale”, un argomento su cui tiene regolarmente conferenze in tutto in mondo.
Kosinski è uno dei massimi esperti di psicometria, una branca della psicologia che si fonda sull’analisi dei dati. Quella mattina, accendendo la tv nella sua camera d’albergo, Kosinski ha scoperto che la bomba era esplosa: contrariamente a tutte le previsioni avanzate dai più noti statistici, Donald Trump era stato eletto presidente degli Stati Uniti. Kosinski è rimasto a lungo a guardare i festeggiamenti per la vittoria del candidato repubblicano. Seguendo i risultati che arrivavano dai vari stati, ha avuto la sensazione che l’esito delle elezioni presidenziali statunitensi potesse avere qualcosa a che fare con i suoi studi. Alla fine ha tirato un profondo sospiro e ha spento la tv.
Quello stesso giorno un’azienda britannica poco nota con sede a Londra ha diffuso un comunicato stampa: “Prendiamo atto con grande soddisfazione del fatto che il nostro rivoluzionario approccio alle comunicazioni basate sui dati ha svolto un ruolo centrale nella straordinaria vittoria del presidente eletto Trump”. Il comunicato attribuiva queste dichiarazioni a un certo Alexander James Ashburner Nix, britannico, 41 anni, amministratore delegato della Cambridge Analytica. In pubblico Nix si presenta vestito sempre in modo impeccabile, con abiti su misura, occhiali firmati e i capelli biondi e ondulati pettinati all’indietro. Ecco dunque i nostri tre personaggi: il riflessivo Kosinski, l’elegante Nix e il sorridente Trump. Il primo ha reso possibile la rivoluzione digitale, l’altro l’ha messa in atto e il terzo ne ha tratto vantaggio.
Tutto quello che facciamo, sia online sia offline, lascia delle tracce digitali
Chi non ha passato gli ultimi cinque anni su un altro pianeta ha certamente sentito parlare dei big data. Il senso di quest’espressione è che tutto quello che facciamo, sia online sia offline, lascia delle tracce digitali. Ogni acquisto fatto con la carta di credito, ogni ricerca su Google, ogni spostamento che facciamo con il cellulare in tasca, ogni like su Facebook: tutto è conservato da qualche parte. Per molto tempo l’utilità di questi dati non è stata chiara, salvo forse quando ci capitava sullo schermo del computer la pubblicità di uno strumento per misurarsi la pressione da soli subito dopo aver cercato “pressione alta” su Google. Non si capiva bene neanche se i big data fossero un pericolo o un’opportunità per gli esseri umani. Tutto è diventato più chiaro il 9 novembre 2016, quando si è saputo che l’azienda dietro la campagna elettorale online di Donald Trump e dietro la campagna per la Brexit era una protagonista del settore dei big data, la Cambridge Analytica guidata da Alexander Nix.
Per capire il risultato delle presidenziali statunitensi, ma anche quello che attende l’Europa nei prossimi mesi, dobbiamo partire da uno strano episodio avvenuto nel 2014 allo Psychometrics centre dell’università di Cambridge, l’istituto dove lavorava proprio Kosinski. La psicometria, detta anche psicografia, è la disciplina che misura le caratteristiche psicologiche di un individuo, la sua personalità insomma. Negli anni ottanta due équipe di psicologi hanno teorizzato che ogni caratteristica di una persona può essere misurata in base a cinque parametri o aspetti della personalità, i cosiddetti big five: l’apertura mentale (openness, quanto siamo aperti alle esperienze nuove), la coscienziosità (conscientiousness, quanto siamo perfezionisti), l’estroversione (extraversion, quanto siamo socievoli), l’amicalità (agreeableness, quanto siamo collaborativi e rispettosi degli altri) e la stabilità emotiva (neuroticism, quanto siamo facilmente turbati).
Sulla base di questi parametri (riassunti per brevità nell’acronimo dei termini in inglese, Ocean), è possibile fare una valutazione relativamente esatta del tipo di persona che abbiamo di fronte, compresi i suoi bisogni, i suoi timori e il suo probabile comportamento. Il metodo fondato sui big five è diventato uno standard della psicometria. Per molto tempo, però, il problema di questo metodo è stato la raccolta dei dati, che veniva fatta tramite un complicato questionario pieno di domande personali. Poi sono arrivati internet, Facebook e Kosinski.
Questionari per tutti
Nel 2008, quando era studente a Varsavia, la vita di Michal Kosinski arrivò a un punto di svolta. La sua richiesta di fare un dottorato a Cambridge fu accolta e fu accettato dallo Psychometrics centre, una delle più antiche istituzioni del settore. Si trovò così a collaborare con un altro studente, David Stillwell, che oggi insegna alla Judge business school di Cambridge. Un anno prima Stillwell aveva lanciato un’app per Facebook, che non era ancora diventato un gigante. L’app si chiamava MyPersonality e permetteva agli utenti di riempire vari questionari psicometrici, compreso un certo numero di quesiti psicologici tratti dal questionario sulla personalità basato sui big five (“vado facilmente nel panico” oppure “contraddico il prossimo”).
All’utente veniva attribuito un “profilo di personalità” costituito dal suo punteggio individuale calcolato in base ai big five. Poi l’utente poteva scegliere se condividere con gli studiosi i dati del suo profilo Facebook. Kosinski e Stillwell si aspettavano che il questionario fosse riempito al massimo da qualche decina di studenti come loro. Invece nel giro di poco tempo centinaia, poi migliaia, poi milioni di persone rivelarono le loro più intime convinzioni. I due dottorandi si ritrovarono all’improvviso in possesso del più vasto insieme di dati mai raccolto che abbinasse profili Facebook con punteggi psicometrici.
Negli anni successivi Kosinski e il suo collega hanno elaborato un metodo abbastanza semplice. Come prima cosa, fornivano ai soggetti intervistati un questionario sotto forma di quiz online. In base alle risposte calcolavano i punteggi personali dei soggetti secondo i big five. Quindi confrontavano i risultati con altri dati online riferiti a quei soggetti, per esempio i like e le cose pubblicate e condivise su Facebook, ma anche il sesso, l’età e il luogo di residenza. Tutto questo consentiva ai due ricercatori di stabilire correlazioni e comporre un ritratto più chiaro di ogni individuo. Kosinski e Stillwell osservarono così che da semplici azioni eseguite online era possibile ricavare deduzioni molto affidabili.
Per esempio, i maschi che mettevano il like alla marca di cosmetici Mac avevano qualche probabilità in più di essere gay, mentre uno dei migliori indicatori della loro eterosessualità era il like al Wu-Tang Clan. Quelli che seguivano Lady Gaga tendevano a essere estroversi, mentre quelli che mettevano un like a una pagina di filosofia tendevano a essere introversi. Ora, se è vero che ognuna di quelle informazioni, presa singolarmente, era troppo debole per realizzare una previsione affidabile, le proiezioni ottenute dalla combinazione di decine, centinaia o migliaia di singoli elementi diventavano molto accurate.
I nostri smartphone sono grandi questionari psicologici che compiliamo di continuo, spesso senza nemmeno rendercene conto
Negli anni successivi Kosinski e la sua équipe hanno lavorato senza sosta ad affinare i loro modelli. Nel 2012 Kosinski dimostrò che in base a una media di 68 like dati da un utente su Facebook era possibile prevedere il colore della pelle (con un’approssimazione del 95 per cento), l’orientamento sessuale (88 per cento) e l’appartenenza al partito democratico o a quello repubblicano (85 per cento). Ma c’era dell’altro. Si potevano stabilire anche il quoziente d’intelligenza, la religione e se facesse uso di alcolici, sigarette e droghe. Attraverso i dati era addirittura possibile dedurre se il soggetto fosse figlio di genitori divorziati. Un segnale dell’efficacia del modello era la sua esattezza nel prevedere le risposte delle persone. Kosinski continuò a lavorare al progetto instancabilmente.
In poco tempo il modello fu in grado di valutare ogni persona meglio della media dei suoi colleghi di lavoro, semplicemente basandosi su dieci like dati su Facebook: con soli 70 like riusciva a battere gli amici, con 150 i genitori e con 300 il compagno o la compagna. Con un numero ancora maggiore di like si poteva addirittura superare quello che una persona sapeva di se stessa. Il giorno in cui Kosinski pubblicò questi risultati ricevette due telefonate: una minaccia di querela e un’offerta di lavoro, entrambe da Face-book.
I like su Facebook sono diventati privati solo in seguito: in passato l’impostazione di base era che chiunque poteva vedere i like dati dagli altri. Questa novità, però, non ha ostacolato i raccoglitori di dati: mentre Kosinski chiedeva sempre il consenso degli utenti di Facebook, oggi molte app e quiz online chiedono l’accesso ai dati privati come condizione preliminare per i test di personalità. Chiunque voglia valutarsi sulla base dei suoi like su Facebook può farlo sul sito web di Kosinski, Apply magic sauce, e poi confrontare i risultati ottenuti con quelli di un classico questionario Ocean da cento domande sul sito dello Psychometric centre.
Ma ormai non era questione solo di like, e neanche solo di Facebook: ora Kosinski e la sua équipe potevano assegnare punteggi nei big five anche solo in base al numero delle foto di profilo di ogni utente su Facebook o al numero dei suoi contatti, che è tra l’altro un valido indicatore dell’estroversione. Tuttavia noi riveliamo qualcosa di noi stessi anche quando non siamo collegati. Per esempio, il sensore di movimento del cellulare rivela la rapidità dei nostri spostamenti e le distanze che copriamo, e questi dati sono correlati all’instabilità emotiva. La conclusione di Kosinski fu che i nostri smartphone sono grandi questionari psicologici che compiliamo di continuo, spesso senza nemmeno rendercene conto.
Ma soprattutto – ed ecco il punto decisivo – la cosa funziona anche al contrario: non solo si possono creare profili psicologici a partire dai nostri dati, ma questi dati possono anche essere usati per ricercare categorie specifiche, per esempio tutti i padri ansiosi, tutti gli introversi arrabbiati o tutti gli elettori democratici indecisi. Kosinski, insomma, aveva essenzialmente inventato una specie di motore di ricerca di persone.
A un certo punto cominciò a intuire le potenzialità, ma anche i rischi del suo lavoro. Internet gli era sempre sembrato un dono del cielo. Quello che voleva davvero era restituire qualcosa, condividere: visto che i dati si possono copiare, perché non fare in modo che tutti ne traggano vantaggio? Era quello lo spirito di tutta una generazione, all’alba di una nuova era che trascendeva le limitazioni del mondo fisico. Poi, però, Kosinski si chiese cosa sarebbe successo se qualcuno avesse abusato del suo motore di ricerca di persone per manipolarle. E così decise di includere in buona parte dei suoi lavori scientifici l’avvertimento che il suo metodo poteva “costituire una minaccia per il benessere, la libertà e perfino la vita delle persone”. Ma nessuno, a quanto pare, ha davvero capito il messaggio.
All’inizio del 2014 Kosinski è stato avvicinato da un professore associato di nome Aleksandr Kogan, che portava una richiesta da parte di un’azienda interessata al suo metodo. L’azienda, ricorda Kosinski, voleva accedere al database di MyPersonality, ma Kogan era vincolato dal segreto e non poteva rivelare a quale scopo. All’inizio Kosinski e i suoi collaboratori hanno valutato l’offerta, che avrebbe comportato enormi guadagni per l’istituto. Lo psicologo polacco, però, esitava. Così Kogan ha finito per svelare il nome dell’azienda: si chiamava Scl, Strategic Communication Laboratories. Kosinski l’ha cercata su Google: “Siamo leader tra le agenzie di gestione delle campagne elettorali”, ha letto sul sito. Scl era un’azienda che forniva servizi di marketing basati sui modelli psicologici, e uno dei suoi obiettivi era influenzare i processi elettorali. Influenzare i processi elettorali? Turbato, Kosinski si è messo a sfogliare il sito. Che razza di azienda era? E quali erano le intenzioni dei suoi dirigenti?
Kosinski ignorava che dietro la Scl si nascondeva un gruppo di aziende. A causa dell’intricata struttura societaria non era facile capire in quanti settori fosse attiva e chi fosse esattamente il proprietario. La struttura societaria poteva essere ricostruita attraverso varie fonti, tra cui la Uk Companies House, i Panama papers e il registro delle società del Delaware, negli Stati Uniti. Alcune ramificazioni erano implicate nel rovesciamento di vari governi di paesi in via di sviluppo, altre avevano elaborato metodi per la manipolazione psicologica degli afgani per conto della Nato. Ma, soprattutto, la Scl era la casa madre della Cambridge Analytica, l’opaco gigante dei big data che ha lavorato per la campagna elettorale online di Trump e a favore della Brexit.
Kosinski non sapeva ancora niente di tutto questo, ma ha avuto una brutta sensazione. “La cosa cominciava a puzzare”, ricorda. Dopo ulteriori indagini ha scoperto che Aleksandr Kogan aveva segretamente registrato un’azienda che faceva affari con la Scl. Come avrebbe poi rivelato il Guardian nel dicembre del 2015, e come dimostrano alcuni documenti a cui Das Magazin ha avuto accesso, la Scl era venuta a conoscenza del metodo messo a punto da Kosinski proprio attraverso Kogan. All’improvviso lo psicologo polacco ha capito che forse la Scl aveva riprodotto (o copiato?) lo strumento di misurazione dei big five basato sui like su Facebook, per girarlo alla Cambridge Analytica, l’azienda che si occupa di influenzare i processi elettorali. A quel punto Kosinski ha interrotto immediatamente i contatti con Kogan e ha informato il direttore dello Psychometric centre di Cambridge. Nell’università è sorto un conflitto complicato, perché l’istituto era preoccupato per la sua reputazione. In seguito Kogan si è trasferito a Singapore, si è sposato e ha cambiato nome, assumendo quello di Dr. Spectre. Quanto a Michal Kosinski, ha finito il dottorato e, dopo aver ricevuto una proposta di lavoro da Stanford, si è trasferito negli Stati Uniti.
Per un anno tutto è rimasto tranquillo. Poi nel novembre del 2015 il più estremo dei due comitati elettorali favorevoli alla Brexit, quello identificato dallo slogan “Leave.Eu” e appoggiato dal leader populista Nigel Farage, ha annunciato di aver affidato la gestione della sua campagna online a un’azienda di big data: la Cambridge Analytica. E qual era il punto di forza dell’azienda? Un marketing politico di tipo innovativo, detto microtargeting, fondato sulla misurazione della personalità degli elettori in base alle loro tracce digitali. Tutto secondo il modello Ocean.
A quel punto Kosinski ha cominciato a ricevere email da gente che gli chiedeva cosa avesse a che fare con quell’azienda: gente a cui veniva subito in mente il suo nome quando sentiva o leggeva parole come Cambridge, personalità e analisi. Dal momento che sentiva per la prima volta il nome di quell’azienda, Kosinski è andato sul sito della Cambridge Analytica ed è inorridito: il suo metodo ormai era impiegato su vasta scala per finalità politiche. Dopo il referendum sulla Brexit, il 23 giugno 2016, amici e conoscenti gli hanno scritto: “Guarda un po’ cos’hai combinato”. Dovunque andasse, Kosinski era obbligato a spiegare che con quell’azienda non aveva niente a che spartire.
Il forum Concordia
Sono passati i mesi e si è arrivati al 19 settembre 2016. Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti si avvicinavano rapidamente. Nel salone blu dell’albergo Grand Hyatt di New York risuonavano gli accordi di chitarra di Bad moon rising, dei Creedence Clearwater Revival per l’apertura del Concordia summit. Questo evento annuale è una specie di Forum economico mondiale in miniatura: tra gli invitati c’erano personalità provenienti da tutto il mondo, tra cui il presidente della Svizzera, Johann Schneider-Ammann. A un certo punto un’annunciatrice ha esclamato con voce flautata: “Un bell’applauso per Alexander Nix, amministratore delegato della Cambridge Analytica”. È salito sul palco un uomo magro in abito scuro. Sul salone è calato il silenzio.
Molti dei presenti sapevano che quell’uomo era il nuovo responsabile delle strategie digitali di Trump. Qualche settimana prima, un po’ cripticamente, il candidato repubblicano aveva twittato: “Tra non molto mi chiamerete mister Brexit”. E in effetti diversi osservatori hanno notato somiglianze impressionanti tra il programma elettorale di Trump e quello del movimento di destra a favore della Brexit. Pochi, però, avevano colto il nesso con l’accordo fra Trump e un’azienda di marketing chiamata Cambridge Analytica.
Fino a quel momento la campagna digitale di Trump era stata gestita in sostanza da un’unica persona: Brad Parscale, un esperto di marketing e fondatore di una startup fallita che ha creato per Trump un rudimentale sito web per 1.500 dollari. Trump non se la cava bene con le tecnologie digitali, tant’è vero che non ha il computer sulla scrivania. La sua assistente personale ha rivelato una volta che non scrive neanche le email e che lei stessa ha dovuto convincerlo a comprare uno smartphone, da cui ora twitta continuamente. La sua avversaria Hillary Clinton, invece, seguiva le orme del primo “presidente dei social network”, Barack Obama. Gli indirizzi degli elettori democratici erano nelle sue mani. Lavorava con i prestigiosi analisti dei BlueLabs e aveva incassato l’appoggio di Google e della DreamWorks. Quando nel giugno del 2016 è arrivato l’annuncio che Trump aveva ingaggiato la Cambridge Analytica, l’establishment di Washington ha storto il naso. Stranieri con vestiti di sartoria che non capiscono gli Stati Uniti e il popolo americano? Ma stiamo scherzando?
“È per me un privilegio prendere la parola oggi davanti a voi. Vi parlerò del potere dei big data e della psicografia nel processo elettorale”, ha esordito Alexander Nix. Intanto alle sue spalle compariva il logo della Cambridge Analytica: una rete con tanti nodi, una specie di mappa che richiama la silhouette di un cervello. “Appena un anno e mezzo fa il senatore repubblicano Ted Cruz era uno dei candidati meno popolari”, ha spiegato l’uomo biondo con quel cristallino accento britannico che rende nervosi gli statunitensi esattamente come succede agli svizzeri con l’accento tedesco. “Meno del 40 per cento della popolazione statunitense ne aveva sentito parlare”, ha detto commentando un’altra diapositiva.
Verso la fine del 2014 la Cambridge Analytica ha cominciato a partecipare attivamente alla campagna elettorale per le presidenziali negli Stati Uniti, fornendo consulenze a Cruz grazie ai finanziamenti di Robert Mercer, un inafferrabile miliardario statunitense che si è arricchito con i software. In sala tutti conoscevano la folgorante ascesa del senatore conservatore Cruz, uno degli eventi più sorprendenti della campagna elettorale. Come aveva fatto Cruz a diventare l’ultimo serio sfidante di Trump alle primarie repubblicane, passando dal 5 al 35 per cento? Ebbene, ha spiegato Nix, fino a quel momento le campagne elettorali erano state organizzate sempre sulla base di concetti demografici: “Ma è un’idea ridicola. È come dire che tutte le donne devono ricevere lo stesso messaggio perché appartengono allo stesso genere, e lo stesso messaggio va indirizzato a tutti gli afroamericani perché appartengono allo stesso gruppo etnico”. Nix intendeva dire che fino a quel momento le altre macchine elettorali si erano basate su considerazioni demografiche, mentre la Cambridge Analytica si avvaleva della psicometria.
Negli Stati Uniti, ormai, quasi tutti i dati personali si possono comprare e vendere
Sarà anche vero, ma il ruolo della Cambridge Analytica nella campagna di Cruz è controverso. Nel dicembre del 2015 la squadra elettorale di Cruz ha attribuito il suo successo all’uso psicologico di dati e di analisi. Dalle colonne di Advertising Age, un’autorevole rivista dedicata alla pubblicità, un cliente politico ha definito il personale della Cambridge Analytica al seguito della campagna di Cruz come “una ruota in più”, ma ha giudicato “eccellente” il suo prodotto di punta: i modelli realizzati dalla Cambridge Analytica sui dati relativi agli elettori. Allo stesso modo, non è ancora chiaro fino a che punto la Cambridge Analytica sia stata coinvolta nella campagna Leave.Eu. L’azienda rifiuta di rispondere a domande su questi argomenti.
Poi Nix è passato alla diapositiva seguente: cinque volti diversi, ciascuno corrispondente a un profilo di personalità. È il modello big five, ovvero Ocean. “Noi della Cambridge Analytica”, si è esaltato Nix, “siamo riusciti a elaborare un modello per individuare la personalità di ogni singolo adulto negli Stati Uniti”. Ormai aveva il pubblico in pugno. Ha continuato affermando che il successo della Cambridge Analytica si basa sulla combinazione di tre elementi: la scienza comportamentale che si avvale del modello Ocean, l’analisi dei big data e le inserzioni pubblicitarie mirate. L’ultima espressione indica una pubblicità personalizzata: in altre parole, il più possibile in linea con la personalità di ogni consumatore.
Nix ha spiegato con candore in che modo la Cambridge Analytica ottiene questo risultato. Innanzitutto, la sua azienda compra dati personali da una gamma di fonti diverse: registri anagrafici e automobilistici, informazioni sugli acquisti, dati delle tessere omaggio, iscrizioni ai club, ma riesce a sapere anche quali riviste leggono le persone e quali chiese frequentano. Sullo schermo Nix ha mostrato i loghi di fornitori di dati attivi a livello globale, come Acxiom ed Experian. Negli Stati Uniti, ormai, quasi tutti i dati personali si possono comprare e vendere. Vuoi sapere dove abitano donne ebree? Puoi semplicemente comprare le informazioni, numeri di telefono compresi. La Cambridge Analytica incrocia poi queste informazioni con i registri elettorali del Partito repubblicano e altri dati online come i like su Facebook (anche se attualmente l’azienda nega di aver usato dati relativi a Facebook) ed elabora un profilo di personalità basato sui big five. In un attimo le tracce digitali si traducono in persone reali, ognuna con i suoi timori, i suoi bisogni, i suoi interessi. E l’indirizzo di residenza.
Centro di controllo
Il metodo ricorda da vicino i modelli sviluppati da Kosinski. Secondo Nix, anche la Cambridge Analytica usa “sondaggi sui social network” e dati relativi a Facebook. E fa esattamente quello che Kosinski temeva: “Abbiamo elaborato”, ha detto Nix vantandosi, “il profilo di personalità di tutti i cittadini adulti degli Stati Uniti. Sono 220 milioni di persone”. Poi ha aperto una schermata e ha spiegato: “Questa è un’applicazione che abbiamo realizzato per la campagna elettorale del senatore Cruz”. È apparso un centro di controllo digitale. A sinistra c’erano dei diagrammi, a destra una mappa dell’Iowa, lo stato in cui Cruz ha conquistato un numero di voti sorprendentemente alto alle primarie. Appena sulla mappa sono comparsi centinaia di migliaia di puntini rossi e blu, Nix ha ristretto i criteri di ricerca. “Repubblicani”, e sparivano i puntini blu; “ancora indecisi”, e sparivano altri puntini; “maschi”, e così via. Alla fine è rimasto solo un nome, completo d’età, indirizzo, interessi, personalità e tendenze politiche.
Come fa la Cambridge Analytica a rivolgersi a ogni singola persona con un messaggio politico mirato? Nix ha mostrato come sia possibile rivolgersi in modo differenziato agli elettori di ogni categoria psicografica, prendendo come esempio il secondo emendamento della costituzione degli Stati Uniti, quello che garantisce a ogni cittadino il diritto di possedere armi da fuoco: “Per convincere le persone fortemente nevrotiche e coscienziose, serve la minaccia del furto in casa e la sicurezza rappresentata da un’arma”. L’immagine a sinistra dello schermo raffigurava la mano di un intruso che sfonda una finestra. L’immagine sulla destra ritraeva un uomo e un bambino in piedi in un campo al tramonto: entrambi impugnavano armi da fuoco e stavano chiaramente sparando alle anatre. “Questa invece serve per i soggetti chiusi e disponibili, quelli che hanno a cuore le tradizioni, le abitudini e la famiglia”.
Di colpo le impressionanti incoerenze di Trump, la sua criticata volubilità e l’insieme dei suoi messaggi contraddittori si sono rivelati un asso nella manica: Trump aveva un messaggio diverso per ogni elettore. Che si sia comportato come un algoritmo perfettamente opportunistico, seguendo puramente e semplicemente le reazioni del suo pubblico, è qualcosa che la matematica Cathy O’Neil aveva già notato nell’agosto del 2016. “Praticamente ogni messaggio lanciato da Trump si basava su dati digitali”, ha ricordato Nix. Il giorno del terzo dibattito televisivo fra Trump e Clinton, la squadra del candidato repubblicano ha testato, soprattutto attraverso Face-book, 175mila variazioni di inserzioni sui temi della campagna elettorale, pur di trovare quelle giuste. Nella maggior parte dei casi i messaggi differivano tra loro solo per dettagli microscopici, con l’obiettivo di rivolgersi ai destinatari nel modo più consono al loro profilo psicologico. C’erano titoli diversi, colori e didascalie diversi, accompagnate da una foto o da un video. Come lo stesso Nix ha spiegato in un’intervista a Das Magazin, queste variazioni quasi impercettibili servono a raggiungere anche i gruppi più piccoli: “In questo modo siamo in grado di rivolgerci in modo mirato a un intero villaggio come a un condominio, e perfino a singole persone”.
A Miami c’è un quartiere chiamato Little Haiti. Per evitare che i suoi abitanti votassero per Clinton, lo staff che seguiva la campagna elettorale di Trump ha messo in circolazione la notizia del fallimento della Clinton foundation in seguito al terremoto di Haiti. Uno degli obiettivi era tenere lontani dai seggi i potenziali elettori della candidata democratica, tra cui ci sono persone di sinistra ma indecise, molti afroamericani e molte giovani donne: queste persone, per dirla con un dipendente dell’organizzazione di Trump, andavano “scoraggiate” dall’andare a votare. L’obiettivo è stato raggiunto attraverso i cosiddetti dark post, cioè inserzioni sponsorizzate che si presentano come titoli di ultimissime notizie. I dark post compaiono su Facebook e possono essere visti solo dagli utenti che hanno profili specifici. Un esempio sono i video rivolti agli afroamericani, in cui Hillary Clinton definiva “predatori” i maschi neri.
Al Concordia summit Nix ha terminato il suo intervento proclamando la fine della pubblicità a tappeto. “Di certo i miei figli non capiranno mai questo modo di concepire le comunicazioni di massa”, ha osservato. Poi, prima di scendere dal palco, ha annunciato che uno dei candidati rimasti in corsa per le presidenziali stava usando la nuova tecnologia lanciata dalla Cambridge Analytica.
Agli attivisti della campagna di Trump è stata fornita un’app che consentiva di individuare le idee politiche degli abitanti di un posto
All’epoca era ancora impossibile capire esattamente in che modo le truppe digitali di Trump stessero prendendo di mira la popolazione statunitense, perché sferravano i loro attacchi non tanto con gli spot sulle emittenti tv in chiaro, quanto con messaggi personalizzati sui social network e sulle tv digitali. E mentre gli organizzatori della campagna elettorale di Clinton, in base al modello demografico, erano convinti che la loro candidata fosse in testa, un giornalista di Bloomberg, Sasha Issenberg, andava a San Antonio, nell’ufficio della campagna digitale per l’elezione di Trump, e con sua grande sorpresa apprendeva che lì stava per aprire i battenti “un secondo quartier generale” del candidato repubblicano.
Il personale della Cambridge Analytica (una decina di persone) al seguito della campagna di Trump ha ricevuto centomila dollari nel luglio del 2016, 250mila ad agosto e cinque milioni a settembre. Da quanto ci ha detto Nix, in totale ha incassato più di 15 milioni. A partire da luglio, infatti, agli attivisti della campagna di Trump è stata fornita un’app che consentiva di individuare le idee politiche e le personalità degli abitanti di un posto. Un’app simile era stata usata durante la campagna per la Brexit. Grazie a questo strumento i ragazzi del porta a porta erano in grado di suonare solo agli appartamenti abitati da persone segnalate come ricettive ai messaggi di Trump. Non solo: gli attivisti partivano già armati di linee guida per poter intavolare con gli elettori una conversazione “su misura” per la loro personalità. Alla fine registravano le reazioni nell’app e quei nuovi dati finivano nei computer dell’organizzazione.
Neanche questa era propriamente una novità: anche la squadra di Clinton ha fatto cose simili, ma per quanto ne sappiamo non ha usato i profili psicometrici. In ogni caso la Cambridge Analytica ha suddiviso la popolazione statunitense in 32 personalità tipo e ha concentrato gli sforzi solo su 17 stati. Inoltre, così come Kosinski era arrivato alla conclusione che gli uomini che mettono il like su Facebook ai cosmetici Mac hanno qualche probabilità in più di essere gay, la Cambridge Analytica ha scoperto che la preferenza per le automobili di fabbricazione statunitense era tipica dei potenziali elettori di Trump. Ora questi dati mostravano al candidato repubblicano quali messaggi funzionavano meglio e dove. La decisione di concentrarsi sul Michigan e sul Wisconsin nelle settimane conclusive della campagna presidenziale è stata presa sulla base dell’analisi dei dati. Insomma, il candidato Trump è diventato lo strumento per l’applicazione di un modello.
Ma in che misura i metodi della psicometria hanno effettivamente influito sul risultato delle presidenziali statunitensi? Quando l’abbiamo chiesto alla Cambridge Analytica, l’azienda ha rifiutato di fornire prove dell’efficacia della sua campagna. Probabilmente la domanda sull’importanza del targeting psicometrico per l’esito delle elezioni è destinata a restare senza risposta, eppure qualche indizio c’è. Uno è la sorprendente ascesa di Cruz alle primarie. Un altro è l’aumento del numero degli elettori andati alle urne nelle zone rurali del paese. Un altro ancora è il calo degli elettori afroamericani che hanno scelto il voto anticipato. Il fatto che Trump abbia speso relativamente poco si spiega forse con la grande efficacia delle inserzioni pubblicitarie basate sulla personalità del destinatario. Lo stesso vale per il fatto che, rispetto a Clinton, Trump ha investito molto di più nella campagna digitale che in quella televisiva. Facebook si è dimostrato l’arma più efficace per la sua vittoria, come hanno confermato i tweet dei componenti della sua squadra.
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Molti hanno sostenuto che i veri sconfitti di queste elezioni sono stati gli statistici, i cui pronostici si sono rivelati così poco azzeccati. Ma potrebbe anche essere vero l’opposto: gli statistici hanno aiutato Trump a vincere le elezioni, ma solo quelli che hanno usato il nuovo metodo. Trump storce spesso il naso quando parla di ricerca scientifica, eppure – ironia della storia – per la sua campagna elettorale si è avvalso di uno strumento altamente scientifico. Un altro grande vincitore è la Cambridge Analytica. Un suo consigliere d’amministrazione, Steve Bannon, ex presidente del giornale online di destra Breitbart News, è stato nominato consigliere strategico di Trump. Marion Maréchal-Le Pen, aspirante leader del Front national e nipote della candidata alle presidenziali francesi Marine, ha twittato che, se Bannon la invitasse a collaborare, lei accetterebbe senz’altro. Poi c’è il video della Cambridge Analytica con la registrazione di una riunione intitolata “Italia”. La Scl si è interessata attivamente alla politica italiana già nel 2012. Ora la Cambridge Analytica rifiuta ogni commento sulla notizia secondo cui sono in corso colloqui con la prima ministra britannica Theresa May, ma Nix sostiene che sta ampliando la sua base di clienti in tutto il mondo e che ha ricevuto richieste di informazioni dalla Svizzera e dalla Germania.
Analisi scientifica
Kosinski ha osservato tutti questi eventi dal suo ufficio all’università di Stanford. Lo psicologo reagisce agli eventi di questi mesi con l’arma più affilata a disposizione dei ricercatori: l’analisi scientifica. Con la collega Sandra Matz ha condotto una serie di test che saranno presto resi pubblici. Ne abbiamo visto i primi risultati e sono allarmanti. Lo studio conferma l’efficacia del targeting basato sulla personalità, dimostrando che questo tipo di marketing è in grado di attirare fino al 63 per cento di contatti in più nelle campagne su Facebook e anche 1.400 conversioni in più, proponendo prodotti e messaggi confezionati su misura per la personalità di ogni consumatore. Lo studio, inoltre, dimostra che questo metodo è adattabile: la maggior parte delle pagine di Facebook che promuovono prodotti o marchi sono condizionate dalla personalità ed è possibile mirare con precisione a molti consumatori partendo da un’unica pagina.
Il mondo si è capovolto: il Regno Unito si prepara a uscire dall’Unione europea, Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti e a Stanford lo studioso polacco Kosinski, che ha tentato di mettere in guardia il mondo dai rischi del targeting psicologico in politica, ha ricevuto nuove email di accusa. “No”, dice piano scuotendo la testa, “non è colpa mia. La bomba non l’ho costruita io: ho solo fatto vedere che esiste”.
(Traduzione di Marina Astrologo)
Questo articolo è stato pubblicato il 6 gennaio 2017 a pagina 40 di Internazionale, con il titolo “La politica ai tempi di Facebook”. L’originale era apparso sul settimanale svizzero Das Magazin.

1.9.15

Facebook: quando credendo di parlare con altri, comunichiamo solo con noi stessi

Pino Corrias (Il Fatto Quotidiano)

Nel tempo in cui si va globalizzando tutto, compresa la disperazione dei migranti che ci parlano attraverso il loro corpo, la loro allarmante invadenza fisica, il re della più grande rivoluzione immateriale e antisociale, Mark Zuckerberg, festeggia con un miliardo di persone connesse in un solo giorno, il rumore di fondo che ci avvolge (ci scalda, ci illude) e che noi chiamiamo comunicazione interattiva, equivocandone il suo sostanziale silenzio passivo. Perché credendo di parlare agli altri, stiamo in realtà parlando con noi stessi. In una collettiva regressione infantile, verso quei giochi che giocavamo da soli, ma facendo le voci di tutti i personaggi in campo.

Facebook è un kinderheim planetario. Dentro al quale la benestante moltitudine del pianeta – quella che in questo momento non sta morendo di fame, di sete, di aids, non sta per annegare su un barcone, non si sta scannando nella macelleria di una qualche lurida guerra santa – non ha assolutamente nulla da dire, ma lo dice almeno una dozzina di volte al giorno.

Lo fa postando nella propria pagina il piatto di patatine che sta per mangiare. La bevanda colorata che ha di fronte. Il bel tramonto ad ampio schermo e il brufolo stretto nel dettaglio. Lo fa scrivendo resoconti non richiesti di vacanze andate in malora e di diete da ultimare. Di amori finiti male. Di un film da vedere, di un ristorante vegano da evitare. Di un video imperdibile dove un tizio da qualche parte in America ha appena sterminato la famiglia e ora finalmente sta per suicidarsi, appena dopo la pubblicità.

La forma che in Facebook diventa sostanza, illude chi digita i messaggi che stia per davvero comunicando qualcosa a qualcuno, ma non è quasi mai vero. Il più delle volte sta solo facendo a se stesso il resoconto millimetrico della propria solitudine. E sta usando gli altri come pretesto. Sta semplicemente dicendo allo specchio “Io sono qui”. E dicendolo dieci volte al giorno, vuole convincersi di esistere per davvero almeno in quello specchio, grazie a quella scia digitale che lo avvolge di luce. Per poi cercare il coraggio di farsi la seconda domanda, quella cruciale: “C’è qualcuno in ascolto?”

Domanda che non ha quasi mai una vera risposta, anche quando ne raccoglie cento oppure mille. Perché se chi manda una voce in rete la manda a se stesso, altrettanto fa chi risponde, quasi sempre parlando d’altro, accontentandosi di cogliere uno spunto per imprimere una nuova direzione al discorso, la sua.

Un tempo mi impressionavano i primi viaggiatori di treni e metropolitane che non alzavano mai lo sguardo verso il vicino, ma concentravano tutta la loro attenzione sulla superficie dei cellulari e dei computer che li rifornivano di immagini, suoni e compagnia. Erano sparpagliati qui e là nei vagoni, in mezzo a qualche giovane donna che inspiegabilmente leggeva ancora un libro di carta e a qualche filippino che parlava (in diretta, live) con la persona in carne e ossa che gli stava accanto. Oggi il paesaggio è uniforme, quelle giovani donne con i libri sono scomparse, i filippini sono anche loro connessi, intorno solo teste reclinate in sequenza sui bagliori dello schermo degli smartphone, nessuno che si azzardi ad alzarla.

Lo stesso accade sempre più spesso – fateci caso – al ristorante, al semaforo, dove coppie di amici o fidanzati navigano ognuno per contro proprio, insieme solo nella forma, ma separati nella sostanza. Ognuno dentro un mondo lontanissimo, il proprio.

Ma l’immaterialità che ci avvolge non è e non sarà senza conseguenze. Ci sta rendendo sempre più fragili – più stupidi e specialmente più spaesati – come lo sono quei turisti d’agenzia o da crociera che credendo di viaggiare per il mondo stanno fermi in un simulacro del mondo, protetti dall’aria climatizzata, lavati e nutriti, difesi da ogni interferenza della vita reale, fossero anche il caldo e gli insetti.

La nostra crociera dentro il mondo che non esiste, finirà prima o poi per fare naufragio contro gli scogli di quello vero. La crisi economica e i tagliatori di teste non spariranno in un clic. E nemmeno le ondate dei migranti che con i loro corpi e le loro morti atroci sono un principio di realtà che ci sorprende così tanto da credere alla scorciatoia politica dei muri e delle ruspe. E se quel giorno – mentre postiamo una ricetta o un insulto su Facebook – ci verrà addosso il mondo, toccherà affrontarlo con gli occhi di nuovo aperti e il telefonino spento. Se ne saremo ancora capaci.

5.7.13

Guerra d’indipendenza da Facebook

di Mattia Ferraresi  (Il Foglio)


Piccola rivolta simbolica contro il social network che usa l’algoritmo moralizzatore per limitare le parole conservatrici. Chi dissente su gay, armi e immigrazione è un nemico dell’umanità da additare e bandire  

L’algoritmo moralizzatore di Facebook non dorme mai. Veglia, scruta, scandaglia, draga il mare “big” dei dati come nemmeno gli agenti della Nsa alla ricerca di ignominiose espressioni linguistiche da bandire in nome della decenza comune. Non c’è contesto, sfumatura o intonazione che possa intenerire gli inflessibili guardiani del parlar corretto sul social network, e finisce che l’espressione “froci” usata in un editoriale di questo giornale venga scioccamente bollata come incitamento all’odio. L’algoritmo non va troppo per il sottile. L’hate speech è roba seria, pensano dalle parti della Silicon Valley, mica possiamo lasciar correre qualunque schifezza in questa nostra pulitissima cloaca dell’amicizia internettiana, altrimenti poi sai le lamentele, le querele, gli esposti, i genitori che bloccano i profili dei figli perché Facebook non ha preventivamente bloccato gli orrori altrui e al pranzo della domenica i ragazzi hanno chiamato froci i gay come se nulla fosse.
La politica censoria di Facebook non risponde però soltanto all’esigenza della protezione legale, non è un argine per evitare che gli offesi chiamino l’avvocato. E’ una vidimazione culturale, una patente di liceità linguistica e morale.
Il sistema interroga l’algoritmo come fosse una Pizia per sapere cosa concede il volere del social network, ma almeno la Pizia era ebbra dei “dolci vapori” che inducevano il vaticinio, non consultava policy contrattualizzate per dare responsi. Facebook, insomma, ha creato uno standard e non è difficile capire che lo standard non è fatto soltanto di bandi ai contenuti pedo-pornografici ma è perfettamente sovrapponibile ai dettami della cultura liberal. Per questo ieri, nel giorno dell’indipendenza americana, un pugno di blogger conservatori ha organizzato il “Freedom from Facebook”, boicottaggio del social network che non toglierà nemmeno un minuto di sonno a Mark Zuckerberg ma coglie il senso di un assalto permanente a certi contenuti troppo di destra per poter essere socialmente accettabili.
Milizie armate? Camicie nere? Tirapugni? Saluti romani? Macché. Diane Sori è stata cacciata per sei volte da Facebook perché ha scritto che la sharia è incompatibile con la società americana. Le associazioni che difendono il Secondo emendamento alla Costituzione – che sancisce il diritto degli americani a portare armi – vengono costantemente allontanate dalla piazza facebookiana, un gruppo che critica le politiche d’immigrazione dei democratici non ha potuto postare sul social network l’annuncio di una manifestazione di dissenso contro le idee di Obama (e qui la cosa si fa ulteriormente spinosa: Zuckerberg è l’animatore di una lobby pro immigrazione), la censura di Special Operations Speaks, un gruppo di veterani che faceva campagna contro la rielezione di Obama alla Casa Bianca, ha fatto addirittura infuriare il liberal del portale Slate.
L’account di Todd Starnes, commentatore di Fox News, è stato congelato dopo che lui ha scritto il seguente post: “Sono il più politicamente scorretto possibile. Indosso un cappellino della Nra, mangio panini di Chick-fil-A, leggo il libro di ricette di Paula Deen, bevo un bicchiere enorme di tè zuccherato mentre sulla mia sedia a dondolo Cracker Barrel ascolto la Gaither Vocal Band che canta ‘Jesus Saves’”. Facebook ha ammesso che in questo caso la censura è stata una svista, perché con “un milione di segnalazioni a settimana” un “errore umano” ci può stare, come ha spiegato una portavoce dell’azienda. Errore umano? E l’algoritmo impersonale che non guarda al colore politico degli utenti? I blogger conservatori non hanno mai creduto alla storia della policy senza pregiudizi, pure leggi matematiche applicate, e hanno preso la data del 4 luglio per fare un parallelo fra il giorno in cui i Padri fondatori hanno “espresso il loro dissenso verso Re Giorgio” e quello in cui la comunità si ribella per “essere stata accusata e punita in modo tendenzioso”.
Ma più che l’ingiustizia in sé ciò che preoccupa gli animatori del boicottaggio simbolico è che le linee guida imposte da Facebook sono diventate il criterio con cui la società distingue le opinioni legittime dai deliri impresentabili, il dibattito dall’insulto. Il giudice della Corte suprema Antonin Scalia ha scritto che ormai chi è a favore del matrimonio eterosessuale è considerato un “nemico del genere umano”; su Facebook molte altre opinioni conducono a una rappresentazione simile e l’algoritmo è soltanto il buttafuori di un club che talvolta è molto esclusivo.

10.5.13

Gli scrittori contro Facebook: il caso Aldo Nove

  Giuseppe Genna

E' dunque venuto il momento, per la cecità e sordità dei bot di Zuckerberg, che si giunga a uno scontro tra il paradigma umanistico e quello digitale "vuoto". Affrontiamo la questione dei diritti digitali e delle visioni del mondo che sottendono comunità differenti: quella di automi bluette e insenzienti tra cui non vige legame di amore, e quella umana che professa l'amore come legge concreta e universale.
Il fatto parrebbe di poco conto ed è qui brevemente riassunto. Da mesi accade che il profilo Facebook dello scrittore Aldo Nove venga disabilitato per decisioni incomprensibili da parte del centro esoterico del social network, che Mark Zuckerberg nemmeno ha inventato. Per lo scontento delle migliaia di utenti che seguono quotidianamente ciò che scrive un umanista e intellettuale molto amato, quale è Aldo Nove, i suoi status gli sono disappropriati, resi irraggiungibili, azzerati in un silenzio gelido da refrigerazione dei server. Il fatto non è affatto di poco conto, se si comprende che ciò che su tale Social Network impulsa l'autore de La vita oscena: è la letteratura. L'evidente movimento della lingua e dell'immaginario che Aldo Nove scandisce con ritmo altalenante e ipnotico è praticamente identico al susseguirsi di ritmi e immagini che impulsa la stessa poesia e, con essa, ogni genere letterario. Chi non lo capisce è scemo.
Sono scemi infatti i bot di Facebook. Probabilmente in base a segnalazioni scorrette di utenti e di fake, preda delle neurosi da flame e da trolling che, ab initio, contraddistingono le bacheche delle BBS, i forum digitali e i commenti dei blog, gli algoritmi automatizzati e semiviventi di Zuckerberg, con un pizzico di provincialismo tutto italiano, intervengono a censurare automaticamente luoghi in cui la lingua si fa e l'umanista non può non militare. Si scontrano in questo modo due sentimenti e visioni del mondo opposti: da un lato l'algebra impazzita e dissociata (si legga anche: dissociativa) dell'automatismo digitale; dall'altro l'algebra per nulla impazzita, consapevole e autodiretta del poeta, che propone il nome e la forma alla comunità umana in cui opera.
Si tratta di un emblema di questi decenni stracciati, tempo di killeraggi silenziosi che faranno fruttare killeraggi per nulla silenziosi. Si tratta di un processo alienativo che porta l'umano a fare scorrere compulsivamente l'indice sul touchscreen del device prediletto, lo sguardo stolido e incantato che si svuota di presenza, una semitrance che uccide il potere della noia e del "noi": uno scrolling potenzialmente infinito, in cui incantarsi, per sostituire un'alienazione reale a un'alienazione altrettanto reale - quella della routine con quella di un fantasma di scelta.
Scegliere all'interno del recinto, costrutto con regole contraddittorie tra loro, è il fantasma del momento. Si tratta di un momento geometrico, non temporale: è l'ampiezza di mondo in cui operano gli artisti, hanno sempre operato, opereranno sempre. Si tratta dello spazio immaginario che fa maturare il memorabile e lo stupore. La seminagione linguistica e di immaginario che prosegue a realizzare uno scrittore quale Aldo Nove è esattamente praticata in tale spazio. A questa seminagione si oppone un agente antifecondativo e antiumano: è ciò che l'emblema Zuckerberg rappresenta, per esempio, nelle scene iniziali di The Social Network, capolavoro cinematografico di David Fincher.
Se si tenta il dialogo, si crolla in quel silenzio raggelato di cui sopra: il Social Network non risponde. Esso, che impone leggi dissociate, è fuori della legge. Principio di sovranità filosoficamente banale, che sperava sin dagli esordi di essere praticato da ciò che è banale e dorme insepolto nell'umano: la macchina.
A questo silenzio gelido, emblematizzato da Facebook, gli scrittori hanno da rispondere con le parole, i ritmi e le immagini che significano l'amore tra umani e senso.
Ora, ci offriamo ai media che, terra di conquista per il robotico morituro digitale, resta ancora parte di un comparto umanistico. Che si tratti del Corriere della Sera o di Repubblica o de La Stampa o de l'Unità, emblemi dei media, noi scrittori, emblemi dell'umanismo, ci rivolgiamo al giornalismo per esplicare la battaglia per i diritti digitali. Se l'appello non viene raccolto (ma dubito, poiché ancora costituiamo una notizia e un diversivo: siamo divertenti), ci sposteremo in un altro Social Network, magari Google+, che abbisogna di quota umanistica, perché non funziona ancora in forza del fatto che è "freddo", come testimoniano le ricerche di cui Big G è in possesso.
Come disse Franco Fortini nella sua Verifica dei poteri (1963, con evidenza anno fatale per la letteratura italiana): "Abbiamo ancora la testa fuori dell'acqua e siamo capaci di pensare". O, per dirla con William S. Burroughs, a proposito di Jack Kerouac: "State attenti agli scrittori, calcolate quanti jeans Levi's ha fatto vendere Jack".

22.5.12

L'impero Britannico: libero scambio e moneta unica

di Cesare Del Frate (FaceBook)

L'economista Giorgio Ruffolo, in Testa e croce. Una breve storia della moneta, spiega come l'Impero Britannico per primo creò il nesso fra dominio imperiale, libero scambio di merci, cambi monetari fissi, un sistema che avvantaggia il "centro dell'impero", cioè l'economia più competitiva, ingabbiando le altre nella gabbia dorata del libero scambio e della stabilità dei cambi fissi. Riporto un estratto illuminante del saggio (p. 103-108) (se sostituite alla parola "Inghilterra" quella "Germania", si comprende la situazione attuale dell'Unione Europea):

"A questo punto [nel XIX secolo] si verifica una decisiva mutazione della strategia britannica, con l'abbandono dell'imperialismo mercantilista e il passaggio a quello che è stato felicemente definito un imperialismo del libero scambio: una innovazione che cambierà l'Europa. La Gran Bretagna, alla svolta del nuovo secolo liquidò, non senza aver superato forti resistenze esterne, con un'audacia sostenuta da una vera rivoluzione culturale, il sistema mercantilista. La vittoria su Napoleone aveva scompaginato il sistema dirigistico che egli aveva preteso di imporre all'Europa. Ma soprattutto la rivoluzione industriale aveva rafforzato i vantaggi già acquisiti dall'Inghilterra con l'espansione commerciale, dotandola di un'industria dei beni capitali che le assicurava una indiscutibile supremazia mondiale.

Il miglior modo di preservare questa supremazia era quella di ribadirla attraverso un sistema di cambi liberi. Lo scambio libero impediva la formazione di nuovi poteri monopolistici che avrebbero intralciato la supremazia industriale conquistata dall'Inghilterra. Una volta stabiliti ccerti rapporti di forza, la "libera competizione" tra le forze non faceva che ribadirli. L'ideologia del libero scambio inoltre aveva dalla sua un formidabile potere di convinzione culturale grazie alla sua modernità paradossale (l'egoismo individuale al servizio dell'interesse pubblico) alla contestazione della grettezza dei sistemi protezionistici, al fascino che le virtù di un sistema "automatico" esercitava sulla pubblica opinione. Era comprensibile che questa ideologia si combinasse con la convinzione, sapientemente coltivata dall'intelligenza britannica, che la superiorità dell'Inghilterra convenisse a tutti.

[...] La sua moneta è stabile. Alla Banca d'Inghilterra, in origine privata, fondata da un mercante con un credito allo Stato di un milione e duecentomila sterline, fu concesso il privilegio di emettere banconote. Il sistema che il governo britannico introduce ufficialmente nel 1716 dando alla sterlina una base aurea con l'obbligo della piena convertibilità consiste in un meccanismo molto semplice. La moneta è legata all'oro da parità di cambio fisse. I disavanzi che si manifestano nel commercio con gli altri Paesi sono regolati, a quelle parità, in oro. Il Paese da cui l'oro defluisce deve ridurre proporzionalmente la quantità di moneta. Ne deriva automaticamente un abbassamento dei prezzi e dei salari che deprime l'attività produttiva, e quindi le importazioni mentre, grazie alla contrazione dei costi, stimola l'esportazione. Si torna così al riequilibrio della bilancia.

Ma emergono col tempo anche i guai di questo sistema. Quello che diveniva via via più grave era il freno deflazionistico che il sistema inseriva nell'economia. Questi effetti furono compensati dalla capacità dell'Inghilterra, grazie al suo avanzo nella bilancia commerciale, di finanziare il resto del mondo con esportazioni di capitale, fungendo quindi da banchiere mondiale. Quando, tra le due guerre mondiali, l'Inghilterra non fu più in grado di esercitare quella funzione gli effetti deflazionistici emersero.

La disciplina aurea comportava una tendenza al ribasso dei prezzi e dei salari, alla restrizione dell'attività economica, all'aumento della disoccupazione. Anche tra gli imprenditori cresceva il malumore e l'insofferenza per una disciplina del cambio che soffocava le possibilità di sviluppo economico.

Il meccanismo di funzionamento del sistema monetario internazionale [fra le due guerre mondiali] fu distrutto, il gold standard fu abbandonato. Si chiudeva così, nel 1931, il lungo secolo britannico".

15.5.12

Le Cassandre dell'economia

Cesare Del Frate (FaceBook)

Che cosa avevano previsto gli economisti circa l'introduzione dell'euro? Avevano previsto tutto, leggere per credere:

Luigi Cavallaro, 2006:

Come già accadde per l’Argentina, l’Italia affronta una crescente perdita di competitività dovuta all’aggancio ad unamoneta sopravvalutata, com’è attualmente l’euro. Ciò ha comportato la progressiva caduta delle nostreesportazioni, la crescita del deficit di parte corrente della bilancia dei pagamenti e, in un contesto dominato dapolitiche fiscali sostanzialmente restrittive, l’ovvio rallentamento della crescita. Dal canto suo, il peggioramento dellaperformance della nostra economia non può che riflettersi in un peggioramento del deficit e, di qui, del debitopubblico. E non potendo più farsi ricorso alla svalutazione per ridurre i salari reali, l’unico modo per annullare lasopravvalutazione del tasso reale di cambio può essere solo un lungo e penoso processo di deflazione di salari eprezzi.

Rudiger Dornbusch, docente al MIT, Da “Euro fantasies”, Foreign Affairs, vol. 75, n. 5, settembre/ottobre 1996, scriveva:

"La critica più seria all’Unione monetaria è che abolendo gli aggiustamenti del tasso di cambio trasferisce al mercato del lavoro il compito di adeguare la competitività e i prezzi relativi... diventeranno preponderanti recessione, disoccupazione (e pressioni sulla Bce affinché inflazioni l’economia". "Una volta entrata l’Italia, con una valuta sopravvalutata , si troverà di nuovo alle corde, come nel 1992, quando venne attaccata la lira".

Paul Krugman, nel 1998!!!!!

"L’Unione monetaria non è stata progettata per fare tutti contenti. È stata progettata per mantenere contenta la Germania – per offrire quella severa disciplina antinflazionistica che tutti sanno essere sempre stata desiderata dalla Germania, e che la Germania sempre vorrà in futuro"; "il pericolo immediato ed evidente è che l’Europa diventi giapponese [cioè crescita stagnante ndr.]: che scivoli inesorabilmente nella DEFLAZIONE [cioè diminuzione dei salari], e che quando i banchieri centrali alla fine decideranno di allentare la tensione sarà troppo tardi".

Martin Feldstein, 1997

"Anche se i 50 anni di pace dalla fine della seconda guerra mondiale fanno ben sperare, occorre ricordare che ci furono più di 50 anni di pace fra il congresso di Vienna e la guerra franco-prussiana. Inoltre, contrariamente alle speranze e alle supposizioni di Monnet e degli altri fautori dell’integrazione europea, la devastante guerra di secessione americana ci ricorda che un’unione politica formale non costituisce di per sé una garanzia contro una guerra intra-europea".

Dominick Salvatore: "Muovere verso una compiuta unione monetaria dell’Europa è come mettere il carro davanti ai buoi. Uno shock importante provocherebbe una pressione insopportabile all’interno dell’unione, data la scarsa mobilità del lavoro, l’inadeguata redistribuzione fiscale, e l’atteggiamento della Bce che vorrebbe probabilmente perseguire una politica monetaria restrittiva per mantenere l’euro forte quanto il dollaro. Questa è certamente la ricetta per notevoli problemi futuri".

Keynes, Le conseguenze economiche di Wiston Churchill, 1932:

«Se vogliono essere fedeli ai loro principi [l’agganciamento della sterlina al gold standard] le autorità della Banca d’Inghilterra dovranno sfruttare questo margine di tempo per attuare quelli che vengono eufemisticamente chiamati i riassestamenti fondamentali. [...] Che cosa significa, in parole povere? Significa che dobbiamo ridurre i salari monetari e, per loro mezzo, il costo della vita, nella convinzione che quando il processo delle compressioni a catena sarà concluso, i salari reali avranno lo stesso valore, o quasi, che avevano prima. E qual è il processo pratico attraverso cui [...] si consegue questo risultato? Uno solo: aumentando deliberatamente la disoccupazione. [...] Questa è la sana politica che si impone come risultato della sconsiderata decisione di inchiodare la sterlina ad un valore aureo che, calcolato in potere d’acquisto della manodopera inglese, ancora non ha. Ma è una politica da cui ogni essere umano o razionale dovrebbe rifuggire».

Giorgio Ruffolo, Testa e Croce, 2012:

"La disciplina aurea comportava una tendenza al ribasso dei prezzi e dei salari, alla restrizione dell'attività economica, all'aumento della disoccupazione. Anche tra gli imprenditori cresceva il malumore e l'insofferenza per una disciplina del cambio che soffocava le possibilità di sviluppo economico"

25.9.11

Facebook mostra il suo profilo migliore

Timeline in luogo dei profili per raccontare l'evoluzione dell'attività social dei singoli utenti. E ancora, app in collaborazione con sviluppatori terzi, editori e media per l'intrattenimento in blu

Dopo il redesign della sua homepage vi sono altre novità in vista per Facebook: proprio in questi giorni sta ospitando la conferenza f8 e in questa sede ha incontrato gli sviluppatori, parlato di piattaforme e in particolare di Open Graph, il sistema che integra app terze e contenuti nel flusso di notifiche e di aggiornamenti delle pagine.

Fra le maggiori novità presentate vi è Timeline: con l'idea di vedere quanto è cambiato il profilo di ogni utente da quando si è iscritto a Facebook, il social network in blu sta introducendo questa pagina che ospita contenuti in ordine cronologico e raccoglie tutto quello che si è condiviso nella propria vita su Facebook.

Si tratta, in pratica, di una sorta di album dei ricordi dedicato al proprio passato sul social network, o meglio a raccontare la propria storia, e andrà a sostituire l'attuale profilo.

L'aggiornamento, che sarà disponibile dalle prossime settimane, è stato pensato peri fornire un mezzo per guardare agli aggiornamenti più recenti senza perdere però le cose più importanti del passato: il social network sembra quasi voler sottolineare di far parte della vita dell'utente da ormai più di qualche anno e che è stato il testimone e il custode di tanti ricordi preziosi.

Al contempo, dopo aver modificato nei giorni scorsi la homepage, dimostra di voler dare una sterzata al suo look, e cambia così anche l'altro pilastro cui si fondavano le abitudini degli utenti: resta il dubbio se, senza profilo e notizie più recenti/più popolari, gli utenti sentiranno più l'aria fresca della novità o il vento gelido di un cambiamento non richiesto.

Visivamente Timeline ha il suo appeal: offre una pagina più larga del normale profilo e molti più contenuti da consultare. In alto a destra c'è posto per una grande foto che funge da copertina e che l'utente può scegliere, in basso vi sono gli eventi e le immagini passate in ordine cronologico e personalizzabili manualmente.

L'utente, poi, può arricchire questa pagina con social app, chiamate per il momento Lifestyle apps, che permettono di condividere la musica che si ascolta/ascolta, le ricette cucinate ecc.

Gli sviluppatori (o chiunque per avere l'anteprima si voglia spacciare per tale) hanno ottenuto accesso ad una versione in anteprima di Timeline proprio per far sì che possano testare le loro app.

Non solo: proprio sulle app Facebook dimostra di voler operare e, oltre all'introduzione di Timeline, ha iniziato a collaborare con diversi operatori dei media ed editori per portare applicazioni ad hoc sul social network.

A collaborare con Facebook ci sono, tra gli altri, Spotify, con un'app per ascoltare musica sul social network, Netflix, che permette così la visione di film in streaming come già sperimentato da Warner Bros, e News Corp che porta le pagine del suo The Daily sulla piattaforma blu.

Queste app, peraltro, saranno direttamente accessibili dagli utenti senza la normale procedura di installazione, la necessità di dare i permessi per pubblicare e accedere alla propria bacheca e senza dover lasciare Facebook: la novità è possibile per l'integrazione data da Open Graph e rappresenta l'intenzione di Zuckerberg di monopolizzare definitivamente il tempo degli utenti online.

Al contempo, peraltro, sembrerebbe trattarsi di un'agevolazione che rischia, se non bilanciata da un qualche tipo di funzione personalizzabile, di aggrovigliare nuovi nodi in materia di privacy.

18.2.11

La rivoluzione di Twitter non riempie la pancia

David Rieff (Internazionale)

Nell’euforia e nella preoccupazione per le rivolte nel Medio Oriente arabo – che hanno già fatto cadere due tiranni e minacciano il potere di vari altri – si è molto parlato di libertà e democrazia.

Abbiamo anche sentito una valanga di tecnochiacchiere ciberutopiche sul potenziale di emancipazione di Bluetooth e di Twitter, secondo cui i tiranni sarebbero impotenti di fronte alle nuove tecnologie. In effetti la Cnn ha dedicato molti dei suoi servizi dall’Egitto a ciò che si leggeva sui blog e che passava su Twitter, e alla decisione del regime di Mubarak di chiudere ogni accesso a internet e ai cellulari, di fronte all’intensificarsi delle manifestazioni. Come se il mezzo – come aveva previsto Marshall McLuhan – fosse davvero il messaggio, e come se l’accesso alla rivoluzione senza internet fosse bloccato.

La delusione della rete, la forza dell’esempio
Se le tecnologie dell’informazione non fossero l’idolo dei nostri tempi, nessuna persona sensata potrebbe mai credere che la rivoluzione nordafricana sia avvenuta grazie ai social network. Come osserva Evgeny Morozov nel suo bellissimo libro The net delusion, siamo di fronte alla stessa idea utopistica che fece prevedere a Marx la liberazione degli indiani dal sistema delle caste grazie alla rivoluzione delle comunicazioni prodotta dalle ferrovie dell’impero britannico. Non voglio certo dire che i social network non contano, anzi: contano molto.

Però non sono l’incarnazione della libertà né affrettano l’arrivo di chissà quale stadio paradisiaco della storia umana. Se l’insurrezione tunisina ha avuto una causa scatenante, bisognerebbe cercarla in un gesto politico tutt’altro che virtuale. Parlo della decisione di Mohamed Bouazizi – un ambulante di Sidi Bouzid, una cittadina della Tunisia centrale – di darsi fuoco per protestare contro la polizia che gli aveva sequestrato il carrettino e i prodotti che tentava di vendere, e più in generale contro la brutalità della polizia, la disoccupazione, la miseria e la mancanza di opportunità. È stato il suo gesto a scatenare le prime manifestazioni antigovernative in Tunisia, imitato da varie altre persone che si sono immolate un po’ dappertutto dall’Egitto alla Mauritania.

Ma nella narrazione dei ciberutopisti, i gesti di auto-immolazione non trovano posto: sono troppo lontani dalla mentalità di noi occidentali. Invece Twitter e Facebook sono considerati indispensabili per il nostro stile di vita. In realtà quando facciamo il tifo per i tweet di piazza Tahrir, tifiamo per noi stessi. A questo punto potreste rispondere: che c’è di male, se poi ciò per cui facciamo il tifo a Tunisi o al Cairo sono gli ideali ai quali tendiamo come persone e come società, cioè la libertà personale e la democrazia rappresentativa? E io risponderei: niente, basta non confondere la nostra condizione con la loro. E invece lo stiamo facendo.

Giustizia e speranza
La democrazia, la libertà di espressione, i diritti sono cose molto belle. Ma senza giustizia economica – cioè senza la speranza di una vita decente, di avere un’assistenza sanitaria adeguata e di non vivere nello squallore – quei sogni democratici rischia di goderseli solo una minoranza della popolazione. Non occorre essere marxisti per capire la forza dell’amara osservazione di Brecht nell’Opera da tre soldi: “Prima viene lo stomaco, poi viene la morale”. Certo, sarà una gran bella cosa se l’esercito manterrà la promessa, fatta sia in Egitto sia in Algeria, di mettere fine allo stato d’emergenza in vigore da decenni. Ma questi cambiamenti dall’alto, che porteranno vantaggi quasi immediati al ceto medio-alto serviranno a dare un destino migliore a tutti i Mohamed Bouazizi del mondo? È ancora tutto da vedere.

I tunisini poveri non sembrano molto ottimisti. Nelle settimane successive alla caduta della dittatura di Ben Ali, migliaia e migliaia di loro sono salpati a bordo di gommoni per cercare di raggiungere l’Europa e una vita migliore, e sono sbarcati nell’isola italiana di Lampedusa. Questa gente non sembra nutrire una grande fiducia di ottenere migliori prospettive economiche in una Tunisia democratica.

Ma i ragazzi che salgono a bordo di quelle carrette del mare non si mettono certo a fare la cronaca della traversata con la videocamera del telefonino, non scrivono su Twitter o su Facebook per far sapere agli amici che hanno deciso di tentare la sorte in Europa. E oggi, nel Medio Oriente arabo, questi ragazzi sono ben più numerosi dei giovani attivisti per la democrazia che noi occidentali abbiamo giustamente elogiato in queste settimane.

Quelli di cui parlo sono i fantasmi al banchetto della democrazia. E se i governi occidentali, che oggi promettono aiuti e appoggio politico, e le grandi organizzazioni filantropiche come la Open Society Foundation di George Soros, non terranno presente che lo stomaco conta quanto la morale – cosa che invece i Fratelli musulmani in Egitto ed Hezbollah in Libano hanno capito da un pezzo – quest’anno le rivoluzioni del mondo arabo faranno molto per alcuni, ma lasceranno emarginata e sofferente la maggioranza dei cittadini. Con tutte le conseguenze, sia morali sia politiche, che ne deriveranno.

Traduzione di Marina Astrologo.

Internazionale, numero 885, 18 febbraio 2011

3.1.09

Ma la community non dà soldi. Anno duro per i social network

Da Facebook a MySpace, stanno tutti attraversando difficoltà. Far pagare gli utenti? O vendersi ai grandi operatori?
di ALESSANDRO LONGO

Social network come Facebook e MySpace sono giganti dai piedi d'argilla e molti di loro nel 2009 sbatteranno il muso contro la crisi. Alcuni falliranno e chiuderanno bottega. Oppure si faranno acquistare da giganti del web. Altri dovranno ridurre le pretese e mettere in campo rimedi sgradevoli quanto necessari, come cominciare a far pagare gli utenti per alcuni servizi ora dati gratis. Il problema è che la pubblicità già ora non riesce a coprire le spese, per molti social network, e nel 2009 andrà peggio. Sono stime che vengono dai vari ricercatori esperti di questo mercato.

In particolare a parlare di rischio fallimento sono stati gli analisti di Deloitte Research: fanno notare che i social network si sono fatti prendere da manie di grandezza e ora si trovano stretti in una tenaglia, tra i costi che crescono e i ricavi pubblicitari che non aumentano a sufficienza. Ormai i principali siti pagano 100 milioni di dollari l'anno, ciascuno, per archiviare i dati degli utenti. Hanno permesso loro di pubblicare foto e video in grandi quantità. File pesanti, che occupano spazio su hard disk e server, e che consumano banda. Di contro, secondo Deloitte un social network tipico ricava per ogni utente iscritto solo qualche centesimi di euro.

Gli analisti di Ovum, un altro osservatorio di ricerca, commentano quindi che molti social network non riescono a fare ancora soldi in modo adeguato in rapporto al numero di utenti che hanno. Vale soprattutto per Facebook, che ha un modello di business ancora da sistemare, e per Twitter, che invece non ne ha affatto uno. Già, Twitter ha zero entrate: deve ancora decidere come trasformare in soldi la propria popolarità. Pessimista è anche eMarketer, uno dei più autorevoli osservatori specializzati. Nei giorni scorsi ha rivisto
le previsioni sui ricavi pubblicitari di Facebook, di MySpace e del mercato in generale, per il 2008 e il 2009. Le ha ridotte del 20 per cento circa, rispetto alle stime fatte prima della crisi.

Facebook conferma il ribasso: il ceo Mark Zuckerberg ha appena dichiarato al BusinessWeek che prevede di ricavare 250-300 milioni nel 2008, contro i 300-350 milioni stimati in precedenza.

Dai calcoli di eMarketer si apprende anche un'altra cosa: MySpace fa da solo circa metà dei ricavi del mercato totale dei social network. Facebook ricava molto di meno (meno della metà di MySpace), anche se ormai è il social network con il maggior numero di utenti al mondo (130 milioni). È come gridare che il re è nudo: Facebook è un fenomeno sociale, richiama analisi di scrittori, guru, sta esplodendo in Italia con un successo di pubblico insolito da queste parti, attirando nella rete anche utenti alle prime armi con l'informatica. Eppure non riesce a fare profitti, a differenza di MySpace, che è in positivo di poche decine di milioni di dollari l'anno.

Nel novero dei social network che bruciano soldi, tanto popolari quanto non profittevoli, c'è anche Youtube, posseduto da Google: anche questo sito come Facebook è ancora alla ricerca di un modello di business efficace. Il punto è che non è facile trasformare in denaro, con gli sponsor pubblicitari, i dati e i contenuti forniti dagli utenti. È un business molto nuovo, pochi grandi sponsor sono disposti a sperimentarlo e in tempi di crisi sono ancora più prudenti del solito. Preferiscono affidarsi a strumenti pubblicitari più consolidati, che garantiscano meglio il ritorno dell'investimento: per esempio, link sponsorizzati sui motori di ricerca.

Di contro, i social network devono stare attenti a non tirare troppo la corda con i propri utenti: li farebbero fuggire, se li bombardano di pubblicità o se sono troppo aggressivi nello sfruttare, per il marketing, i loro dati personali.

Finora il gioco comunque si è retto in piedi, perché anche se social network come Facebook e Twitter non fanno profitti possono contare sui finanziamenti dei capitalisti di ventura. Sono investitori che scommettono soldi in piccole aziende innovative e di solito hanno pazienza anche per 5-10 anni prima di vedere un ritorno. La crisi toglie però anche questo terreno dai piedi dei social network: i capitalisti di ventura stanno stringendo i cordoni della borsa.

Accedere al credito diventa più difficile, i soldi disponibili diminuiscono e vengono distribuiti con più prudenza e parsimonia. La soluzione? Secondo gli analisti i network cercheranno di differenziare le fonti di ricavo, affiancando l'e-commerce alla pubblicità. Alcuni venderanno indirettamente la musica, facendo accordi con fornitori come Amazon e Apple (iTunes). Youtube ha già fatto questo passo, MySpace lo farà l'anno prossimo (ha annunciato). Facebook punterà di più sulla vendita di servizi ai clienti (come i regali virtuali, che nel 2008 porteranno 50-60 milioni di dollari, secondo le stime di Silicon Alley Insider).

È probabile quindi che diventeranno a pagamento alcuni servizi adesso gratuiti, come la pubblicazione di video. I rimedi non basteranno a tutti per salvare il business: gli analisti stimano quindi che alcuni saranno costretti a chiudere o a farsi comprare da giganti come Google o Microsoft. I quali potrebbero usare i social network per potenziare le proprie piattaforme pubblicitarie, ora centrate sui motori di ricerca.

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