24.1.14

I sassi nello stagno di Noam Chomsky

Francesco Ferretti (il manifesto)

Festival delle scienze. In occasione dell’incontro che il grande linguista americano avrà domani all’Auditorium di Roma con Andrea Moro, una discussione sulle sue tesi, alle luce delle critiche avanzate da diversi fronti
Quando visitiamo un paese in cui si parla una lingua molto diversa dalla nostra è facile provare un
senso di forte estraneità: la difficoltà di farsi capire e di comprendere ciò che gli altri dicono alimenta
in noi la convinzione che le lingue parlate da comunità diverse siano tra loro molto eterogenee
e che gli individui che appartengono a comunità distinte siano molto diversi tra loro a causa
delle lingue che parlano. Una convinzione di questo tipo, oltre alla plausibilità intuitiva facilmente
esperibile da chiunque, ha dalla sua un modello teorico consolidato: il relativismo culturale.
Poiché a rendere gli umani ciò che sono è la cultura che li distingue e non la biologia che li accomuna,
per i fautori del relativismo culturale l’idea stessa di «natura umana» è fuorviante, se non
addirittura priva di senso: come ebbe a dire Clifford Gertz in Interpretazione di culture (Il Mulino,
1987) «tutto ciò che gli umani hanno in comune è il loro essere profondamente diversi».
Dire che le caratteristiche salienti degli individui dipendono dalla cultura, significa sostenere che gli
individui sono ciò che sono in forza di ciò che apprendono: il linguaggio, per il tratto sociale che lo
caratterizza, è l’esempio principe di questa ipotesi interpretativa.
La conformità dei modelli teorici alle intuizioni del senso comune ha determinato per decenni uno
stato di calma piatta. Poi, all’improvviso, il classico sasso nello stagno ha rotto l’incantesimo causando
un terremoto concettuale. Nel 1959 Chomsky commentò in poche pagine Il comportamento
verbale di Burrhus Skinner (Armando, 2008) dimostrando che l’idea del linguaggio fondata sulla
tabula rasa e sul ruolo costitutivo dell’apprendimento non regge alla prova dei fatti. A fare le spese
della critica di Chomsky, oltre a Skinner, è l’intero movimento teorico da lui rappresentato: se lo
schema stimolo-risposta non spiega il linguaggio umano allora il comportamentismo va bene per
i piccioni o i ratti di laboratorio, non per dar conto della natura degli individui della nostra specie.

Il «problema di Platone»
Da quella recensione in poi, il modo di intendere il linguaggio è cambiato radicalmente. Le capacità
verbali umane sono considerate oggi affare della biologia, prima che della cultura: poiché le lingue
storico-naturali hanno una natura ancillare rispetto alla facoltà di linguaggio, la verbalizzazione
umana è un frammento della mente-cervello, non l’effetto di pratiche comunicative comunitarie. La
variabilità linguistica che appare in tutta evidenza nel visitare paesi assai diversi dal nostro è un
falso indizio di diversità: il contrasto di cui facciamo esperienza riguarda soltanto il codice espressivo,
la struttura di superficie del linguaggio. La sostanza della verbalizzazione umana, tuttavia,
è rintracciabile nella sua struttura profonda, la Grammatica Universale: l’insieme di regole e principi
che governano il funzionamento della mente-cervello nei processi di produzione e comprensione linguistica.
Quando spostiamo l’attenzione dal codice espressivo al dispositivo bio-cognitivo che
governa l’acquisizione e il corretto funzionamento delle nostre capacità verbali, la diversità linguistica
lascia il posto all’idea che il linguaggio sia una caratteristica universale (come la postura
eretta) della nostra specie.
A dar man forte a Chomsky contro il relativismo culturale è l’innatismo del linguaggio: la Grammatica
Universale è un dispositivo di elaborazione presente sin dalla nascita nella mente-cervello degli
umani. Tutto il percorso concettuale di Chomsky, in effetti, può essere considerato una difesa di ciò
che il linguista americano ha chiamato il «problema di Platone»: capire come dar conto di ciò che gli
umani sanno a partire dalle limitate esperienze che hanno. Il linguaggio non può essere spiegato in
termini di apprendimento perché lo stimolo verbale è troppo povero per giustificare le sofisticate
competenze linguistiche di cui (molto presto) dispone il bambino.
Gli argomenti di Chomsky rappresentano un punto di non ritorno: la Grammatica Universale ha chiamato
tutti gli studiosi a una reimpostazione di base del modo di guardare alla comunicazione umana.
Detto questo, la proposta di Chomsky è oggi al centro di una profonda revisione. Il primo fronte di
discussione riguarda il «fuoco amico»: le critiche, mosse da autori interni al paradigma chomskiano,
relative ai rapporti tra la Grammatica Universale e la teoria dell’evoluzione. Dall’altra parte della
barricata un secondo fronte di discussione riguarda la proposta dei neoculturalisti: studiosi che, in
nome della diversità delle lingue, attaccano frontalmente la natura innata e universale del linguaggio
umano. Entrambi i fronti di discussione sollevano questioni di grande importanza per il dibattito contemporaneo
e meritano alcune parole di commento.
Per comprendere le critiche alla Grammatica Universale mosse dal fronte interno, è necessario chiamare
in causa i rapporti che il modello chomskiano intrattiene con la tradizione cartesiana. Per
Chomsky il linguaggio è un fenomeno che non ha eguali in natura: la comunicazione umana (libera
e creativa) risponde a principi affatto diversi da quelli attribuibili alla comunicazione animale (meccanica
e determinata): seguendo Cartesio, Chomsky sostiene che il linguaggio istituisce una «differenza
qualitativa» tra gli individui della nostra specie e gli altri animali. Oltre a rinforzare l’idea
degli umani come entità speciali nella natura, la tesi dell’unicità del linguaggio umano offre a Chomsky
un appiglio per sostenere che il linguaggio non è un adattamento biologico dovuto alla selezione
naturale.

Il tema della complessità
Uno degli argomenti utilizzati da Chomsky contro la selezione naturale è l’idea che il linguaggio sia
«troppo complesso» per poter essere spiegato in termini gradualistici. Il tema della complessità,
come è noto, ha da sempre rappresentato un problema per la teoria dell’evoluzione. Al fondo della
questione è l’argomento degli organi incipienti utilizzato ai tempi di Darwin da St. George Mivart in
On the genesis of species (Mcmillan, 1871): se un’ala allo stato iniziale non permette di volare che
tipo di vantaggio può assicurare a un organismo? Discorso analogo vale per il linguaggio: quale vantaggio
adattativo può rappresentare un frammento iniziale di Grammatica Universale? Poiché senza
una risposta a queste domande non è possibile pensare a un’evoluzione gradualistica degli organi
complessi, la conclusione a cui perviene Chomsky è che la Grammatica Universale sia un dispositivo
tutto-o-nulla difficilmente conciliabile con la selezione naturale. A partire da queste considerazioni,
Chomsky fa propria la proposta avanzata da Ian Tattersall in Il cammino dell’uomo (Garzanti, 2004)
di considerare l’avvento del linguaggio in riferimento alla «teoria dell’esplosione»: secondo Tattersall,
in effetti, le capacità verbali umane sono emerse in modo «improvviso e inaspettato» molto di
recente nella storia di Homo sapiens.
Michael Corballis sostiene in The recursive mind (Princeton University Press, 2011) che considerare
la verbalizzazione umana un fatto improvviso e inaspettato sia un’ipotesi miracolistica che mal si
accorda con l’idea del linguaggio come un organo biologico. A conferma della tesi di Corballis è il
fatto che gli argomenti utilizzati da Chomsky contro la selezione naturale sono gli stessi di quelli
usati da Mivart: ora, come è possibile difendere un approccio naturalistico al linguaggio utilizzando
gli stessi argomenti usati da un fervente creazionista? Criticando aspramente Chomsky su questo
punto, Steven Pinker nel libro L’istinto del linguaggio (Mondadori, 1997) sostiene che, oltre a essere
pienamente compatibile con la Grammatica Universale, la selezione naturale è l’unica spiegazione in
campo (che non sia il creazionismo) per dar conto della complessità del linguaggio.
La risposta di Chomsky non è tardata ad arrivare. Rivedendo le proprie posizioni iniziali
sull’argomento, il linguista americano sostiene oggi che il linguaggio non è così complesso come
potrebbe sembrare: se si guarda al suo componente costitutivo essenziale (la facoltà di linguaggio in
senso stretto), è lecito considerare il linguaggio un’entità piuttosto semplice. Attraverso un’ipotesi
del genere, Chomsky è in grado di superare le difficoltà segnalate dai fautori della concezione adattazionista
del linguaggio senza cedere alle lusinghe di chi lo invita a rivedere il rapporto della Grammatica
Universale con la teoria darwiniana. Con il riferimento alla semplicità del linguaggio Chomsky
apre la strada al «minimalismo» (il suo ultimo modello teorico) convalidando una tendenza che,
storicamente, ha da sempre caratterizzato il suo percorso intellettuale: dagli anni Cinquanta del
Novecento a oggi, i diversi modelli interpretativi proposti da Chomsky sono stati contrassegnati da
un processo continuo di semplificazione. A vantaggio della semplificazione gioca la questione della
plausibilità cognitiva: se la Grammatica Universale descrive i principi alla base del funzionamento
della mente-cervello, allora la Grammatica Universale sarà tanto più plausibile quanto più semplici
ed economici (in termini di energia) saranno i principi che la descrivono. Detto questo, se le difficoltà
sottolineate dagli adattazionisti valgono soltanto per una concezione del linguaggio come un
organo di estrema complessità, attraverso il minimalismo Chomsky guadagna, oltre alla plausibilità
cognitiva, anche la plausibilità evoluzionistica della Grammatica Universale.

La natura della controversia
Il secondo fronte di critiche rispetto alla Grammatica Universale, il versante «neoculturalista», fa di
nuovo appello alla questione della diversità dei codici espressivi. Al tempo delle prime polemiche
contro il relativismo, Chomsky aveva avuto vita facile: i linguisti del tempo non avevano modelli plausibili
delle strutture e dei processi cognitivi implicati nella comunicazione umana. Oggi la situazione
è molto cambiata: nessuno studioso serio pensa di poter affrontare il tema della variabilità dei codici
espressivi senza una prospettiva adeguata dei dispositivi bio-cognitivi coinvolti nell’elaborazione del
linguaggio. Si pensi, solo per citare un esempio, al caso esposto da Michael Tomasello in Le origini
della comunicazione umana (Cortina, 2009) un autore da sempre impegnato nel tentativo di conciliare
gli aspetti culturali del linguaggio con l’idea che la comunicazione umana si avvalga di un ricco
(e in larga parte innato) sistema cognitivo di elaborazione.
Detto questo, la questione controversa è un’altra: più che l’innatismo o la natura universale di certi
dispositivi di elaborazione, il punto in discussione è capire se la Grammatica Universale debba
essere considerata l’unico dispositivo da chiamare in causa per spiegare il linguaggio; se essa sia
soltanto uno dei sistemi implicati nella comunicazione linguistica; o se, nell’ipotesi più radicale, il linguaggio
umano poggi su dispositivi di elaborazione del tutto diversi dalla Grammatica Universale.
La questione è aperta e, al momento, non è chiaro come rispondere al problema. Ciò che appare sensato
sostenere allo stato attuale della ricerca è che, in una prospettiva in cui trovi spazio l’idea del
linguaggio come ibrido bio-culturale, il tema della diversità delle lingue dovrà necessariamente convergere
con la teoria degli universali innati. In una prospettiva di questo tipo, indipendentemente
dalla direzione che prenderà la ricerca in futuro, il dato certo a nostra disposizione è che il confronto
con Chomsky rappresenta comunque un elemento imprescindibile della discussione.

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