Difendiamo la decenza dello Stato e la nobiltà della politica anche dall'idea che esse esistano solo perché un giudice le fa esistere
di FRANCESCO MERLO (La Repubblica)
Rendo esplicita la cosa più indecentemente berlusconiana che ho letto e ascoltato e cioè che "l'amor nostro" (così lo chiama il Foglio) è stato assolto e dunque Repubblica... è stata condannata. Al contrario, un indecente assolto rimane un indecente. E non è certo al potere giudiziario ma ai lettori che in questi anni Repubblica ha raccontato l'indecenza di quella parodia di don Giovanni al governo.
Non era il reato penale che cercavamo quando denunziavamo l'oscenità dei pezzi di Stato con cui l'allora presidente del Consiglio pagava prima i suoi piaceri sessuali e poi le spese degli imbrogli che da quei piaceri derivavano. E abbiamo descritto con malinconia, stupore e spesso con pietà l'universo dei ricottari parassiti - quanti giornalisti di fama! - che slurpando lo servivano nell'alcova. Non pensavamo mai ai carabinieri ma qualche volta agli infermieri quando scoprivamo che la consigliera regionale che lui aveva fatto eleggere era l'avvenente mezzana che gli "briffava" le prostitute disprezzandolo in segreto con l'appellativo "culo flaccido". E ci pareva che illustrassero benissimo il potere italiano e non il codice penale quelle buste "dedicate" con cui il ragioniere privato del capo del governo stipendiava le olgettine di Stato, il segretissimo uomo che applicava freddamente una tariffa ad ogni capriccio del padrone e assegnava pure gli appartamenti a Barbara, a Marysthelle, a Miriam, pagava i gioielli, i foulard e i vestiti ad Aris, a Elisa e a Ioana... Noi non abbiamo mai ipotizzato la concussione ma, al contrario, lo strapotere spavaldo dell'impunito commentando quella telefonata che Berlusconi fece alla questura di Milano per liberare la minorenne spacciandola per la nipote di un capo di Stato estero.
Noi condannati dalla sua assoluzione? Al contrario, noi difendiamo la decenza dello Stato e la nobiltà della politica anche dall'idea che esse esistano solo perché un giudice le fa esistere. Mai ci siamo affidati al potere giudiziario o a qualche Robespierre per tutelarle. Non spetta ai magistrati custodire la dignità di un uomo che violava da sé il proprio decoro di vecchio signore prima ancora che di statista. Perso nelle sue orge pubbliche era lui stesso che non rispettava la propria privacy e rendeva immondo ed esibito quell'universo privatissimo che chiunque, e ancora di più un capo di governo, dovrebbe gestire discretamente, con pudore, equilibrio e misura, con l'"onore" ai cui lo obbliga l'articolo 54 della Costituzione. E i vizi, quando ci sono, non si espongono.
Certo, la decadenza di Berlusconi e dell'Italia con lui ("mignottocrazia" la battezzò il berlusconiano più fantasioso, Paolo Guzzanti) è stata materia che ha acceso la libidine oculare e ha certamente eccitato la morbosità di qualche giornalista. Anche noi, com'è ovvio, non siamo tutti uguali. Di sicuro posso dire che tra quelli che hanno incollato l'occhio alla serratura per inseguire il presunto ghiotto affare editoriale non c'era certamente Giuseppe D'Avanzo contro cui Giuliano Ferrara ingaggia ora una polemica alla memoria che è più di una gaffe, è un abbaglio da buona notizia, come la troppa ebbrezza che ti impedisce di godertela e ti fa invece vomitare; insomma un conato di cui siamo sicuri che Giuliano si è già vergognato. E non solo perché tra le famose dieci domande di D'Avanzo a Berlusconi non ce n'era neppure una su Ruby. Non riguardavano infatti la materia di questo processo che, invece di condannare Berlusconi, secondo i giornali di Berlusconi, ha condannato D'Avanzo e noi con lui.
La verità è che ci occupiamo di Berlusconi sin dal suo esordio romano nel febbraio del 1994 quando si muoveva sul palco imitando Frank Sinatra e incantando quasi tutti i poteri di questo Paese e pure le sue classi sociali. Abbiamo raccontato l'enormità delle leggi ad personam, il potere illegale e il mercato dei parlamentari, le corna e le barzellette al posto della politica estera, l'inedito patto di servizio tra la Rai e Mediaset, il disfacimento morale del bunga bunga, la distruzione di quel po' di destra che aveva l'Italia, tutta decoro e valori, sino al patetico crepuscolo nel cerchio magico di palazzo Grazioli. E abbiamo visto la sua Italia, che si sognava liberale, diventare a poco a poco l'Italia degli avanzi, residuale, una specie di lumpenborghesia marginale. Nessuno può assolvere Berlusconi da questo fallimento epocale che non è stato certo provocato dal voyeurismo di alcuni giornali e giornalisti. Capisco che i suoi fedeli gli vogliano ancora bene, ma l'idea che questa sentenza d'appello lo assolva da quel fallimento e dalla sua propria indecenza è solo la prosecuzione della pornografia sul terreno dell'impostura più naïve.
La sentenza di assoluzione non cancella il nostro lavoro di cronaca e di verità di tutti questi anni, al contrario lo esalta. Si illudevano che questo Appello avesse cancellato gli articoli dei nostri giornalisti. Invece li sta evidenziando. La sua biografia non l'hanno scritta i magistrati. L'abbiamo scritta noi.
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