da La Provincia Pavese
Lui ha 34 anni e lavora prevalentemente come esercente o muratore; lei ne ha 32 ed è casalinga; altrimenti fa la domestica o si occupa di assistenza domiciliare agli anziani. E’ questo il primo identikit che si ricava dal rapporto sull’immigrazione in provincia di Pavia con dati riferibili al luglio 2013 e curato dall’amministrazione provinciale. Si tratta di 64mila persone – circa il 12% della popolazione tra Pavese, Oltrepo e Lomellina – che in maggioranza provengono dall’Est d’Europa, l’84% delle quali è residente. A queste bisogna aggiungere un 12,9% di regolari non residenti. Mentre si va verso la parità di genere (51% uomini e 49% donne), la metà di chi sta qui vive con il coniuge e sono numerosi quelli con figli nati in Italia: un quarto di loro ne ha due e in generale è del 60% la quota di popolazione straniera a Pavia e provincia con un numero di figli variabile tra 1 e 4. Sono i cittadini provenienti dalla Romania la colonia più numerosa con 17mila presenze, davanti ai 9mila albanesi e poi a marocchini (6mila), egiziani (5mila), ucraini (4mila), ecuadoriani (3mila) e cinesi (2mila). Bulgari, brasiliani e dominicani si attestano nell’ordine oltre quota 900. Otto su dieci di queste persone vivono in Italia da più di 5 anni mentre sono il 20% quelle che risiedono in provincia di Pavia da oltre 10 anni. E il 21% vive in una casa di proprietà. Interessante notare che in provincia di Pavia il numero di stranieri è calato di mille unità all’anno a partire dal 2011 (allora erano 66mila), un dato che evidenzia la tendenza alla stabilizzazione di chi si integra con un lavoro a tempo indeterminato (il 27% cui vanno aggiunti un 9% di part-time, il 12,3 dei lavoratori autonomi regolari e un 1% tra imprenditori e soci di cooperativa) dove i salari compresi tra 750 e 1500 euro costituiscono il 67% delle situazioni. Sono invece il 19% quelli che vivono con meno di 750 euro. Sempre la metà di loro dichiarano di guardare la tv, leggere i giornali italiani e di frequentare italiani e stranieri in egual misura. E nel 44,6% dei casi sono interessati a quello che succede qui da noi. Quanto al livello di studio a fronte di un 5.8% che non possiede alcun titolo, il 13,2% ha un titolo universitario o post laurea, l’8.7% la licenza elementare, il 34,2% un titolo secondario di primo grado e il 38.2% ha raggiunto quello di secondo grado. Nella nostra provincia, più lenta delle altre in Lombardia a cambiare volto, sono interessanti le risposte degli immigrati ai quesiti utili a delinerarne un profilo di aspirazioni e interessi. Sei su dieci vogliono fermarsi qui definitivamente o per un lungo periodo, mentre circa il 90% aspira alla cittadinanza italiana almeno per i figli. (su Twitter @stepallaroni)
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Le 9 balle sull'immigrazione smentite dai numeri
Odysseo
Negli ultimi tempi fra le provocazioni di Salvini, i blitz di Borghezio e Casapound, le aggressioni in autobus o per strada ai danni di africani accusati di portare l’Ebola, gli scontri di Tor Sapienza, le esternazioni di Grillo circa il trattamento da riservare a chi arriva dal mare, il clima attorno agli stranieri si è di nuovo fatto abbietto e a tratti pericoloso. Ho voluto allora confutare punto per punto le argomentazioni più usate dai razzisti a vario titolo, tanto per fare chiarezza e dimostrare che il razzismo rimane un basso istinto che va semplicemente educato e soppresso e non ha alcuna ragione razionale per essere professato.
1) “Vengono tutti in Italia”
Gli stranieri in Italia sono poco più di 5 milioni e mezzo, ossia l’8% della popolazione. Solo 300 mila sono gli irregolari. Il Regno Unito è il paese europeo al primo posto per numero di nuovi immigrati con circa 560.000 arrivi ogni anno. Seguono la Germania, la Spagna e poi l’Italia. La Germania è invece il Paese Ue con il maggior numero di stranieri residenti con 7,4 milioni di persone. Seguono la Spagna e poi l’Italia. Siamo sesti inoltre per numero di richieste d’asilo (27.800). Da notare che il Paese col più alto numero di immigrati è anche l’unico che in questo momento sta crescendo economicamente.
2) “Li manteniamo con i nostri soldi”
Gli stranieri con il loro lavoro contribuiscono al Pil italiano per l’11% , mentre per loro lo Stato stanzia meno del 3% dell’intera spesa sociale. Inoltre gli immigrati ci pagano letteralmente le pensioni. L’età media dei lavoratori non italiani è 31 anni, mentre quella degli italiani 44 anni. Bisognerà aspettare il 2025 perché gli stranieri pensionati siano uno ogni 25, mentre gli italiani pensionati sono oggi 1 su 3. Ecco che i contributi versati dagli stranieri (circa 9 miliardi) oggi servono a pagare le pensioni degli italiani.
3) “Ci rubano il lavoro”
“La crescita della presenza straniera non si è riflessa in minori opportunità occupazionali per gli italiani”, è la Banca d’Italia a parlare. Il lavoro straniero in Italia ha colmato un vuoto provocato da fattori demografici. Prendiamo il Veneto. Fra il 2004 e il 2008 ci sono stati 65.000 nuovi assunti all’anno, 43.000 giovani italiani e 22.000 giovani stranieri. Nel periodo in cui i nuovi assunti sono presumibilmente nati, negli anni dal 1979 al 1983, la natalità è stata di 43.000 unità all’anno. È facile vedere allora che se non ci fossero stati gli immigrati, 22.000 posti di lavoro sarebbero rimasti vacanti. Questo al Centro-Nord. La situazione è un po’ più problematica al Sud, perché in un’economia fragile e meno strutturata spesso gli stranieri accettano paghe più basse e condizioni lavorative massacranti, rubando qualche posto agli italiani. A livello nazionale, ad ogni modo, il fenomeno non è apprezzabile.
4) “Non rispettano le leggi”
Negli ultimi 20 anni la presenza di stranieri in Italia è aumentata vertiginosamente, fra il 1998 e 2008 del 246% dice l’Istat. Eppure la delinquenza non è aumentata, ha avuto solo trascurabili variazioni: nel 2007 il numero dei reati è stato simile al 1991. Di solito si ha una percezione distorta del fenomeno perché si considerano fra i reati degli stranieri quelli degli irregolari che all’87% sono accusati di reato di clandestinità il quale consiste semplicemente nell’aver messo piede su territorio italiano.
5) “Portano l’Ebola”
L’Africa è un continente enorme, non una nazione. Le zone in cui l’Ebola ha maggiormente colpito sono Liberia e Sierra Leone. Da queste zone non giungono immigrati in Italia dove invece arrivano da Libia, Eritrea, Egitto e Somalia. I sintomi dell’Ebola poi si manifestano in 3 o 4 giorni e un migrante contagiato non potrebbe mai viaggiare per settimane giungendo fino a noi. Infine il caso Ebola è scoppiato ad aprile 2014, nei primi 8 mesi del 2014 in Italia sono arrivati circa 100 mila immigrati e neanche uno che ci abbia trasmesso l’Ebola.
6) “Aiutiamoli a casa loro”
È la frase con cui i razzisti di solito si autoassolvono, come se aiutarli a casa loro non abbia dei costi e dei rischi, e come se i nostri Governi non avessero già lavorato per affossare questa possibilità. Nel 2011, il Governo Italiano ha operato un taglio del 45% ai fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo, stanziando effettivamente 179 milioni di euro, la cifra più bassa degli ultimi 20 anni. Destiniamo a questo ambito lo 0,2 del Pil collocandoci agli ultimi posti per stanziamenti fra i Paesi occidentali. Nel 2013 il Servizio Civile ha messo a disposizione 16.373 posti di cui solo 502 all’estero, in sostanza il 19% di posti finanziati in meno rispetto al bando del 2011.
7) “Sono avvantaggiati nelle graduatorie per la casa”
Ovviamente fra i criteri per l’assegnazione delle case popolari non compare la nazionalità. I parametri di cui si tiene conto sono il reddito, numero di componenti della famiglia se superiore a 5 unità, l’età, eventuali disabilità. Gli immigrati di solito sono svantaggiati perché giovani, in buona salute e con piccoli gruppi famigliari (poiché non ricongiunti). Nel bando del 2009 indetto dal comune di Torino, il 45% dei richiedenti era straniero, solo il 10% di essi si è visto assegnare una casa. Nel comune di Genova, su 185 abitazioni messe a disposizione, solo 9 sono andate ad immigrati. A Monza su 100 assegnazioni solo 22 agli stranieri. A Bologna su 12.458 alloggi popolari assegnati, 1.122 agli stranieri.
8) “Prova a costruire una chiesa in un paese islamico”
È l’argomento che molti usano perché non si costruiscano moschee in Occidente o perché si lasci il crocifisso nei luoghi pubblici. È un argomento davvero bislacco: per quale motivo se gli altri sono incivili dovremmo esserlo anche noi? E comunque gli altri non sono incivili. In Marocco i cattolici sono meno dello 0,1% della popolazione eppure ci sono 3 cattedrali e 78 chiese. Si contano 32 cattedrali in Indonesia, 1 cattedrale in Tunisia, 7 cattedrali in Senegal, 5 cattedrali in Egitto, 4 cattedrali e 2 basiliche in Turchia, 4 cattedrali in Bosnia, 1 cattedrale negli Emirati Arabi Uniti, 3 monasteri in Siria, 7 cattedrali in Pakistan e così via.
9) “I musulmani ci stanno invadendo”
Al primo posto fra gli stranieri presenti in Italia ci sono i rumeni che sono oltre un milione. I rumeni per la maggior parte sono ortodossi. In seconda posizione ci sono gli albanesi, quasi 600 mila, per il 70% non praticanti (lascito della dominazione sovietica) e, fra i rimanenti, al 60% musulmani e al 20% ortodossi. Seguono i marocchini, quasi 500 mila, quasi totalmente musulmani, e ancora i cinesi, circa 200 mila, quasi tutti atei. Dunque in larga parte gli stranieri in Italia sono cristiani, oppure atei, solo in piccola parte professanti l’Islam.
“Un buon capro espiatorio vale quasi quanto una soluzione”: A. Bloch.
Andrea Colasuonno
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
24.11.14
Stranieri in provincia di Pavia (e Le 9 balle sull'immigrazione smentite dai numeri)
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13.11.14
I frutti velenosi di Salvini
Alessandro Dal Lago
Da quando Massimo D’Alema se ne uscì con la famosa trovata della «costola della classe operaia», il fenomeno Lega è stato per lo più sottovalutato. Blandito e vezzeggiato a destra e sinistra, e anche temuto quando era al governo e sembrava sul punto di prendere il potere, il partito di Bossi non è stato compreso dai più nella sua natura profondamente fascista. E quindi non solo truce nelle parole d’ordine anti-meridionali, xenofobe, secessioniste e anti-europee, ma anche profondamente opportunista, capace di mutare obiettivi e alleanze, pur mantenendo la sua natura reazionaria.
Prendiamo il giovane Salvini. Nel momento in cui la Lega di Bossi si è rivelata come un partito arraffone, corrotto come qualsiasi altro, Salvini ha dato una sterzata proponendosi come alternativa «giovanile», radicale e scapestrata. Quindi, niente più elmi con le corna, frescacce celtiche e tutto il folclore che copriva gli inciuci con Formigoni e Berlusconi, ma una politica di movimento e, soprattutto, una dimensione nazionale in cui far confluire la destra estrema e iper-nazionale che non può identificarsi con il secessionismo. Ecco, allora, l’alleanza con in Europa con Marine Le Pen e poi, da noi, con Casa Pound, imbarcata in un progetto che vede la Lega come partito leader della destra italiana post-berlusconiana. Altro che Alfano, borghese democristiano e doroteo fino al midollo.
Ma per realizzare questo progetto, che sembra finora coronato da un certo successo, anche se limitato, a Salvini non bastano l’anti-europeismo e il populismo, un terreno politico-elettorale su cui Grillo, anche se in declino, ha piazzato la sua ipoteca. Il leader della Lega ha bisogno di far crescere la tensione, di scaldare gli animi, di mobilitare, se non altro nell’opinione pubblica, quell’ampio pezzo di società (un tempo si sarebbe detto la «maggioranza silenziosa») che la pensa come lui in tema di tasse, Europa e immigrati, anche se magari non si dichiara ideologicamente fascista o leghista. E niente di meglio, in questo senso, che andare a provocare nomadi e stranieri, che da quasi trent’anni fanno da parafulmine per tutti i mal di pancia nazionali.
Ed ecco allora la provocazione di Bologna contro i Sinti, cittadini italiani in tutto e per tutto che hanno il torto di non vivere come i buoni leghisti del varesotto e della bergamasca. Ecco gli striscioni «No all’invasione» davanti ai ricoveri di rifugiati e richiedenti asilo, gente che non è venuta lì in macchina o in Suv, come i coraggiosi leghisti, ma ha attraversato mezzo mondo a piedi ed è scampata ai naufragi. Ed ecco ora l’oscena idea di andare a Tor Sapienza, a Roma, a gettare benzina sul fuoco acceso da estremisti di destra e, sembra, dai pusher che non vogliono centri per stranieri. Provocazioni fredde, calcolate e mirate, appunto, al ventre di quella società che mai andrebbe a tirare pietre contro gli stranieri, ma si rallegra profondamente quando qualcuno lo fa al posto suo.
Verrebbe voglia di archiviare tutto questo come il solito fascismo della solita Italia, ma sarebbe un errore. Perché oggi gli anticorpi sono deboli e frammentari. Né l’attuale maggioranza, che ha imbarcato un bel pezzo del vecchio centro-destra, sembra minimamente preoccupata da questa destra spregiudicata e movimentista. E basta dare un’occhiata ai commenti e ai blog dei quotidiani nazionali per capire quanto sia ampio il sostegno ai Salvini di turno.
D’altra parte, è sempre la vecchia storia. Quanto più le prospettive sono incerte, il futuro opaco, il lavoro mancante, il degrado della vita pubblica in aumento, tanto più è facile scaricare la frustrazione sugli alieni a portata di mano. E anche questo è un frutto avvelenato di qual thatcherismo appena imbellettato che passa sotto il nome di renzismo.
Da quando Massimo D’Alema se ne uscì con la famosa trovata della «costola della classe operaia», il fenomeno Lega è stato per lo più sottovalutato. Blandito e vezzeggiato a destra e sinistra, e anche temuto quando era al governo e sembrava sul punto di prendere il potere, il partito di Bossi non è stato compreso dai più nella sua natura profondamente fascista. E quindi non solo truce nelle parole d’ordine anti-meridionali, xenofobe, secessioniste e anti-europee, ma anche profondamente opportunista, capace di mutare obiettivi e alleanze, pur mantenendo la sua natura reazionaria.
Prendiamo il giovane Salvini. Nel momento in cui la Lega di Bossi si è rivelata come un partito arraffone, corrotto come qualsiasi altro, Salvini ha dato una sterzata proponendosi come alternativa «giovanile», radicale e scapestrata. Quindi, niente più elmi con le corna, frescacce celtiche e tutto il folclore che copriva gli inciuci con Formigoni e Berlusconi, ma una politica di movimento e, soprattutto, una dimensione nazionale in cui far confluire la destra estrema e iper-nazionale che non può identificarsi con il secessionismo. Ecco, allora, l’alleanza con in Europa con Marine Le Pen e poi, da noi, con Casa Pound, imbarcata in un progetto che vede la Lega come partito leader della destra italiana post-berlusconiana. Altro che Alfano, borghese democristiano e doroteo fino al midollo.
Ma per realizzare questo progetto, che sembra finora coronato da un certo successo, anche se limitato, a Salvini non bastano l’anti-europeismo e il populismo, un terreno politico-elettorale su cui Grillo, anche se in declino, ha piazzato la sua ipoteca. Il leader della Lega ha bisogno di far crescere la tensione, di scaldare gli animi, di mobilitare, se non altro nell’opinione pubblica, quell’ampio pezzo di società (un tempo si sarebbe detto la «maggioranza silenziosa») che la pensa come lui in tema di tasse, Europa e immigrati, anche se magari non si dichiara ideologicamente fascista o leghista. E niente di meglio, in questo senso, che andare a provocare nomadi e stranieri, che da quasi trent’anni fanno da parafulmine per tutti i mal di pancia nazionali.
Ed ecco allora la provocazione di Bologna contro i Sinti, cittadini italiani in tutto e per tutto che hanno il torto di non vivere come i buoni leghisti del varesotto e della bergamasca. Ecco gli striscioni «No all’invasione» davanti ai ricoveri di rifugiati e richiedenti asilo, gente che non è venuta lì in macchina o in Suv, come i coraggiosi leghisti, ma ha attraversato mezzo mondo a piedi ed è scampata ai naufragi. Ed ecco ora l’oscena idea di andare a Tor Sapienza, a Roma, a gettare benzina sul fuoco acceso da estremisti di destra e, sembra, dai pusher che non vogliono centri per stranieri. Provocazioni fredde, calcolate e mirate, appunto, al ventre di quella società che mai andrebbe a tirare pietre contro gli stranieri, ma si rallegra profondamente quando qualcuno lo fa al posto suo.
Verrebbe voglia di archiviare tutto questo come il solito fascismo della solita Italia, ma sarebbe un errore. Perché oggi gli anticorpi sono deboli e frammentari. Né l’attuale maggioranza, che ha imbarcato un bel pezzo del vecchio centro-destra, sembra minimamente preoccupata da questa destra spregiudicata e movimentista. E basta dare un’occhiata ai commenti e ai blog dei quotidiani nazionali per capire quanto sia ampio il sostegno ai Salvini di turno.
D’altra parte, è sempre la vecchia storia. Quanto più le prospettive sono incerte, il futuro opaco, il lavoro mancante, il degrado della vita pubblica in aumento, tanto più è facile scaricare la frustrazione sugli alieni a portata di mano. E anche questo è un frutto avvelenato di qual thatcherismo appena imbellettato che passa sotto il nome di renzismo.
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8.11.14
Catastrofe vicina, Europa al bivio
Roberto Romano, Paolo Pini (il manifesto)
Eurocrack. Ultimi dati Ocse: l’austerity ha tragicamente fallito. Bce e Commissione lo ammettono. Ma ora la crisi rischia di essere irreversibile e allo stato non esiste leadership europea che sia capace di invertire la rotta
L’Europa attraversa una crisi di identità senza precedenti. La Bce è pronta ad adottare misure non convenzionali, dando mandato allo staff della stessa di preparare ulteriori misure se necessarie. La novità è l’unanimità della decisione. Decisione improvvisa?
Al netto delle discussioni mezzo stampa sul conflitto tra Germania e Mario Draghi, la situazione economica è peggiorata a tal punto che serve qualcosa di più dei bassi tassi e delle agevolazioni per il credito alle imprese. Se non cresce la domanda è difficile immaginare una inversione di tendenza degli investimenti privati.
Nel frattempo sono arrivate anche le previsioni economiche della Commissione Europea. Sono lo specchio fedele del fallimento delle politiche fino a oggi realizzate, e manifestano la difficoltà di intraprendere scelte capaci di portare fuori dalla crisi l’Europa. Se anche Jyrki Katainen sostiene che «la situazione economica e dell’occupazione non sta migliorando con sufficiente rapidità. La Commissione europea si impegna ad avvalersi di tutti gli strumenti e le risorse disponibili per aumentare la crescita e l’occupazione in Europa. Proporremo un piano di investimenti di 300miliardi di euro per rilanciare e sostenere la ripresa economica», qualcosa nella Commissione comincia a muoversi.
Lo shock ciclico del Pil intervenuto dal 2008 per quasi tutti i paesi euro ha prodotto danni persistenti nel sistema economico. Non solo le imprese tendono a contrarre gli investimenti mentre l’occupazione perde competenze con effetti cumulativi, ma la persistenza del processo «ciclico» negativo intacca le capacità produttive del sistema economico nel suo insieme.
In altri termini la crisi ha eroso la crescita futura dell’Europa, mentre il modello di equilibrio utilizzato dalla Commissione Europea avvicina sempre di più la crescita potenziale e quella reale. Nei fatti cresce la disoccupazione strutturale, cioè quella sulla soglia della crescita dell’inflazione, mentre la crescita del Pil potenziale, cioè sostenibile senza spinte inflattive, restando al solo caso dell’Italia, diventa addirittura negativa.
Questo è anche l’esito dell’errato modello utilizzato da Bruxelles e applicato testardamente per disegnare politiche economiche pro-cicliche: recessive quando il Pil cala, espansive quando il Pil cresce.
Esattamente il contrario di quello che servirebbe.
L’Europa si trova così davanti a un bivio. Un bivio che può essere rappresentato da un prima della crisi (2001–2007) e un dopo la crisi (2008–2014). Nei 7 anni pre-crisi la crescita del Pil ha registrato un valore cumulato prossimo al 14% per i paesi di area euro, che diventa negativo (-0,4%) nei 7 anni successivi.
Sono in particolare i paesi che hanno adottato pedissequamente le politiche europee a manifestare la maggiore differenza e sofferenza.
L’Italia passa da una crescita cumulata del 9% tra il 2001 e il 2007, ad una crescita negativa del 9% tra il 2008 e il 2014.
Proprio ieri l’Ocse ha previsto una crescita dello 0,2% per il 2015, penultima tra i Paesi G20. Valori migliori registra la Francia: rispettivamente +12,7% e +1%, ma la crescita del Pil potenziale si riduce a decimali. Persino la Germania passa da una crescita del 10% a un «modesto» +5,7%.
Inevitabilmente gli investimenti fissi seguono il ciclo economico, anzi contribuiscono a peggiorarlo. Se nel periodo tra il 2001 e il 2007 gli investimenti crescono del 17% per l’area euro, a partire dal 2008 registrano una contrazione del 20,6%. L’Italia è il paese che ha la maggiore divaricazione. Tra il 2001 e il 2007 questi crescono del 15%, ma durante la crisi crollano del 35%. La Francia fa solo un po’ meglio: dal +20% al –15.
La caduta del Pil potenziale e di quello effettivo, soprattutto per responsabilità delle politiche di austerità adottate come conseguenza del modello economico di riferimento dell’Ue, ha fatto crescere il rapporto debito/Pil nonostante la contrazione della spesa pubblica,la deregolamentazione del lavoro e la liberalizzazione di beni e servizi. Anzi, meglio sarebbe dire, a causa dell’ottusità di queste politiche.
Se nel periodo pre-crisi la crescita del Pil ha permesso di ridurre il rapporto debito/Pil, con il 2008 questo è cresciuto inesorabilmente e inevitabilmente.
Anche in Germania, benché abbia beneficiato di fattori eccezionali: il valore implicito più basso dell’euro-marco (40%) e politiche coerenti con il rafforzamento dell’export. Potremmo anche considerare la quota di debito pubblico «grigio» presso le loro casse deposito e presiti, ma il senso non cambia.
Quindi oggi le politiche economiche europee attraversano una fase persino molto più grave per credibilità di quella che sino a ieri le caratterizzavano. Le previsioni autunnali della Commissione sono, in qualche misura, lo specchio fedele della «incredulità» di quello che accade. Incredulità che diventa patetica se prendiamo le proiezioni di crescita per il 2015. Se dovessimo utilizzare la distanza tra le previsioni iniziali e il consuntivo degli anni passati, per l’Europa possiamo attenderci una crescita negativa tra il –1 ed il –1,5% per il 2015, mentre per l’Italia possiamo stimare una contrazione non inferiore al 2%.
È una ipotesi inaccettabile anche per i custodi dell’ortodossia. Le politiche monetarie non funzionano perché non arrivano là dove sarebbero più utili, nel mentre si riduce la domanda di credito in ragione delle prospettive per il futuro.
Qualcosa accadrà perché l’Europa non può consumare un ennesimo anno come o peggio di quello appena trascorso.
Peccato che abbiamo una direzione politica incapace di riprogettare una Europa che esca dalla depressione e all’altezza della sfida che l’attende.
Eurocrack. Ultimi dati Ocse: l’austerity ha tragicamente fallito. Bce e Commissione lo ammettono. Ma ora la crisi rischia di essere irreversibile e allo stato non esiste leadership europea che sia capace di invertire la rotta
L’Europa attraversa una crisi di identità senza precedenti. La Bce è pronta ad adottare misure non convenzionali, dando mandato allo staff della stessa di preparare ulteriori misure se necessarie. La novità è l’unanimità della decisione. Decisione improvvisa?
Al netto delle discussioni mezzo stampa sul conflitto tra Germania e Mario Draghi, la situazione economica è peggiorata a tal punto che serve qualcosa di più dei bassi tassi e delle agevolazioni per il credito alle imprese. Se non cresce la domanda è difficile immaginare una inversione di tendenza degli investimenti privati.
Nel frattempo sono arrivate anche le previsioni economiche della Commissione Europea. Sono lo specchio fedele del fallimento delle politiche fino a oggi realizzate, e manifestano la difficoltà di intraprendere scelte capaci di portare fuori dalla crisi l’Europa. Se anche Jyrki Katainen sostiene che «la situazione economica e dell’occupazione non sta migliorando con sufficiente rapidità. La Commissione europea si impegna ad avvalersi di tutti gli strumenti e le risorse disponibili per aumentare la crescita e l’occupazione in Europa. Proporremo un piano di investimenti di 300miliardi di euro per rilanciare e sostenere la ripresa economica», qualcosa nella Commissione comincia a muoversi.
Lo shock ciclico del Pil intervenuto dal 2008 per quasi tutti i paesi euro ha prodotto danni persistenti nel sistema economico. Non solo le imprese tendono a contrarre gli investimenti mentre l’occupazione perde competenze con effetti cumulativi, ma la persistenza del processo «ciclico» negativo intacca le capacità produttive del sistema economico nel suo insieme.
In altri termini la crisi ha eroso la crescita futura dell’Europa, mentre il modello di equilibrio utilizzato dalla Commissione Europea avvicina sempre di più la crescita potenziale e quella reale. Nei fatti cresce la disoccupazione strutturale, cioè quella sulla soglia della crescita dell’inflazione, mentre la crescita del Pil potenziale, cioè sostenibile senza spinte inflattive, restando al solo caso dell’Italia, diventa addirittura negativa.
Questo è anche l’esito dell’errato modello utilizzato da Bruxelles e applicato testardamente per disegnare politiche economiche pro-cicliche: recessive quando il Pil cala, espansive quando il Pil cresce.
Esattamente il contrario di quello che servirebbe.
L’Europa si trova così davanti a un bivio. Un bivio che può essere rappresentato da un prima della crisi (2001–2007) e un dopo la crisi (2008–2014). Nei 7 anni pre-crisi la crescita del Pil ha registrato un valore cumulato prossimo al 14% per i paesi di area euro, che diventa negativo (-0,4%) nei 7 anni successivi.
Sono in particolare i paesi che hanno adottato pedissequamente le politiche europee a manifestare la maggiore differenza e sofferenza.
L’Italia passa da una crescita cumulata del 9% tra il 2001 e il 2007, ad una crescita negativa del 9% tra il 2008 e il 2014.
Proprio ieri l’Ocse ha previsto una crescita dello 0,2% per il 2015, penultima tra i Paesi G20. Valori migliori registra la Francia: rispettivamente +12,7% e +1%, ma la crescita del Pil potenziale si riduce a decimali. Persino la Germania passa da una crescita del 10% a un «modesto» +5,7%.
Inevitabilmente gli investimenti fissi seguono il ciclo economico, anzi contribuiscono a peggiorarlo. Se nel periodo tra il 2001 e il 2007 gli investimenti crescono del 17% per l’area euro, a partire dal 2008 registrano una contrazione del 20,6%. L’Italia è il paese che ha la maggiore divaricazione. Tra il 2001 e il 2007 questi crescono del 15%, ma durante la crisi crollano del 35%. La Francia fa solo un po’ meglio: dal +20% al –15.
La caduta del Pil potenziale e di quello effettivo, soprattutto per responsabilità delle politiche di austerità adottate come conseguenza del modello economico di riferimento dell’Ue, ha fatto crescere il rapporto debito/Pil nonostante la contrazione della spesa pubblica,la deregolamentazione del lavoro e la liberalizzazione di beni e servizi. Anzi, meglio sarebbe dire, a causa dell’ottusità di queste politiche.
Se nel periodo pre-crisi la crescita del Pil ha permesso di ridurre il rapporto debito/Pil, con il 2008 questo è cresciuto inesorabilmente e inevitabilmente.
Anche in Germania, benché abbia beneficiato di fattori eccezionali: il valore implicito più basso dell’euro-marco (40%) e politiche coerenti con il rafforzamento dell’export. Potremmo anche considerare la quota di debito pubblico «grigio» presso le loro casse deposito e presiti, ma il senso non cambia.
Quindi oggi le politiche economiche europee attraversano una fase persino molto più grave per credibilità di quella che sino a ieri le caratterizzavano. Le previsioni autunnali della Commissione sono, in qualche misura, lo specchio fedele della «incredulità» di quello che accade. Incredulità che diventa patetica se prendiamo le proiezioni di crescita per il 2015. Se dovessimo utilizzare la distanza tra le previsioni iniziali e il consuntivo degli anni passati, per l’Europa possiamo attenderci una crescita negativa tra il –1 ed il –1,5% per il 2015, mentre per l’Italia possiamo stimare una contrazione non inferiore al 2%.
È una ipotesi inaccettabile anche per i custodi dell’ortodossia. Le politiche monetarie non funzionano perché non arrivano là dove sarebbero più utili, nel mentre si riduce la domanda di credito in ragione delle prospettive per il futuro.
Qualcosa accadrà perché l’Europa non può consumare un ennesimo anno come o peggio di quello appena trascorso.
Peccato che abbiamo una direzione politica incapace di riprogettare una Europa che esca dalla depressione e all’altezza della sfida che l’attende.
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4.11.14
Come cambia il debito pubblico #fuoridalleuro (Signori "venghino! venghino!" ad ammirare la strabiliante esibizione del mago Grillo per far sparire lo spread)
(dal Blog di Beppe Grillo)
Come cambia il debito pubblico #fuoridalleuro
"Il debito pubblico è una sorta di mito, su di esso girano voci, falsità, mezze verità. Questa percezione sfumata, inafferrabile, fa del debito pubblico uno strumento molto utile nelle mani di chi governa. Non appena un'opposizione in parlamento o nella società alza la testa contro la deriva neoliberista dell'Europa e dell'Italia viene sventolato ad arte il ricatto del debito pubblico. Si invoca una situazione di emergenza, lo spread che potrebbe tornare ad alzarsi, la mancanza di soldi, la sfiducia del Dio Mercato sui titoli di Stato...
Sul debito pubblico, quindi, va fatta chiarezza. Prima di poter deliberare bisogna conoscere, e l'obiettivo del M5S è che non vi siano più miti e superstizioni di fronte alle quali il cittadino si sente troppo debole per poter decidere.
Sul debito pubblico, quindi, va fatta chiarezza. Prima di poter deliberare bisogna conoscere, e l'obiettivo del M5S è che non vi siano più miti e superstizioni di fronte alle quali il cittadino si sente troppo debole per poter decidere.
A chi e a cosa serve il debito pubblico?
Allo Stato per finanziare la spesa pubblica non coperta dalle tasse dei suoi cittadini. In altre parole, quando lo Stato spende a deficit (spesa > tasse) chiede in prestito i soldi che le tasse non forniscono.
Cos'è e come funziona il debito pubblico?
Lo Stato si finanzia emettendo dei titoli di debito a diversa scadenza (Bot, Cct, Btpnel caso italiano). I risparmiatori che vogliano farlo, siano essi nazionali o esteri, comprano questi titoli di debito, finanziando lo Stato che li ha emessi. Alla scadenza dei titoli, lo Stato ha l'obbligo di restituire al creditore la somma presa in prestito, mentre durante il periodo di prestito lo Stato eroga al creditore gli interessi. Alla fine dei giochi il creditore che ha prestato 100 si vedrà restituito 100 più il tasso di interesse del titolo di debito che ha acquistato.
Il vero problema, quindi, sono gli interessi. Se questi aumentano troppo, una quota sempre maggiore di spesa pubblica dovrà essere dedicata ogni anno al loro pagamento.
I tassi di interesse aumentano quando lo Stato non riesce a vendere tutti i titoli che mette all'asta e quindi deve aumentare il loro rendimento per attrarre investitori, oppure quando i titoli di Stato vengono venduti in massa da chi li ha comprati, di solito per mancanza di fiducia circa la loro restituzione. Il costo del debito dipende quindi dalla fiducia che hanno i risparmiatori nei confronti dello Stato debitore.
Sarà ovvio, a questo punto, che possedere o meno la propria moneta fa per lo Stato, e per i suoi cittadini, tutta la differenza del mondo. L'Italia non può creare l'euro, ma poteva creare la lira.
Se lo Stato può creare la moneta con la quale deve ripagare il suo debito, può SEMPRE garantire il pagamento dei titoli di Stato che ha venduto. Se invece non può emettere la moneta deve procurarsela centesimo per centesimo per ripagare i titoli e gli interessi. Per farlo dovrà tassare ancor più i cittadini, tagliare la spesa produttiva e indebitarsi ancora. È il paradosso del debito che ripaga altro debito e si moltiplica su se stesso. Un circolo vizioso che parte dalla mancata sovranità monetaria.
I creditori avranno più fiducia in uno Stato sovrano della sua moneta, o in uno Stato che deve procurarsela tartassando i suoi cittadini? Per rispondere, basta vedere la dinamica del rapporto debito/Pil dal 1981, quando alla nostra Banca d'Italia è stato impedito di creare la lira per comprare i titoli di Stato invenduti sul mercato. Da quel momento i tassi di interesse sono esplosi e il debito è raddoppiato nel giro di 10 anni. L'euro è solo l'ultimo atto della spoliazione di sovranità monetaria dell'Italia iniziata con il "divorzio" tra Tesoro e Banca d'Italia del 1981.
Dobbiamo uscire da questa gabbia al più presto, riprenderci il controllo della nostra Banca d'Italia, permettendo ad essa se necessario di emettere moneta, abbattere gli interessi e aumentare la liquidità nell'economia reale. Liberarsi dal ricatto dei mercati è più semplice di quello che sembra.
Il debito pubblico denominato nella moneta di Stato può essere gestito virtuosamente e diventare la ricchezza dei cittadini, finanziando opere strategiche, settori ad alta occupazione, Stato sociale, istruzione, ricerca e scuola. È un debito che si ripaga da sé con la crescita del Pil, dell'occupazione e del gettito fiscale.
Se l'Italia uscisse dall'euro, moneta di fatto straniera, circa il 94% del suo debito pubblico sarebbe ridenominato in lire e lo spread tornerebbe nel dimenticatoio.
Fuori dall'euro per realizzare insieme l'Italia a 5 stelle!" M5S Senato
Il vero problema, quindi, sono gli interessi. Se questi aumentano troppo, una quota sempre maggiore di spesa pubblica dovrà essere dedicata ogni anno al loro pagamento.
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Sarà ovvio, a questo punto, che possedere o meno la propria moneta fa per lo Stato, e per i suoi cittadini, tutta la differenza del mondo. L'Italia non può creare l'euro, ma poteva creare la lira.
Se lo Stato può creare la moneta con la quale deve ripagare il suo debito, può SEMPRE garantire il pagamento dei titoli di Stato che ha venduto. Se invece non può emettere la moneta deve procurarsela centesimo per centesimo per ripagare i titoli e gli interessi. Per farlo dovrà tassare ancor più i cittadini, tagliare la spesa produttiva e indebitarsi ancora. È il paradosso del debito che ripaga altro debito e si moltiplica su se stesso. Un circolo vizioso che parte dalla mancata sovranità monetaria.
I creditori avranno più fiducia in uno Stato sovrano della sua moneta, o in uno Stato che deve procurarsela tartassando i suoi cittadini? Per rispondere, basta vedere la dinamica del rapporto debito/Pil dal 1981, quando alla nostra Banca d'Italia è stato impedito di creare la lira per comprare i titoli di Stato invenduti sul mercato. Da quel momento i tassi di interesse sono esplosi e il debito è raddoppiato nel giro di 10 anni. L'euro è solo l'ultimo atto della spoliazione di sovranità monetaria dell'Italia iniziata con il "divorzio" tra Tesoro e Banca d'Italia del 1981.
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3.11.14
Italia prima nell'indice di ignoranza Ipsos-Mori: la maggioranza crede che gli immigrati siano il 30%, ma sono il 7%
Italiani e immigrazione, un connubio potenzialmente esplosivo, praticamente da record. Siamo il paese col più alto tasso di ignoranza per quanto riguarda i flussi migratori.
Infatti un sondaggio Ipsos sottolinea come la maggioranza degli
abitanti del Belpaese pensino che gli immigrati residenti sul suolo
italiano siano il 30% della popolazione, quando sono appena il 7%.
Nessuno al mondo ha una visione distorta della realtà come la nostra.
Nei dati di Ipsos-Mori si legge che molti italiani sono convinti che il paese sia stato invaso dagli immigrati e in particolare dai musulmani. Gli italiani sentiti dal sondaggio credono che nel paese ci sia il 30% della popolazione composta da immigrati (sono invece il 7%) e che il 20% dei residenti sia musulmano, mentre i musulmani sono appena il 4%.
The Ignorance Index si intitola studio condotto in 14 Paesi. Questo "indice dell’ignoranza" vede noi italiani ingloriosamente primi. Meglio di noi Usa, Corea del Sud, Polonia, Ungheria, Francia, Canada, Belgio, Australia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone, Germania, Svezia (la nazione più informata). Qualche esempio delle risposte in Italia? "Quanti sono i musulmani residenti?". Risposta: il 20% della popolazione! (in verità sono il 4%). "Quanti sono gli immigrati?" Risposta: 30% (in realtà 7%). "Quanti i disoccupati?" Risposta: 49% (in effetti 12%). "Quanti i cittadini con più di 65 anni?". Risposta: 48% (sono il 21%, e già assorbono una fetta sproporzionata della spesa sociale).
Nei dati di Ipsos-Mori si legge che molti italiani sono convinti che il paese sia stato invaso dagli immigrati e in particolare dai musulmani. Gli italiani sentiti dal sondaggio credono che nel paese ci sia il 30% della popolazione composta da immigrati (sono invece il 7%) e che il 20% dei residenti sia musulmano, mentre i musulmani sono appena il 4%.
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