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7.6.15

Anche se sembra non siamo un popolo di disonesti

Piero Ostellino (Il Giornale)

Siamo il popolo più disonesto al mondo? Certamente non lo siamo, anche se – a giudicare dalle cronache quotidiane - facciamo di tutto per dimostrarlo. In altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi. Ma è, come si suol dire, il contesto quello che, da noi, conta, cioè il ruolo che la politica svolge anche nel campo dell'economia e delle transazioni di mercato. Il fatto è che, da noi, l'intermediazione politica occupa un posto di preminenza rispetto a quello che altrove occupa il mercato. E dove la politica ha a che fare con i soldi è pressoché inevitabile che qualcuno ne approfitti, perché la politica non va tanto per il sottile quando si tratta di conquistare consenso e il consenso è spesso strettamente associato ai quattrini di cui si può disporre.

La regola politica è questa. Più quattrini hai da spendere, maggiore è il consenso che puoi ottenere. Se, poi, i quattrini non sono neppure i tuoi, ma di coloro i quali li usano e li spendono in funzione dei loro interessi politici, allora, l'equazione «politica e quattrini uguale corruzione» funzionerà alla perfezione. Le cronache parlano molto degli scandali collegati a tale uso dei quattrini, peraltro senza spiegarne le ragioni, ma non è un problema che preoccupi il mondo della politica perché in gioco non è l'onestà personale dei politici, che non interessa nessuno, ma la natura strutturale del nostro sistema. Non abbiamo la classe politica più corrotta al mondo; abbiamo solo la classe politica più esposta alle tentazioni. E, come è noto, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Come ho detto, quando l'intermediazione politica prevale sulle logiche del mercato e che qualcuno, sul versante politico, ne approfitti è nella logica delle cose. Questa è anche la ragione per la quale tutti i governi che si sono ripromessi di riformare il Paese e i suo sistema politico non ce l'hanno fatta. Non ce l'ha fatta Berlusconi; non ce la fa Renzi malgrado predichi ogni giorno l'intenzione di cambiare l'Italia.

Da mesi andavo scrivendo che l'immigrazione si era trasformata nell'«industria dell'immigrazione» in quanto l'arrivo di migliaia di immigrati era diventata l'occasione, per la politica, di utilizzare i quattrini stanziati per l'accoglienza dei nuovi arrivati a proprio esclusivo beneficio e delle proprie organizzazioni sociali. Sembrava una mia fissazione. Invece, gli scandali scoppiati in successione ai margini del fenomeno hanno confermato che non si è ancora regolamentata l'immigrazione perché non conviene a chi ci fa sopra dei guadagni più o meno leciti. Lasciamo perdere gli scafisti – che sono dei veri e propri criminali – e chiediamoci se la solidarietà di certi ambienti cattolici e di sinistra non sia pelosa: gli immigrati sono manodopera a basso costo che le cooperative che prosperano attorno al mondo cattolico e della sinistra hanno finora utilizzato impedendo qualsiasi tentativo di regolamentarne l'arrivo. È perfettamente inutile approvare marchingegni burocratici che dovrebbero impedire la suddetta speculazione. Prima o poi diventano essi stessi occasione di corruzione perché dove è possibile evitare monitoraggi e controlli è pressoché certo che la politica troverà il modo di eluderli. Finora è quello che è accaduto ed è probabile che l'andazzo non cambi. Potrebbe esserci qualche speranza di cambiamento se i media facessero il loro mestiere di cani da guardia del potere politico e, perché no, anche di quello economico. Se la proprietà, o il controllo, dei media serve da moneta di scambio con la politica per goderne del sostegno, è evidente che la politica prevarrà sempre a dispetto delle migliori intenzioni perché eludere monitoraggi e controlli conviene a troppa gente. Non è col moralismo a basso prezzo che si moralizza il Paese, bensì con riforme che ne mutino radicalmente la struttura, eliminando l'eccesso di intermediazione politica. Ma toglietevi dalla testa che Renzi le faccia. Continuerà a prometterle, senza farle.

La furba retorica del presidente del Consiglio ha incominciato a deludere gli italiani, anche quelli che gli credevano, e il consenso di cui ha goduto sta calando. C'è anche un'altra regola che presiede a quest'ultimo fenomeno: non si possono imbrogliare tutti e sempre.

20.4.15

Quei ragazzi divorati in mezzo al mare dalla nostra indifferenza

Igiaba Scego, scrittrice (Internazionale)

Mio padre e mia madre sono venuti in Italia in aereo.

Non hanno preso un barcone, ma un comodo aeroplano di linea.

Negli anni settanta del secolo scorso c’era, per chi veniva dal sud del mondo come i miei genitori, la possibilità di viaggiare come qualunque altro essere umano. Niente carrette, scafisti, naufragi, niente squali pronti a farti a pezzi. I miei genitori avevano perso tutti i loro averi in un giorno e mezzo. Il regime di Siad Barre, nel 1969, aveva preso il controllo della Somalia e senza pensarci due volte mio padre e poi mia madre decisero di cercare rifugio in Italia per salvarsi la pelle e cominciare qui una nuova vita.

Mio padre era un uomo benestante, con una carriera politica alle spalle, ma dopo il colpo di stato non aveva nemmeno uno scellino in tasca. Gli avevano tolto tutto. Era diventato povero.

Oggi mio padre avrebbe dovuto prendere un barcone dalla Libia, perché dall’Africa se non sei dell’élite non c’è altro modo di venire in Europa. Ma gli anni settanta del secolo scorso erano diversi. Ho ricordi di genitori e parenti che andavano e venivano. Avevo alcuni cugini che lavoravano nelle piattaforme petrolifere in Libia e uno dei miei fratelli, Ibrahim, che studiava in quella che un tempo si chiamava Cecoslovacchia. Ricordo che Ibrahim a volte si caricava di jeans comprati nei mercati rionali in Italia e li vendeva sottobanco a Praga per mantenersi agli studi. Poi passava di nuovo da noi a Roma e quando era chiusa l’università tornava in Somalia, dove parte della famiglia aveva continuato a vivere nonostante la dittatura.

Se dovessi disegnare i viaggi di mio fratello Ibrahim su un foglio farei un mucchio di scarabocchi. Linee che uniscono Mogadiscio a Praga passando per Roma, alle quali dovrei aggiungere però delle deviazioni, delle curve. Mio fratello infatti aveva una moglie iraniana e viaggiavano insieme. Quindi c’era anche Teheran nel loro orizzonte e tanti luoghi in cui sono stati ma che ora non ricordo con precisione.

Mio fratello, da somalo, poteva spostarsi. Come qualsiasi ragazzo o ragazza europea. Se dovessi disegnare i viaggi di un Marco che vive a Venezia o di una Charlotte che vive a Düsseldorf dovrei fare uno scarabocchio più fitto di quello che ho fatto per mio fratello Ibrahim. Ed ecco che dovrei disegnare le gite scolastiche, quella volta che il suo gruppo musicale preferito ha suonato a Londra, le partite di calcio del Manchester United, poi le vacanze a Parigi con la ragazza o il ragazzo, le visite al fratello più grande che si è trasferito in Norvegia a lavorare. E poi non vai una volta a vedere New York e l’Empire State Building?

Per un europeo i viaggi sono una costellazione e i mezzi di trasporto cambiano secondo l’esigenza: si prende il treno, l’aereo, la macchina, la nave da crociera e c’è chi decide di girare l’Olanda in bicicletta. Le possibilità sono infinite. Lo erano anche per Ibrahim, nonostante la cortina di ferro, anche nel 1970. Certo non poteva andare ovunque. Ma c’era la possibilità di viaggiare anche per lui con un sistema di visti che non considerava il passaporto somalo come carta igienica.

Oggi invece per chi viene dal sud del mondo il viaggio è una linea retta. Una linea che ti costringe ad andare avanti e mai indietro. Si deve raggiungere la meta come nel rugby. Non ci sono visti, non ci sono corridoi umanitari, sono affari tuoi se nel tuo paese c’è la dittatura o c’è una guerra, l’Europa non ti guarda in faccia, sei solo una seccatura. Ed ecco che da Mogadiscio, da Kabul, da Damasco l’unica possibilità è di andare avanti, passo dopo passo, inesorabilmente, inevitabilmente.

Una linea retta in cui, ormai lo sappiamo, si incontra di tutto: scafisti, schiavisti, poliziotti corrotti, terroristi, stupratori. Sei alla mercé di un destino nefasto che ti condanna per la tua geografia e non per qualcosa che hai commesso.

Viaggiare è un diritto esclusivo del nord, di questo occidente sempre più isolato e sordo. Se sei nato dalla parte sbagliata del globo niente ti sarà concesso. Oggi mentre riflettevo sull’ennesima strage nel canale di Sicilia, in questo Mediterraneo che ormai è in putrefazione per i troppi cadaveri che contiene, mi chiedevo ad alta voce quando è cominciato questo incubo, e guardando la mia amica giornalista-scrittrice Katia Ippaso ci siamo chieste perché non ce ne siamo rese conto.

È dal 1988 che si muore così nel Mediterraneo. Dal 1988 donne e uomini vengono inghiottiti dalle acque. Un anno dopo a Berlino sarebbe caduto il muro, eravamo felici e quasi non ci siamo accorti di quell’altro muro che pian piano cresceva nelle acque del nostro mare.

Ho capito quello che stava succedendo solo nel 2003. Lavoravo in un negozio di dischi. Erano stati trovati nel canale di Sicilia 13 corpi. Erano 13 ragazzi somali che scappavano dalla guerra scoppiata nel 1990 e che si stava mangiando il paese. Quel numero ci sembrò subito un monito. Ricordo che la città di Roma si strinse alla comunità somala e venne celebrato a piazza del Campidoglio dal sindaco di allora, Walter Veltroni, un funerale laico. Una comunità divisa dall’odio clanico quel giorno, era un giorno nuvoloso di ottobre, si ritrovò unita intorno a quei corpi. Piangevano i somali accorsi in quella piazza, piangevano i romani che sentivano quel dolore come proprio.

Ora è tutto diverso.

Potrei dire che c’è solo indifferenza in giro.

Ma temo che ci sia qualcosa di più atroce che ci ha divorato l’anima.

L’ho sperimentato sulla mia pelle quest’estate ad Hargeisa, una città nel nord della Somalia.

Una signora molto dignitosa mi ha confessato, quasi con vergogna, che suo nipote era morto facendo il tahrib, ovvero il viaggio verso l’Europa.

“Se l’è mangiato la barca”, mi ha detto. La signora era sconsolata e mi continuava a ripetere: “Quando partono i ragazzi non ci dicono niente. Io quella sera gli avevo preparato la cena, non l’ha mai mangiata”. Da quel giorno spesso sogno barche con i denti che afferrano i ragazzi per le caviglie e li divorano come un tempo Crono faceva con i suoi figli. Sogno quella barca, quei denti enormi, grossi come zanne di elefante. Mi sento impotente. Anzi, peggio: mi sento un’assassina perché il continente, l’Europa, di cui sono cittadina non sta alzando un dito per costruire una politica comune che affronti queste tragedie del mare in modo sistematico.

Anche la parola “tragedia” forse è fuori luogo, ormai dopo venticinque anni possiamo parlare di omicidio colposo e non più di tragedie; soprattutto ora dopo il blocco da parte dell’Unione Europea dell’operazione Mare Nostrum. Una scelta precisa del nostro continente che ha deciso di controllare i confini e di ignorare le vite umane.

Nessuno di noi è sceso in piazza per chiedere che Mare Nostrum fosse ripresa. Non abbiamo chiesto una soluzione strutturale del problema. Siamo colpevoli quanto i nostri governi. Non a caso Enrico Calamai, ex viceconsole in Argentina ai tempi della dittatura, l’uomo che salvò molte persone dalle grinfie del regime di Videla, sui migranti che muoiono nel Mediterraneo ha detto: “Sono i nuovi desaparecidos. E il riferimento non è retorico e nemmeno polemico, è tecnico e fattuale perché la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita in modo che l’opinione pubblica non riesca a prenderne coscienza, o possa almeno dire di non sapere”.

19.4.15

Ma non era il paese arcobaleno? (BuongiornoAfrica)- JOHANNESBURG, SACCHEGGI E ATTACCHI AGLI IMMIGRATI (Il Sole 24 Ore)

Raffaele Masto (BuogiornoAfrica)

Le violenze razziste in Sudafrica non sono nuove. Esplodono periodicamente e non sono nuove nemmeno nella storia. Sempre, quando c’è la crisi, quando le risorse sono poche, quando le classi dirigenti non riescono (o non vogliono) dividere la ricchezza i più poveri finiscono per contendersi violentemente le briciole. Il razzismo quasi sempre è il pretesto migliore per occultare quella che veramente è la posta in gioco.

Il Sudafrica è una economia emergente, membro dei BRICS, con grandi risorse e protagonista di una crescita, negli anni scorsi, veramente formidabile. L’ex paese dell’Apartheid è anche un grande investitore in Africa, capace di fare concorrenza a potenze come la Cina, l’India, la Malesia e le vecchie potenze europee.

Nonostante tutto questo, nonostante la sua storia, nonostante Mandela, non è riuscito ad esprimere una classe politica capace realmente di fare a meno del razzismo.

Le violenze xenofobe di questi giorni sono proprio il frutto della incapacità della classe politica di promuovere uno sviluppo equo. Il razzismo in Sudafrica, tra l’altro, è il prodotto della chiusura del governo e delle multinazionali (nelle quali il governo è tra i principali azionisti) davanti agli scioperi del settore minerario, del platino e dell’oro, e del settore automobilistico.

Settimane e mesi di scioperi non sono riusciti a far lievitare i salari a livelli almeno dignitosi. Anzi, alcuni scioperi, come quello di Marikana (34 minatori uccisi dalla polizia con colpi alle spalle) si sono trasformati in eccidi che non avevano nulla da invidiare a quelli del regime dell’apartheid.

I lavoratori che, nonostante lotte eroiche non riescono a vincere, finiscono per vedere negli immigrati dei concorrenti, dei rivali che fanno diminuire il loro potere contrattuale. Ecco, il razzismo di questi giorni, è figlio di quegli avvenimenti ma anche delle colpevoli incapacità dei paesi vicini ai quali appartengono gli immigrati che subiscono violenze.

Lo Zimbabwe del dinosauro Mugabe, per esempio, che ha affamato la sua popolazione che ha finito per vedere nel Sudafrica una terra dove, forse, si poteva sopravvivere. O il Mozambico del miracolo economico nel quale però la classe dirigente non è mai cambiata e la popolazione rurale è rimasta ai tempi del colonialismo.

Insomma il razzismo di oggi in Sudafrica è una guerra tra i più poveri, tra qli ultimi di una scala sociale che non è molto cambiata dai tempi dell’apartheid ad oggi. Allora c’era il razzismo tra bianchi e neri, ora tra neri e neri.

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Paolo Brera (ilsole24ore)


IL SUDAFRICA sperava di aver spento l'incendio, e invece in strada sono tornati i machete e la furia, le urla e i saccheggi, il sangue e le proteste. Sei morti e un'ottantina di arresti in due settimane, cinquemila stranieri costretti a fuggire lasciandosi dietro una vita per nascondersi in stadi presidiati dalla polizia, o in campi allestiti alla meglio. Kenya, Malawi e Zimbabwe hanno invitato i loro concittadini ad abbandonare subito il paese, e la multinazionale Sasol ha rimpatriato 340 lavoratori sudafricani dallo stabilimento in Mozambico per paura di ritorsioni. «Sono scioccato e disgustato — dice il presidente dello Zimbabwe,Robert Mugabe —da quello che è successo a Durban, dove cinque o sei persone sono state arse vive da membri della comunità zulu». La xenofobia — male antico cresciuto tra le pieghe dell'a
partheid, quando i bianchi opponevano indiani e neri di altri paesi africani per contendere il lavoro ai neri cui avevano tolto terre e proprietà—di tanto in tanto torna a bruciare case e a rapire vite: nove anni fa toccò a Città del Capo, sette anni fa a Johannesburg; oggi l'odio divampa in mezzo paese. Il maremoto di violenze iniziato dieci giorni fa a Durban si è propagato alle township di Johannesburg dove venerdì sera la polizia ha sparato all'impazzata pallottole di gomma per tentare di riportare la calma, tra arresti, aggressioni e saccheggi. Una crisi così violenta da spaventare il paese e da suggerire al presidente Zuma di rinunciare al viaggio di Stato in Indonesia. Ogni notte è un incubo: neri contro neri e poveri contro poveri, in un paese devastato dalle contraddizioni e dalla disoccupazione al 25%. Non sono i bianchi nel mirino della furia, ma altri neri africani provenienti dalla Nigeria o dalla Somalia dall'Etiopia, dallo Zimbabwe.«Ci rubano il lavoro», dicono nei ghetti delle periferie di Durban e Johannesburg. Le ultime violenze, venerdì, sono divampate ad Alexandra, la "township" più difficile di Johannesburg in cui i neri sopravvivono dividendosi un gabinetto in decine di famiglie tra pidocchi e topi, martoriati dall'Aids e dalle gang che s'ammazzano per strada. il quartiere che ospita la prima case in cui approdò Mandela appena arrivato in città, una casa-stanza con il tetto di lamiera che affaccia in un cortile sgangherato nella baraccopoli. Lì accanto, venerdì, la polizia in tenuta antisommossa sparava pallottole di gomma a uomini con i machete in mano, pronti ad assaltare i negozietti degli stranieri atterriti. Alla radice dell'esplosione d'odio c'è una frase scellerata pronunciata —o«tradotta male»,secondo la sua versione— dal re zulu Goodwill Zwelithini secondo cui gli stranieri devono «fare i bagagli e andarsene a casa loro» perché rubano il lavoro ai sudafricani. Parole che sentiamo anche in Italia, ma che diventano benzina in un paese in cui la violenza, la povertà e l'estrema ineguaglianza sono una miccia perennemente accesa. Quando un negoziante straniero di Durban ha sparato a quattro ladri uccidendo per errore una cliente sudafricana, la folla infuriata è scesa in strada minacciando e attaccando gli stranieri, assaltando e derubando migliaia di negozi. Dalle periferie di Umlazi e Kwa Mashu a Durban a quelle di Primrose e Benoni a Johannesburg, il furore spaventa l'intero Sudafrica. «È preoccupante —dice il presidente Zuma, che ieri a Durban ha visitato il campo di Chatsworth per gli stranieri sfollati —i problemi, se ci sono, vanno risolti diversamente».
 




3.11.14

Italia prima nell'indice di ignoranza Ipsos-Mori: la maggioranza crede che gli immigrati siano il 30%, ma sono il 7%

Italiani e immigrazione, un connubio potenzialmente esplosivo, praticamente da record. Siamo il paese col più alto tasso di ignoranza per quanto riguarda i flussi migratori. Infatti un sondaggio Ipsos sottolinea come la maggioranza degli abitanti del Belpaese pensino che gli immigrati residenti sul suolo italiano siano il 30% della popolazione, quando sono appena il 7%. Nessuno al mondo ha una visione distorta della realtà come la nostra.
Nei dati di Ipsos-Mori si legge che molti italiani sono convinti che il paese sia stato invaso dagli immigrati e in particolare dai musulmani. Gli italiani sentiti dal sondaggio credono che nel paese ci sia il 30% della popolazione composta da immigrati (sono invece il 7%) e che il 20% dei residenti sia musulmano, mentre i musulmani sono appena il 4%.
The Ignorance Index si intitola studio condotto in 14 Paesi. Questo "indice dell’ignoranza" vede noi italiani ingloriosamente primi. Meglio di noi Usa, Corea del Sud, Polonia, Ungheria, Francia, Canada, Belgio, Australia, Gran Bretagna, Spagna, Giappone, Germania, Svezia (la nazione più informata). Qualche esempio delle risposte in Italia? "Quanti sono i musulmani residenti?". Risposta: il 20% della popolazione! (in verità sono il 4%). "Quanti sono gli immigrati?" Risposta: 30% (in realtà 7%). "Quanti i disoccupati?" Risposta: 49% (in effetti 12%). "Quanti i cittadini con più di 65 anni?". Risposta: 48% (sono il 21%, e già assorbono una fetta sproporzionata della spesa sociale).
  • Ipsos
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23.1.10

La cura del bullo

Massimo Gramellini

Sul Lago di Garda abita una ragazza dello Sri Lanka, venuta in Italia per guadagnare i seimila euro che servono a pagare le cure del fratellino malato di tumore. Lavando i pavimenti di giorno, facendo la badante di notte, e risparmiando ferocemente su tutto, giorno e notte, in un anno la ragazza riesce a mettere da parte la cifra agognata. Si accinge a mandare il vaglia a casa, ma non resiste alla tentazione di telefonare alla mamma per anticiparle la grande notizia. Entra in una cabina (la ragazza non ha il telefonino), tenendo a tracolla la borsa con i seimila euro. Quando quattro ragazzetti gliela strappano, lei lancia un urlo nella cornetta e la madre, dall’altra parte del mondo, vive il suo dramma in diretta.

I carabinieri identificano subito i rapinatori: li conoscono già. Sono adolescenti della zona, molto ricchi e molto annoiati, che cercano di scuotere l’abulia delle proprie esistenze con gesti che procurino scariche violente di adrenalina: per esempio rubare soldi a chi ne ha bisogno per andarli a spendere in cose di cui loro non hanno alcun bisogno. Vengono acciuffati mentre stanno finendo di dilapidare il bottino in un negozio di oggetti griffati. Lo scontro fra bene e male è così lampante che per mettere tutto a tacere, anche la coscienza, i genitori dei bulletti rifondono i seimila euro. «Sono i nostri figli, cosa possiamo fare?», si giustificano. Un’idea l’avrei. Vivere come la ragazza per un anno: lavando i pavimenti di giorno, facendo i badanti di notte, e risparmiando ferocemente su tutto, giorno e notte. Magari funziona.