Ecco gli aedi della "diseguaglianza" nel dibattito pubblico mondiale, nel corso di un seminario a porte chiuse cui il Foglio ha partecipato
di Marco Valerio Lo Prete (ilfoglio.it)
Parigi, dal nostro inviato. Metti assieme sullo stesso palco il finanziere e filantropo di origine ungherese George Soros, l'economista da best-seller francese Thomas Piketty, il Premio Nobel per l'Economia Joseph Stiglitz e il segretario generale dell'Ocse Angel Gurria. Aggiungi, sullo sfondo, la scritta a caratteri cubitali "Liberté, égalité, fragilité". Ecco dunque, riunita ieri sera a Parigi, in un seminario a porte chiuse cui il Foglio ha partecipato, l'avanguardia più agguerrita della battaglia globale e mediatica alla diseguaglianza. Battaglia che a tratti tracima perfino, almeno a parole, nella lotta al capitalismo per come oggi lo conosciamo.
"Viviamo in tempi che generano ansia", ha esordito Rob Johnson, presidente dell'Institute for New Economic Thinking (Inet), think tank progressista fondato nel 2009 grazie alla mente, al cuore e al portafoglio di Soros, e capace oramai di attirare economisti, studiosi e policy maker prestigiosi e trasversali. "Anche tra i più fortunati tra di noi, non faccio che imbattermi in amici profondamente allarmati – dice Johnson guardando la platea parigina – Non c'è manager d'azienda o persona ricca che non abbia paura di un mondo che appare fuori controllo". Perché sconfiggere la diseguaglianza - è uno dei leitmotiv della serata - non è obiettivo di cui si possano giovare solo i più sfortunati tra noi. Dopodiché, nell'evento introduttivo di una tre giorni di seminari scientifici ai massimi livelli, è tutto un crescendo di toni. Anatole Kaletsky, editorialista ben poco mainstream del New York Times, conferma: "Quando parlammo per la prima volta con George (Soros, ndr), a Londra nel 2009, realizzammo che quella iniziata ufficialmente con il crollo di Lehman Brothers non era una crisi nel capitalismo, ma una crisi del capitalismo".
A quel punto tocca a George Soros – nato Gyorgy Schwartz a Budapest nel 1930, il protagonista indiscusso di imponenti operazioni finanziarie che nel 1992 costrinsero la sterlina inglese e la lira italiana a uscire dallo Sme (Sistema monetario europeo) – raccogliere la prima standing ovation, quando dichiara che l'obiettivo fondamentale di Inet, cioè della sua creatura che celebra in questi giorni il quinto simposio annuale organizzato in partnership con il think tank canadese Cigi, è nientemeno che "la demolizione del monopolio della dottrina economica oggi esistente". Nel corso della serata qualcuno dei nomi dei presunti "monopolisti" del vecchio e stantio liberismo alla fine verrà pure fuori: poche sorprese, c'è il defunto presidente americano Ronald Reagan; poi c'è un economista che ha collaborato con lo stesso Reagan e che è ancora in auge nell'accademia a stelle e strisce, come Martin Feldstein; infine un altro premio Nobel per l'Economia come Robert Lucas.
Ma il mattatore teorico della serata "liberté, égalité, fragilité" non poteva che essere l'economista francese Thomas Piketty, unico scravattato in stile Alexis Tsipras, che ieri sera ha colto l'occasione per sintetizzare i punti essenziali del suo libro-tormentone, "Il Capitale nel XXI Secolo", una disamina su disuguaglianza del reddito, disuguaglianza della ricchezza e crescente "patrimonalizzazione" oligarchica delle nostre società contemporanee, a scapito di chi il reddito se lo guadagna con il lavoro quotidiano. Un libro la cui versione originale dell'estate 2013, in lingua francese, era praticamente passata inosservata al grande pubblico europeo e mondiale; poi, una volta tradotto nel 2014 da Harvard University Press, ecco che lo stesso saggio si è trasformato per qualche mese nel volume che non potevi non avere nella tua libreria. Merito delle tesi di Piketty, ovvio, della loro capacità di fare presa e di non affondare sotto le centinaia di tabelle e dati (poi variamente contestati) che le corredavano, e infine merito del battage mediatico-pubblicitario di opinionisti del calibro di Paul Krugman, ancora una volta americano. Senza dimenticare che ieri Piketty, dal palco dell'Inet, ha voluto rendere gli onori pure al padrone di casa: se non ci fosse stato il finanziamento del think tank di Soros, ha detto l'economista, molte delle serie statistiche su cui si fonda il suo studio non sarebbero nemmeno esistite.
L'economista francese ha spiegato tra le altre cose perché, nelle società in cui la rendita generata dal capitale assume sempre maggiore peso rispetto al reddito da lavoro, come accade in maniera esagerata in Europa e Giappone, eventuali squilibri nella formazione dei prezzi possono avere un effetto amplificato su queste ricchezze "patrimoniali" crescenti. Le bolle immobiliari giapponese e spagnola insegnano. Inoltre lo strapotere della rendita da capitale, aumentando il peso specifico delle origini socio-economiche di ciascuno di noi, frena la mobilità sociale. E questi sono soltanto due esempi di come occorra regolare in maniera innovativa le nostre economie, ha detto l'economista.
Che poi non ha mancato di fare un riferimento piuttosto dettagliato all'Italia. Quando ha osservato che il nostro paese è diventato negli anni l'ultimo tra i grandi paesi per valore del "capitale pubblico" accumulato, mentre è il primo per quanto riguarda il "capitale privato" (immobili privati, patrimoni familiari, e chi più ne ha più ne metta). Arrivando al paradosso per cui "l'Italia ha oramai più debito pubblico che asset di proprietà pubblica. Se anche privatizzasse tutti i beni nelle mani dello Stato - ha osservato Piketty - l'Italia rimarrebbe comunque con un debito pari al 67% del Pil. Ma forse oggi il paese paga, in interessi sul debito pubblico, più di quanto non pagherebbe se alienasse tutte le sue scuole e poi si mettesse a pagare l'affitto". L'economista francese per una volta turboliberista? No, si tratta solo di un paradosso, utile poi per criticare "l'amnesia storica" che oggi affligge "Germania e Francia" che insistono con il chiedere "all'Italia e ai paesi mediterranei di ripagare il loro debito pubblico a suon di avanzi primari, dopo che la stessa Germania nel Secondo dopoguerra smaltì il suo debito grazie a ristrutturazioni e inflazione straordinarie".
Oratori pugnaci, insomma, quelli riunitisi ieri sera a Parigi. E certo non senza qualche numero e pezza d'appoggio. Come quelli forniti dal solitamente più diplomatico Gurrìa, segretario generale dell'Ocse, che però ieri si è lasciato trascinare dal fermento egualitarista dell'evento. Così il segretario generale dell'Organizzazione che raccoglie i paesi più ricchi del pianeta ha prima rivendicato che l'Ocse ha battuto quasi tutti sul tempo nel sollevare ufficialmente il problema "diseguaglianza", seppure prima del 2008 - ha quasi fatto ammenda Gurrìa - si era troppo ecceduto con i punti interrogativi. Oggi la diseguaglianza c'è, è cresciuta, e non si discute: "Il reddito del 10 per cento dei cittadini più ricchi nei paesi dell'Ocse - ha detto - è 10 volte il reddito della fascia di cittadini più poveri". Ancora: "Le persone di famiglie ad alto reddito, nei nostri paesi sviluppati, possono vivere in media anche 10 anni in più di quelle che vengono da background umili". Conclusione: "Occorre una maggiore integrazione nell'economia di donne, migranti e disabili. E ricchi devono pagare l'ammontare di tasse che gli spetta". Soros in platea annuisce convinto.
Quando tocca a Joseph Stiglitz concludere, sul banco degli imputati salgono ufficialmente gli Stati Uniti. Sono loro, dice il Premio Nobel, l'inferno in terra quando si tratta di diseguaglianza economica e sociale. Ne stanno risentendo tutti, poveri e ricchi che siano. "L'American dream è compromesso", dice. Verrebbe naturale chiedere al prof. come è possibile che tanti giovani europei - e non soltanto loro - siano tornati in questi anni a varcare l'Oceano per tentare la fortuna negli Stati Uniti, abbandonando l'Europa più egualitaria e giusta; forse che un po' di mobilità sociale in più ancora alberghi da quelle parti? Ma gli oratori hanno sforato rispetto alla scaletta iniziale, dunque non c'è stato tempo di raccogliere le domande dal pubblico. Soltanto qualche minuto per Piketty per autografare un paio di copie del suo libro, scattare una foto, e lasciare che la sua giovane assistente salti come-se-nulla-fosse la fila davanti al guardaroba per recuperargli la borsa.
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