Valentina Santarpia (Corriere)
A 11 anni sono migliori dei propri coetanei in matematica e inglese, hanno un comportamento scolastico più controllato e socievole. E nell’arco della vita guadagnano in media il 4,3% in più. Ecco come una buona educazione nei primi anni di vita, nella cosiddetta pre-school, fa progredire i ragazzini inglesi, secondo una ricerca presentata dalla professoressa Kathy Sylva, di Oxford, all’università Bicocca. Lei è una delle decine di esperti chiamati ad approfondire, nel corso di una tre giorni internazionale a Milano, lo 0-6: il cruciale periodo dalla nascita alla primaria.
«L’educazione dei primi anni dà le migliori chance per la vita — spiega Sylva —. Questo vale soprattutto per i bambini poveri o immigrati». Dal Nobel per l’economia James Heckman fino alle ultime ricerche del Tfiey (il forum transatlantico dedicato alle politiche per lo sviluppo dei servizi per la prima infanzia) le conclusioni sono sempre le stesse: soprattutto per le fasce sociali svantaggiate, la frequenza di scuole con caratteristiche «dignitose» porta a maggiore inclusione sociale e migliori successi negli studi.
I dati Ocse-Pisa, sull’apprendimento dei ragazzi, confermano che tra il 2003 e il 2012, in Italia la differenza nei risultati ottenuti in matematica tra 15enni che avevano frequentato la scuola dell’infanzia e studenti che non l’avevano frequentata, era cresciuta di 25 punti. E gli alunni in difficoltà sono sovrarappresentati tra quelli che non hanno frequentato la scuola dell’infanzia per più di un anno.
Il nostro gap è evidente: il 5% dei bambini dai 3 ai 6 anni non frequenta una scuola materna, e l’82% di quelli tra 0 e 3 non ha posto in un asilo nido.
Come recuperare?
Il governo dovrà varare entro l’anno, come prescrive la riforma Renzi, una legge per ridefinire le regole per lo 0-6. I pedagogisti suggeriscono insegnanti con formazione accademica, coordinatori pedagogici per controllarli, spazi e tempi adattati ai ritmi lenti dei bambini, progetti pilota per costruire un sistema educativo di qualità. Improntato più alla sperimentazione invece che al nozionismo, come nelle «Cabane» di tre asili milanesi: strutture in legno dove toccare, immaginare, fantasticare.
«Dal progetto Care — spiega Susanna Mantovani, rettrice della Bicocca — emerge che genitori ed educatori concordano sul fatto che i bambini nella fascia tra zero e 6 anni devono imparare a sviluppare capacità e risolvere problemi, più che imparare nozioni. I bambini che hanno frequentato buoni asili sono quelli che riescono meglio nelle prove Invalsi». Test che invece vanno esclusi dalle scuole dell’infanzia: «Ci sono rischi di stigmatizzazione precoce», anticipa la professoressa Anna Bondioli , del gruppo di lavoro ministeriale.
Meno valutazione, più problem solving , laboratori dove provare. «I bambini piccoli — spiega Nice Terzi, presidente del gruppo Nidi-infanzia — non devono apprendere, ma capire come si apprende». Il resto verrà dopo.
l’approfondimento
0-6 anni, il successo parte da piccoli
Ecco come saranno i nuovi asili
Un convegno nel weekend porta alla Bicocca migliaia di esperti nazionali e internazionali, chiamati a disegnare le linee guida delle nuove scuole per i piccoli: laboratori e problem solving più importanti di nozioni e apprendimenti
A
11 anni sono migliori dei propri coetanei in matematica e inglese,
riescono ad avere un comportamento scolastico più controllato, meno
iperattivo e più socievole. E nell’arco della vita guadagnano in media
il 4,3% in più. Ecco come una buona educazione nei primi anni di vita,
nella cosiddetta pre-school, fa progredire i ragazzini inglesi, secondo
una ricerca che verrà presentata dalla professoressa Kathy Sylva,
dell’università di Oxford, venerdì all’università di Milano Bicocca.
Lei è solo una dei tanti esperti chiamati ad approfondire, nel corso di una tre giorni internazionale, il tema delicatissimo e affascinante dello 0-6:
capire cioè in che direzione stanno andando i nostri bambini da 0 a
sei anni e come ridefinire le nuove regole per l’educazione e la cura
dei bambini più piccoli.
Asili, gli effetti dell’educazione prescolare in Inghilterra
Anche i neonati apprendono
Proprio
nei giorni in cui, come prescritto dalla legge 107, il governo sta
mettendo a punto la legge delega per ridisegnare il panorama degli asili
italiani, questo diventa un appuntamento prezioso per docenti,
pedagogisti, funzionari ministeriali, educatori, economisti. Previsti i
contributi dei massimi conoscitori del sistema, da Michel Vandenbroeck, dell’Università di Gent, a Sylva, di Oxford, da Christa Preissing, dell’Ista di Berlino, a Claudia Giudici,
presidente Scuole e Nidi d’infanzia di Reggio Emilia. Con un punto
fermo da cui partire: in quegli anni il piccolo essere umano introietta
tutti gli stimoli possibili per realizzarsi nella vita. «Crediamo che
l’educazione precoce dia le migliori chance ai bambini per iniziare
nella vita - spiega Sylva- Questo vale soprattutto per i bambini che
vengono da famiglie povere o di immigrati. Ed è fondamentale che la
fascia 0-3 sia gestita dallo stessa fascia 3-6: anche i neonati
imparano!». Gli studi in materia sono unanimi: da James Heckman, premio
Nobel per l’economia nel 2000, alle ultime ricerche del Tfiey, il forum
transatlantico dedicato alle politiche per lo sviluppo dei servizi per
la prima infanzia, le conclusioni sono identiche: soprattutto per le
fasce sociali svantaggiate, la frequenza di scuole con caratteristiche
«dignitose» porta a maggiore inclusione sociale e a migliori successi
scolastici. Da dove cominciare allora per disegnare gli asili del
futuro? Dal «curricolo, che è responsabilità», come recita il titolo del
convegno.
Più competenze che nozioni
«Attenzione,
non stiamo parlando di curricolo perché vogliamo mettere la pagella
anche ai bambini piccolissimi», ride la rettrice della Bicocca, Susanna Mantovani.
«Anzi, presenteremo gli esiti di 2471 questionari completati da maestri
e genitori di bambini da 0 a sei anni, che ci rivela proprio quanto le
competenze scolastiche siano considerate irrilevanti rispetto ad altri
aspetti». L’indagine, realizzata nell’ambito del progetto Care (Curriculum and quality Analysis and impact review of European Early Childhood education and care),
ha avuto un discreto riscontro in Italia, dove sono stati restituiti
quasi 2500 questionari completi rispetto ai 200 olandesi e ai 700
tedeschi. E fornisce delle indicazioni molto precise sulle esigenze che
gravitano intorni ai bambini più piccoli: le conoscenze non sono mai ai
primi posti. Da 0 a 3 anni, genitori e insegnanti convergono nel
ritenere l’atteggiamento nei confronti dell’apprendimento la cosa più
importante, e da 3 a 6 la competenza interpersonale ed emotiva, mentre
le abilità e conoscenze pre-scolastiche finiscono agli ultimi posti. «È
interessante: significa che concordano nel ritenere che i bambini non
debbano imparare a contare precocemente o a scrivere, ma ad affrontare i
problemi, a sviluppare competenze. È un approccio molto diffuso in
Norvegia, Finlandia, Svezia, e sempre più anche in Italia: valutiamo
meno i risultati, misuriamo meno, ma sviluppiamo più capacità. E
infatti i bambini che hanno frequentato asili dignitosi nella fascia 0-6
sono anche quelli che vanno meglio nelle prove Invalsi». Un
esempio su tutti? Lasciar discutere i bambini di 4 o 5 anni di come si
può pedalare senza rotelle, come sia possibile evitare di cadere -
esperimento veramente realizzato, filmando i bambini per mezz’ora - può
dare dei risultati sorprendenti, con risposte e idee che si avvicinano
alla fisica pur senza averne alcuna cognizione. Un progetto
educativo sperimentale da poco avviato dal Comune di Milano presso tre
scuole dell’infanzia segue proprio questi principi: la Cabana, una
struttura ludico-didattica alta, aperta, luminosa, sonora, magica,
tattile. Una struttura polifunzionale in legno che nelle sue varie forme
basiche lascia spazio a educatori e bambini per trasformarle nei modi
più diversi.
No alla valutazione delle scuole dell’infanzia
D’altra parte, che la strada giusta sia questa - meno valutazione, più problem solving-
lo dimostra anche il fatto che il gruppo di lavoro chiamato da
ministero dell’Istruzione e Invalsi a definire il nuovo strumento di
autovalutazione delle scuole dell’infanzia abbia stabilito nelle sue
conclusioni che i bambini da tre a sei anni non debbano essere
sottoposti a prove standardizzate, sul modello dei test Invalsi per
capirci. «Abbiamo escluso questa possibilità- anticipa la dottoressa Anna Bondioli al Corriere-
per evitare rischi di stigmatizzazione precoce, e che il passaggio di
queste informazioni dalla materna alla primaria possa incentivare
pregiudizi». Evitato questo rischio, l’autovalutazione verterà piuttosto
su domande che riguardano il processo, sul curricolo specifico per
l’infanzia, sull’iter complessivo del bambino. Proprio nell’ottica di
considerare la fascia di età 0 - 6 un tutt’uno, una sorta di arco
temporale unico, proprio come disegna la legge 107, che dovrà essere
declinata dai decreti attuativi entro la fine dell’anno.
Poli educativi ed educatori laureati
Un
tutt’uno non significa che esiterà una sola scuola dalla nascita fino
alla soglia delle elementari, spiega Bondioli, che quando per la prima
volta la senatrice Francesca Puglisi ha presentato il progetto di legge
1260 ha scritto, insieme a più di 100 docenti di pedagogia, una serie di
linee guida sull’ipotesi di legge. I servizi rimarranno così come sono,
divisi in asili nido e scuole dell’infanzia, che avranno gestione
regionale/comunale/statale, ma quello che cambierà sarà il
coordinamento. «La gestione delle liste di attesa, l’organizzazione
degli aspetti pratici come i passaggi di informazioni da un grado
all’altro, la formazione continua in servizio degli educatori e degli
insegnanti-che la legge prescrive- dovrebbero essere affidate a dei poli
educativi», spiega Bondioli. Il personale dovrebbe avere come
riferimento dei facilitatori educativi,
che non dovrebbero seguire delle linee guida uguali per tutti, ma
calarsi nella realtà territoriale e declinare le indicazioni per i
gruppi di lavoro in base ai contesti. Al di là delle specificità della
cura riservata ai più piccoli, il comun denominatore dei bambini da 0 a
sei anni dovrebbe essere «l’apprendere l’apprendere»,
ovvero «più che i contenuti, imparare l’approccio per relazionarsi ai
problemi», ribadisce anche Bondioli: più laboratori ed esperimenti che
canzoncine da imparare a memoria. E poi, un aspetto fondamentale è
puntare sulla uniformità degli standard:
spazi, orari, numero di insegnanti per bambini, oggi sono diversi in
base alle scelte regionali o comunali, mentre i decreti punteranno a
specificare con chiarezza i parametri validi per tutti. «Da 0 a sei
anni, vanno bene 7 bambini ad educatore, tra i 2 e i 3 1 ogni 8, ma tra
i 3 e i 6 bisogna scendere assolutamente: inaccettabile che un solo
insegnante tenga 25 bambini e per di più senza compresenza». Il
personale dovrebbe diventare tutto con carriera universitaria,
ma «un compromesso potrebbe essere permettere alle educatrici del nido
di avere la laurea triennale, quelle dell’infanzia la specialistica».
Un posto per tutti
Al
di là delle questione tecniche, resta comunque uno l’obiettivo di
fondo: «Dobbiamo generalizzare l’offerta, non possiamo permettere che
continui ad esistere un Paese a macchia di leopardo», sottolinea Nice Terzi,
presidente del gruppo nidi-infanzia italiani. «Fino ad ora gli
investimenti sono stati utilizzati in maniera molto diversa da Nord e
Sud, così negli anni abbiamo sviluppato delle realtà efficienti, che ci
studiano anche all’estero, come a Reggio Emilia, e delle zone
assolutamente prive di servizi per l’infanzia. Basta: ora è il momento
di mettere i fondi e di stabilire il principio che tutti i bambini hanno
diritto ad avere un posto all’asilo nido. Cominciamo col raggiungere
l’obiettivo del 33% stabilito dall’Europa, e poi andiamo avanti. Anche
la scuola dell’infanzia, deve passare dal 95% al 100%. E per cominciare
a sperimentare, bisogna lanciare progetti pilota su tutto il
territorio: poi, entro qualche anno, finalmente vedremo i frutti».
3 commenti:
Ovviamente non c'è alcuna sorpresa! I pedagogisti lo sostengono da un pezzo.
È la ragione per la quale, un po' provocatoriamente, ma neppure troppo, ho sempre sostenuto che la scala gerarchica degli insegnati dovrebbe essere rovesciata.
Una società che pensa al proprio futuro prepara al meglio gli insegnanti che si occupano dei bambini nei primi anni di vita e li paga anche in maniera inversamente proporzionale a come avviene oggi.
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