3.1.17

Il pericolo della libertà vigilata

Nadia Urbinati (La Repubblica)

La politica dell’odio e la politica della verità sono due problemi, all’ apparenza opposti ma in effetti speculari, che affaticano la vita civile delle società democratiche, avvelenando le relazioni pubbliche e, quel che è peggio, ostacolando la nostra capacità di comprendere, spiegare e correggere. Contro queste pulsioni assolute, sulle quali si è in parte soffermato il presidente della Repubblica, nessuna visione ragionata della politica sembra essere dotata di sufficiente forza di raffreddamento.

L’odio per il diverso, per i diversi (non importa quanto e in che modo, se per ragioni religiose o di scelte sessuali o, perfino, per appartenenze politiche) è l’ emozione che più deturpa in questo tempo segnato da una reazione massiccia contro le visioni ampie e gli ideali inclusivi. Un’ emozione che crea solchi e innalza muri e che, soprattutto, vuole avvalersi dell’ arma della ragione per essere giustificata, e non semplicemente sentita. Vilfredo Pareto sosteneva che gli esseri umani provano un sentimento di piacere nel dare alle loro azioni delle cause logiche che non hanno. È quel che sta succedendo in un continente ridiventato vecchio all’ improvviso, dove si assiste in molti, troppi, paesi alla rinascita addirittura delle filosofie della razza e all’ interpretazione dei confini come muri che servono a proteggere i “comuni valori cristiani”, come se tutti fossero davvero cristiani allo stesso modo, come se le differenze interne ai singoli paesi e alle regioni d’ Europa siano di colpo sparite o dimenticate. Unità nel nome dell’ interesse nazionale ed europeo (una nuova palestra del nazionalismo) riaffermata come un argomento che giustifica l’ esclusione (e l’ espulsione). La paura del terrorismo, la paura di perdere o non trovare lavoro, la paura di vedere trasformate le nostre tradizioni: queste emozioni, tutt’altro che spontanee e innocenti, trovano una sponda impensabile in argomenti all’ apparenza razionali, come quello che ci vuole far credere che i sentiment della repulsione e dell’ intolleranza siano non solo giusti ma addirittura saggi.

Dall’altra parte si fa strada, in apparente opposizione, l’idea che la distinzione tra verità e falsità sia tanto chiara e autoevidente da poter invocare la legge per mettere ordine, per discriminare tra le opinioni vere e quelle post-vere (o false), quasi ignorando che le opinioni non possono mai essere giudicate secondo la logica epistemica. Insidiosa non meno della politica dell’ esasperazione della paura, la politica dell’ esasperazione della verità non può che preoccupare, anch’ essa è una forma di razionalizzazione di un’ emozione che rabbuia la mente, quella dell’ ignoto, del non sapere, per esempio, come governare l’informazione e la comunicazione nell’ età della rivoluzione informatica. Non si dovrebbe dimenticare che se l’ invenzione della stampa nel Cinquecento ha aperto le porte al liberalismo politico e alla democrazia, ha anche suggerito l’ invenzione di nuove strategie di repressione, come il rogo dei libri (oltre che dei loro autori), l’ ostruzione violenta delle opinioni o, in tempi a noi più vicini, la creazione via propaganda del consenso unanime per rendere il dissenso un assurdo castigabile.

In nome della verità, anche la più vera, si possono creare mostri oscurantisti. Scriveva Alexis de Tocqueville, che la libertà di stampa è una di quelle libertà che non viene senza costi, perché per rendere conto del lavoro del potere essa si insinua nel privato esponendo la vita privata delle persone all’ occhio del pubblico. E tuttavia, nonostante le possibili non-verità che questa libertà può generare, si è abbondantemente dimostrato difficilissimo assoggettarla, in quanto l’ autorità finirebbe per essere censoria in una maniera intollerabile. L’ accusa contro l’ abuso di Internet, uno strumento orizzontale di comunicazione che consente a ciascuno di noi di commentare e fare opinione fuori dei tracciati deontologici del giornalismo professionale, non può non impensierire. Certo, la democrazia vuole pubblicità e trasparenza, non menzogna. Tuttavia crediamo davvero che essa possa sopportare autorità che vigilino sulla verità (o la post-verità) quando si tratta di opinioni, non di verità scientifiche? La politica della verità vigilata è preoccupante.

Non ci sono ricette sicure e certe per queste forme mai invecchiate di insicurezza e di intolleranza, sfide che mettono alla prova non tanto i cittadini (che di potere non ne hanno molto fuori dell’ urna) ma in primo luogo chi accetta di essere investito del compito della rappresentanza politica e chi opera nella settore dell’ informazione. Non è fuori luogo il richiamo alla responsabilità da parte di coloro che esercitano la politica e contribuiscono a creare l’ opinione. La democrazia non sopporta né le politiche dell’ odio né quelle della verità, ma neppure le azioni repressive che dovrebbero scongiurarle. Ha bisogno, in questi casi in modo particolare, di cittadini, di politici e di giornalisti capaci di virtù pubblica, di far affidamento al senso del limite e dell’ autolimitazione. Non è stata ancora escogitata una forma migliore per governare le emozioni senza pretendere di estirparle, una medicina che ucciderebbe il malato nell’ illusione di guarirlo.

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