26.1.17

Le scorciatoie da evitare

Massimo Franco (Corriere)

Era inevitabile che una legge elettorale modellata su un Parlamento composto da una sola Camera venisse picconata. La sentenza emessa ieri pomeriggio dalla Consulta è figlia legittima di una stagione di riforme scritte e imposte dal Pd in una realtà virtuale.
Una realtà virtuale smentita bruscamente dal referendum del 4 dicembre. La domanda, adesso, non riguarda solo le indicazioni che la Corte costituzionale ha dato per riplasmare il sistema del voto. Rimanda soprattutto a come i partiti le piegheranno ai proprio obiettivi, dopo avere atteso per mesi, passivamente, il responso. Il problema non è tanto quello di evitare a ogni costo le elezioni. Ma prima ancora che votare presto, l’esigenza è di votare bene. Significa dare al sistema una legge elettorale approvata col consenso di un insieme di forze più largo di quello governativo, perché altrimenti sarebbe condannata a essere effimera. E in grado di evitare la creazione di maggioranze diverse tra Camera e Senato, come ha segnalato nel discorso di Capodanno il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: perché è sempre più evidente che a rallentare le decisioni e creare instabilità sono due rami del Parlamento con coalizioni sfalsate, non il bicameralismo in sé. Finora il sistema politico ha aspettato con una miscela di ansia e rassegnazione il responso della Consulta. Da oggi, però, dovrà assumersi la responsabilità di cercare un’intesa che cancelli la sensazione di un pericoloso immobilismo. Il Parlamento dovrà fare i conti con due spinte opposte. La prima è di chi vuole elezioni subito e corre contro il tempo. Lo confermano le prime reazioni degli uomini di Matteo Renzi e, con foga ma forse minore convinzione, di Beppe Grillo e di Matteo Salvini. Premono per un accordo comunque, e insistono sul voto anticipato: strana convergenza, che fa pensare. Quanti invece puntano a una riforma più meditata, affidata al Parlamento, e respingono l’idea di un governo già sull’orlo delle dimissioni, useranno la decisione della Corte per arrivare al 2018. Non è un gioco fra schieramenti, ma al loro interno. Attraversa la sinistra e il centrodestra. E nel momento in cui prefigura di fatto una spinta a dare al sistema un carattere più proporzionale, perché difficilmente un partito raggiungerà da solo il 40 per cento dei voti che garantisce il premio di maggioranza, rimette in discussione anche le leadership: non solo dal punto di vista dei nomi. Se la dinamica è questa, renderà naturale una interpretazione del governo più incline alla mediazione e ai compromessi; e la ricerca di capi partito maestri di compromesso e di alleanze. In fondo, alcuni dei pilastri dell’Italicum che sono stati sbriciolati dalla Consulta, portano in quella direzione. Avere ritenuto incostituzionali il ballottaggio e la possibilità di optare per il collegio per chi si presenta in più città, è un parziale colpo a oligarchie e segretari di partito tendenzialmente onnipotenti. Parziale, perché rimangono i capilista bloccati: una pattuglia di parlamentari iper-fedeli a leader che possono predeterminarne l’elezione. Ma lo spirito di un Italicum che la sera dopo il voto doveva permettere di sapere chi aveva vinto e chi no, è evaporato. E il premio di maggioranza alla Camera ma non al Senato riconsegna un’incognita vistosa, da sciogliere prima di tornare alle urne. È il momento di ricostruire un simulacro di credibilità istituzionale. Inseguire scorciatoie elettorali che porterebbero a leggi di parte e a ulteriori convulsioni, o allungare inutilmente i tempi, significherebbe sciuparla. E, oltre a tradire gli orientamenti così attesi della Corte costituzionale, vorrebbe dire sottomettere il sistema politico a una nuova, lunga stagione di subalternità a poteri esterni.

Nessun commento: