Remo Bodei (sole24ore)
A incontrarlo nella vita privata, Zygmunt Bauman 
era un uomo gentile, che suscitava una sorta di tenerezza in chi aveva 
occasione di osservarne le premurose manifestazioni d’affetto per 
Janine, sua prima moglie, eroina dell’insurrezione del ghetto di 
Varsavia, e per Aleksandra, sua seconda moglie, un’allieva dei suoi 
primi corsi di sociologia, ritrovata in tarda età. Era perciò difficile 
capire subito come la sua apparente serenità, la sua pacata saggezza 
nell’argomentare problemi complessi, la sua insaziabile curiosità 
rivolta a tutti gli aspetti della condizione umana potessero coesistere 
con l’esperienza dei drammi attraversati nel corso della sua lunga vita:
 l’invasione tedesca della Polonia, l’olocausto, la partecipazione alla 
guerra, da giovanissimo, nelle truppe polacche arruolate dall’Armata 
Rossa, la dura militanza politica e teorica, inizialmente da marxista, 
l’espulsione dall’università di Varsavia in seguito a un’ennesima ondata
 di antisemitismo, la temporanea attività didattica all’università di 
Tel Aviv, da cui si allontanò per dissapori sulla politica sionista, 
fino al pluridecennale insegnamento a Leeds e all’acquisto della 
cittadinanza britannica. 
La sua fama viene normalmente associata all’idea di “società liquida”
 e di tanti altri fenomeni catalogati sotto l’etichetta della 
“liquidità”. Tale proprietà attribuita al mondo moderno e “postmoderno” 
costituisce, in effetti, uno dei suoi maggiori contributi alla 
comprensione del presente, la cui lontana origine può essere fatta 
risalire a una frase del Manifesto del partito comunista di Marx e Engels (già ripresa da Marshall Berman in All that is solid melts into air,
 del 1985), in cui si afferma che, con la borghesia, tutto ciò che è 
solido si dissolve nell’aria e tutto ciò che è sacro viene profanato. 
Bauman aveva acutamente articolato questo spunto isolato nell’ampia 
analisi delle società contemporanee nell’era della globalizzazione 
diffusa. Le aveva descritte come caratterizzate dall’indebolimento o 
dall’impotenza di quelle strutture (come lo Stato-nazione) che avevano 
in precedenza garantito le “strategie di vita” e l’orizzonte di senso 
dei singoli e delle collettività.
Da ciò faceva discendere una serie di fattori: l’individualismo di 
massa, per cui si allentano sia i legami tra persone e istituzioni, sia 
quelli delle persone tra loro (segnalava, a questo proposito, il fatto 
che negli Stati Uniti i divorzi dopo due anni di matrimonio fossero 
saliti al 50% e che si stesse diffondendo la moda dello speed-dating,
 degli- incontri-lampo e senza impegno per cuori solitari); 
l’affievolirsi nelle coscienze dei valori etici, che, a causa della 
rapidità dei mutamenti, non riescono più a sedimentarsi in abitudini e 
tradizioni; la solitudine degli individui, che trova una parziale 
compensazione nello sforzo di allontanare sempre più il pensiero della 
morte; il desiderio di consumare la vita al pari di ogni altra merce, 
alla ricerca nello shopping di una felicità da afferrare avidamente 
prima che sfugga l’occasione. Alla struttura si sostituisce così la 
rete, alla durata la provvisorietà, al culto della memoria la 
propensione all’oblio, alla padronanza di sé la preoccupazione per la 
propria incolumità di fronte a pericoli incontrollabili come il 
terrorismo.
Eppure, questo aspetto ’liquido’ che sembra onnipervasivo si 
restringe a quella parte del genere umano che vive nelle zone più 
fortunate e sicure del pianeta o nelle sparse nicchie ritagliate altrove
 dai privilegiati. Nel resto del mondo, l’ordine della modernità 
capitalistico-liberale, che si esprime attraverso la globalizzazione 
diffusa, ha invece creato un’umanità di esseri in esubero, i quali – 
analogamente ai rifiuti prodotti dalla società industriale – hanno le 
loro discariche e non sono più utilizzabili. La globalizzazione ha i 
suoi salvati e i suoi sommersi. Con un cambiamento di direzione rispetto
 ai flussi migratori dell’età del colonialismo, le “vite di scarto” 
invadono i paesi meno segnati da fame e da guerre, che si sentono perciò
 minacciati. Da quando la modernizzazione compulsiva ha permeato il 
resto del mondo, «gli effetti del suo dominio planetario sono ricaduti 
su chi li ha provocati»: «Loro sono troppi» e «Noi non siamo abbastanza»
 si dice allora nelle nazioni a natalità decrescente.
L’ordine è così diventato disordine, generando ulteriori paure e 
incertezze nei confronti del futuro. Queste ultime, tuttavia, 
s’innestano e si sommano a quelle da sempre comuni a tutti gli uomini. 
In qualsiasi società umana, in tutta la storia della nostra specie, la 
paura e l’incertezza sono, infatti, costanti ineliminabili. Hanno la 
propria sorgente nella consapevolezza, che ciascuno avverte, di dover 
morire, nell’orrenda prospettiva della putrefazione del corpo e del 
precipitare della vita nel nulla o nell’ignoto. Tutte le civiltà 
rappresentano pertanto delle reazioni all’esistenza effimera degli 
individui, “fabbriche di trascendenza”, ossia di superamento incessante 
di ciò che si trova prima che l’immaginazione della cultura si metta in 
moto nel creare l’illusione necessaria della permanenza e del senso 
delle cose. La civiltà trionfa sulla morte soprattutto quando essa non 
«appare sotto il proprio nome», là dove «riusciamo a vivere come se la 
morte non ci fosse o non ci importasse».
Quello che, per sua stessa ammissione, Bauman si è sforzato di fare è
 stato di indurci a guardare «con occhi un po’ diversi, il fin troppo 
familiare - o così si dice - mondo moderno che tutti condividiamo e 
abitiamo». Nell’assegnare alla nostra parte di mondo il carattere 
ineliminabile della “liquidità”, egli ha, tuttavia, sottovalutato i 
recenti sviluppi storici. Con il progressivo manifestarsi dei lati 
negativi della globalizzazione, si scopre oggi, sempre di più, la solida
 durezza e la spigolosità del reale, la difficoltà di oltrepassare i 
limiti di benessere e di sicurezza promessi negli ultimi decenni del 
secolo scorso. Inoltre, a causa del prolungarsi in molti paesi della 
crisi finanziaria del 2007/2008, anche la felicità data dallo shopping 
diminuisce nella stessa proporzione in cui lo shopping stesso è 
costretto a diminuire. Si direbbe che il nostro tempo cominci a 
somigliare, in misura inquietante, agli anni Trenta del Novecento, con 
il ritorno dei nazionalismi e del protezionismo e con la richiesta di 
chiusura delle frontiere. Anche l’Occidente si sente meno liquido. 
Avanza l’esigenza di un nuovo senso di responsabilità e aumenta la 
consapevolezza della drammaticità delle decisioni.
 
 
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