6.10.18

Reddito di cittadinanza. Una certa idea di povertà

Dietro il veto sulle spese "immorali" c'è il pensiero che i più bisognosi siano inaffidabili 

Chiara Saraceno (La Repubblica)

Che siano 8 o 10 i miliardi che alla fine saranno destinati al reddito di cittadinanza, si tratta sempre di una cifra di gran lunga superiore a quanto nessun governo italiano abbia mai impegnato per il contrasto alla povertà. Si avvicina molto a quanto è stato stimato necessario per portare tutti coloro che si trovano in povertà assoluta (i cinque milioni di persone di cui si parla, che includono anche oltre un milione di stranieri regolari) al livello della soglia che la identifica. Anche se è molto meno di quanto sarebbe necessario per coprire tutti coloro che si trovano in povertà relativa, sarebbe una buona notizia. Chi si scandalizza per l'entità dell'impegno di spesa dovrebbe piuttosto farlo per quella, quasi analoga, impegnata per garantire l'abbassamento dell'età della pensione ad un numero molto più ridotto di persone — 400 mila si stima — che non solo non si trovano in stato di bisogno, ma rappresentano un gruppo relativamente privilegiato, spesso con speranze di vita più lunghe sia di chi è povero, sia di chi, lavoratore o lavoratrice, non potendosi permettere di prendere una pensione esigua o non avendo ancora maturato l'anzianità contributiva richiesta, dovrà invece continuare a lavorare anche in condizioni pesanti. O per il condono fiscale, contrabbandato per pace fiscale a spese dei contribuenti onesti. Lo scandalo, a mio, parere, sta nel modo in cui Di Maio, Castelli e compagni stanno ridefinendo il cosiddetto reddito di cittadinanza. Dopo avergli dato un nome che, intenzionalmente o meno, consentiva fraintendimenti — un reddito dato a tutti, in modo incondizionato — ora si ripromettono di trasformarlo in uno strumento non solo, come era già dall'inizio, selettivo, cioè destinato ai poveri, anche se con qualche confusione e incertezza su come identificarli, ma fortemente paternalistico.

Non verrà concesso in moneta liquida, ma su una carta di debito. Potrà essere speso solo su suolo italiano (non sia mai che un povero comasco attraversi la frontiera svizzera per comprarsi del caffè), in esercizi italiani (verranno esclusi Carrefour, , Auchan e simili?) e possibilmente per prodotti italiani. Non potrà assolutamente essere speso per consumi voluttuari, immagino definiti da apposita commissione etica, e nemmeno risparmiato. Ciò che non si spende della somma mensile assegnata verrà perso, come i minuti e i giga dei contratti dei cellulari. Dietro questo approccio c'è l'antica idea che i poveri siano inaffidabili, moralmente deboli. Lasciati a se stessi, invece di comprare latte e scarpe per i bambini e pagare l'affitto, si darebbero al bere e al gioco d'azzardo o alle spese pazze. Vanno messi sotto tutela. Riceveranno reddito in cambio di cessione di cittadinanza. Aggiungo che la scelta della carta invece del denaro liquido, già sperimentata con il Sia (Sostegno per l'inclusione attiva) e non del tutto superata neppure con il Rei (Reddito di inclusione), pone anche altri problemi. Lascia tutto il potere di spesa al titolare della carta, a detrimento degli altri componenti adulti della famiglia. Espone all'umiliazione di vedersi rifiutati alcuni prodotti alla cassa del supermercato. Molti piccoli negozi, specie nei paesi, non hanno il bancomat. Lo stesso vale per molte persone, specie tra i più poveri. Anche impedire di risparmiare in vista di spese future — ad esempio scarpe per i figli, una nuova cucina a gas, la riparazione del motorino con cui si va a lavorare, un regalo — contrasta con l'obiettivo di aiutare le persone e le famiglie a gestire il proprio bilancio, a programmare, quindi anche a risparmiare. Così si trasformano i poveri non in cittadini, ma in consumatori forzati sotto tutela.

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