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6.10.18

Reddito di cittadinanza. Una certa idea di povertà

Dietro il veto sulle spese "immorali" c'è il pensiero che i più bisognosi siano inaffidabili 

Chiara Saraceno (La Repubblica)

Che siano 8 o 10 i miliardi che alla fine saranno destinati al reddito di cittadinanza, si tratta sempre di una cifra di gran lunga superiore a quanto nessun governo italiano abbia mai impegnato per il contrasto alla povertà. Si avvicina molto a quanto è stato stimato necessario per portare tutti coloro che si trovano in povertà assoluta (i cinque milioni di persone di cui si parla, che includono anche oltre un milione di stranieri regolari) al livello della soglia che la identifica. Anche se è molto meno di quanto sarebbe necessario per coprire tutti coloro che si trovano in povertà relativa, sarebbe una buona notizia. Chi si scandalizza per l'entità dell'impegno di spesa dovrebbe piuttosto farlo per quella, quasi analoga, impegnata per garantire l'abbassamento dell'età della pensione ad un numero molto più ridotto di persone — 400 mila si stima — che non solo non si trovano in stato di bisogno, ma rappresentano un gruppo relativamente privilegiato, spesso con speranze di vita più lunghe sia di chi è povero, sia di chi, lavoratore o lavoratrice, non potendosi permettere di prendere una pensione esigua o non avendo ancora maturato l'anzianità contributiva richiesta, dovrà invece continuare a lavorare anche in condizioni pesanti. O per il condono fiscale, contrabbandato per pace fiscale a spese dei contribuenti onesti. Lo scandalo, a mio, parere, sta nel modo in cui Di Maio, Castelli e compagni stanno ridefinendo il cosiddetto reddito di cittadinanza. Dopo avergli dato un nome che, intenzionalmente o meno, consentiva fraintendimenti — un reddito dato a tutti, in modo incondizionato — ora si ripromettono di trasformarlo in uno strumento non solo, come era già dall'inizio, selettivo, cioè destinato ai poveri, anche se con qualche confusione e incertezza su come identificarli, ma fortemente paternalistico.

Non verrà concesso in moneta liquida, ma su una carta di debito. Potrà essere speso solo su suolo italiano (non sia mai che un povero comasco attraversi la frontiera svizzera per comprarsi del caffè), in esercizi italiani (verranno esclusi Carrefour, , Auchan e simili?) e possibilmente per prodotti italiani. Non potrà assolutamente essere speso per consumi voluttuari, immagino definiti da apposita commissione etica, e nemmeno risparmiato. Ciò che non si spende della somma mensile assegnata verrà perso, come i minuti e i giga dei contratti dei cellulari. Dietro questo approccio c'è l'antica idea che i poveri siano inaffidabili, moralmente deboli. Lasciati a se stessi, invece di comprare latte e scarpe per i bambini e pagare l'affitto, si darebbero al bere e al gioco d'azzardo o alle spese pazze. Vanno messi sotto tutela. Riceveranno reddito in cambio di cessione di cittadinanza. Aggiungo che la scelta della carta invece del denaro liquido, già sperimentata con il Sia (Sostegno per l'inclusione attiva) e non del tutto superata neppure con il Rei (Reddito di inclusione), pone anche altri problemi. Lascia tutto il potere di spesa al titolare della carta, a detrimento degli altri componenti adulti della famiglia. Espone all'umiliazione di vedersi rifiutati alcuni prodotti alla cassa del supermercato. Molti piccoli negozi, specie nei paesi, non hanno il bancomat. Lo stesso vale per molte persone, specie tra i più poveri. Anche impedire di risparmiare in vista di spese future — ad esempio scarpe per i figli, una nuova cucina a gas, la riparazione del motorino con cui si va a lavorare, un regalo — contrasta con l'obiettivo di aiutare le persone e le famiglie a gestire il proprio bilancio, a programmare, quindi anche a risparmiare. Così si trasformano i poveri non in cittadini, ma in consumatori forzati sotto tutela.

11.3.14

«Bisogna mettere le quote blu» (intervista a Chiara Saraceno sul Manifesto)

«Bisogna mettere le quote blu»
«Ma quali quote rosa. Guardi sono categorica: qui il problema vero è di quote blu, o azzurre se preferisce, nel senso che va ridotto il numero di uomini presenti in parlamento. Bisogna mettere fine a questo monopolio. Ecco cosa servirebbe davvero: una norma antimonopolistica». Chiara Saraceno, sociologa che da anni si occupa anche della condizione femminile, guarda con occhi quasi indignati a quanto accade in questi giorni in parlamento. «Sono stanca che la questione venga sempre formulata in termini di quote delle donne», dice. «Non si tratta di un problema solo lessicale, ma concettuale e di prospettiva: la questione è la riduzione del monopolio maschilee infatti è proprio così che chi si oppone lo sta percependo: come la rottura di un monopolio. E’ per questo che in un quadro istituzionale come quello che si sta delineando e che trovo particolarmente orroroso, in cui sono rimasti i listini bloccati, in cui nessuno entra perché ha particolari meriti ma solo perché scelto da qualcun altro, non si instauri il principio dell’alternanza nelle liste, un uomo e una donna. Così si afferma che gli uomini sono più bravi. Cicchitto e Gasparri dicono: «Bisogna che le donne provino il merito». Ma perché loro l’hanno provato?
Lei dice: è anche una questione di linguaggio. Ma non sarà che in realtà le donne non sono convinte di queste battaglia? E poi c’è un dato di fatto: sono le donne che non votano le donne.
Questo non lo può più dire. Lo dicevamo quando io ero giovane, che le donne non votavano le donne, ma c’erano le preferenze. E anche allora non era facilissimo, perché uno doveva andare a cercarle con il lanternino visto che i partiti che le mettevano in lista poi non le rendevano anche visibili. Ma è da un bel pezzo che non è più così.
Ciò non toglie che solo la minoranza delle deputate ha firmato al petizione sulle quote rosa.
Che difficoltà tradisce questo dato?
Difficoltà multiple. Primo: a nessuna di noi piace essere una quota, perché viene percepita come una quota protetta, scelta non sulla base del merito ma perché riempie appunto la quota. Come se gli uomini poi fossero sempre scelti sulla base del merito. Credo inoltre che ci sia anche il timore di inimicarsi gli uomini, e quindi di non essere più messa in lista. Per quanto riguarda il Pd, poi, Renzi ha dato un messaggio chiarissimo: non è un tema importante, non ha fatto parte delle negoziazioni.
Però Renzi dice: io la parità la pratico.
Ma questo non mi importa, perché il problema non è che il singolo individuo pratichi la parità, cosa oltretutto falsa perché sì, è vero che il 50% dei ministri sono donne, ma tre sono senza portafoglio.
Ma comunque la parità non può essere affidata alla pura buona volontà. Renzi ha anche detto: la vera parità è che le donne prendano lo stesso stipendio degli uomini a parità di lavoro. Già, ma le donne spesso non riescono neppure ad avere la parità di lavoro. E allora tu devi garantire che possano correre con le stesse possibilità.
Ma è giusto stabilire la parità di genere per legge?
La parità nella corsa sì, assolutamente. Vede, io a lungo ho sperato che sarebbe avvenuto un mutamento culturale, ma così non è stato. Anche Paesi culturalmente più evoluti del nostro per arrivare a un riequilibrio tra uomini e donne in parlamento hanno dovuto in qualche modo introdurre un sistema di riduzione della quota maschile. Questo è avvenuto in modi diversi: in alcuni Paesi per legge, in altri grazie ad alcuni partiti che hanno cominciato a farlo e gli altri hanno capito che non potevano restare fuori da questa competizione. Ma in nessun caso la cosa è avvenuta in modo evolutivamente naturale, altrimenti ci sarebbero voluti duecento anni.
Il fatto che il governo si sia rimesso all’aula non è la prova che se ne lava le mani? Così come i partiti che hanno lasciato libertà di votare secondo coscienza.
E’ gravissimo. Ed è interessante la scelta dei partiti che considerano l’intera questione un caso di coscienza, non un caso di democrazia. Ma trovo gravissimo anche che le ministre non si siano espresse. Se loro sono lì, al governo, non è perché Renzi è bravo, ma perché in passato ci sono state delle lotte che hanno fatto sì che il problema della rappresentanza femminile venisse fuori e maturasse.
Quindi hanno delle responsabilità nel farsene carico. Il loro silenzio invece fa paura.

27.2.11

Quando il premier parla della famiglia

 Chiara Saraceno (La repubblica)

Come previsto, Berlusconi salda puntualmente il debito contratto con la gerarchia cattolica in cambio della benevola tolleranza di questa, attenuata solo da qualche critica molto sfumata e generica, nei confronti suoi e del suo governo per le costanti violazioni della morale pubblica e privata. Chi, nell´opposizione e nell´opinione pubblica, riteneva che il disagio manifestato da parte della stampa cattolica, da qualche esponente della gerarchia, oltre che da moltissimi uomini e donne cattoliche, per i comportamenti pubblici e privati di Berlusconi avrebbe provocato un indebolimento del sostegno offertogli dalla gerarchia, deve ancora una volta ricredersi. I due attori in gioco – Berlusconi e gerarchia cattolica– sono da questo punto di vista del tutto simili per grado di cinismo politico.
Perciò la gerarchia può ascoltare senza battere ciglio, e anzi compiacersi, che Berlusconi oggi vada in giro predicando, anche a platee di cattolici, a difesa della famiglia – si intende quella eterosessuale, fondata sul matrimonio, ove la sessualità è orientata esclusivamente alla procreazione, e la fedeltà coniugale la norma. Il “moralismo”, che è una brutta cosa quando viene applicato nei giudizi nei confronti di Berlusconi (Ferrara docet) diviene un obbligo stringente quando si tratta dei cittadini comuni. In questo spericolato esercizio di doppia morale Berlusconi è appunto confortato dalla gerarchia cattolica che, oggi come sempre, in Italia come in situazioni molto più fosche dal punto di vista della libertà e della democrazia, guarda agli atti politici che le giovano, non a chi li compie e al contesto in cui ciò avviene. Come il denaro (si vedano le non sempre trasparenti vicende finanziarie del Vaticano), anche le leggi “non olent” quando portano risorse finanziarie o di controllo alla istituzione chiesa. E Berlusconi ne promette a tutto campo, dopo aver già concesso lo sconto sull´Ici in sprezzo della normativa europea e della correttezza delle regole di mercato: sulla famiglia, ma anche sulla scuola, a costo di delegittimare la scuola pubblica come istituzione educativa, rappresentandola come una sorta di scuola di partito sovietico. E, naturalmente, sul testamento biologico e le disposizioni di fine vita.
Più ancora che sotto i governi democristiani, i cittadini italiani sono un puro ostaggio nel grande scambio di risorse in cambio di legittimazione messo in atto da questo governo, e in particolare da Berlusconi, con la gerarchia cattolica.
Incontro molti cattolici che individualmente e anche in gruppi e associazioni si dissociano, costituendo delle forme silenziose di “chiese” alternative dentro o accanto alla chiesa ufficiale. E´ un fenomeno ricorrente dentro alla storia della chiesa cattolica, di cui si trova traccia nella origine, ad esempio, di molti ordini monacali, a testimonianza del fatto che la tensione tra la realpolitik e l´espressione della fede è per certi versi strutturale entro la chiesa. Ma certo oggi è uno dei tempi in cui essa si manifesta più acutamente, almeno in Italia: dove alla presenza ingombrante del Vaticano si aggiunge un episcopato molto coinvolto nella politica, almeno nei suoi vertici. Le motivazioni del dissenso sono tra loro diverse e a volte contrastanti. C´è chi vorrebbe più coerenza e universalismo nella applicazione di norme condivise, chi invece dissente sulla formulazione delle norme e l´interpretazione delle questioni di fede. E´ una situazione da osservare con grande rispetto. Ma senza sovraccaricare il dissenso interno alla chiesa di aspettative politiche. Piuttosto, a livello di giudizio politico, è ora che si dica chiaramente che il degrado etico (che nulla ha a che fare con il moralismo) e civile in cui ci troviamo non è solo responsabilità di Berlusconi, della sua maggioranza, delle sue televisioni. E´ responsabilità anche della doppia morale cinicamente esercitata dalla gerarchia cattolica ogni volta che sono in gioco i suoi interessi come istituzione di potere. Più grave ancora del fatto che di volta in volta pretenda che si legiferi in accordo ai suoi principi fatti valere come validi per tutti, è il fatto che taccia, e spesso si compiaccia persino, quando la religione cattolica e i suoi simboli sono usati politicamente come armi improprie per posizionarsi, affermare identità, escludere qualcuno. Questo doppio cinismo (di chi ci governa e della gerarchia che lo legittima) e la doppia morale che ne deriva non hanno solo effetti nefasti sulla nostra libertà di cittadini. Stanno anche corrodendo la coscienza civile.

2.4.10

L'imposizione del dolore

CHIARA SARACENO
A un giorno dalla vittoria elettorale il neo-governatore del Piemonte ha mandato un messaggio chiaro, che sia strumentale o dettato da autentica convinzione
Ora che c'è lui le donne piemontesi (ma forse altri governatori di centro destra seguiranno l'esempio, avviando una nobile gara sulla pelle delle donne) continueranno ad abortire con il massimo del dolore possibile. Proprio ora che, dopo mesi di ritardi e rimpalli sembrava che la Ru486 potesse finalmente essere somministrata anche in Italia, sia pure con maggiori restrizioni che nel resto del mondo, Roberto Cota ha dichiarato che, dato che lui è personalmente contro l'aborto, la pillola abortiva in Piemonte non sarà distribuita. Non so se abbia il potere di bloccare effettivamente un farmaco approvato da tutte le istituzioni preposte. Anche se abbiamo ormai imparato quanto l'arroganza dei politici al potere possa interferire come norme di dritto e con i più elementari principi di rispetto dei diritti, della dignità e della libertà dei singoli. In ogni caso, ha mandato un segnale chiaro di intimidazione all'intero sistema sanitario, che sappiamo quanto sia dipendente dalla po-litica. Dovranno avere molto coraggio i sanitari piemontesi a somministrare la pillola Ru486 alle donne che lo richiederanno, invece di praticare su di loro l'aborto tradizionale.
Le donne piemontesi sono comunque avvertite. Roberto Cota è uno dei candidati governatori che non ha ritenuto opportuno rispondere neppure con una frase di circostanza alla richiesta di una associazione di donne — Pari o Dispare —che aveva chiesto a tutti i candidati di esprimersi circa l'opportunità di istituire strumenti di monitoraggio per valutare l'impatto sulla disuguaglianza di genere delle politiche regionali. Appena eletto governatore ha affrontato proprio un punto cruciale della libertà femminile: la libertà di avere o non avere un figlio, di accettare o non accettare una gravidanza non voluta. Ha detto chiaro che per lui quella libertà non esiste, non ha valore. La vita di una donna vale meno di quella di uno zigote o di un feto alle prime settimane. E se proprio una donna insiste a non voler dar corso a una "vita nascente", che patisca fino in fondo. E soprattutto non le sia lasciatala possibilità di decidere, insieme al medico, quale è il modo più sostenibile e più appropriato. «Uteri che camminano», le donne sono viste solo come appendici del proprio utero gravido. Se potessero, questi signori reintrodurrebbero il carcere per chi abortisce.
Certo è un po' paradossale che questo paladino della «vita umana fin dalla nascita», anche in contra-sto con la libertà e la dignità delle cittadine concretamente esistenti, sia il rappresentante di un partito che molto spesso viceversa mostra profondo sprezzo per le vite umane già nate e presenti: bambini e adulti immigrati, specie se poveri, o di religione o di colore della pelle diversi. Difendere la «vita nascente» è facile, non costa nulla ai politici e fa sentire buoni e apprezzati dalla chiesa cattolica. Assumersi responsabilità verso «la vita nata» è molto più complicato e costoso.
(La Repubblica)

10.10.09

Nelle offese a Rosy Bindi la"filosofia dell'utilizzatore"

Stupisce il silenzio delle donne dei partiti di governo
che accettano la logica sessista degli uomini del Pdl

di CHIARA SARACENO

Il premier che "adora le donne", come ha graziosamente risposto al giornalista spagnolo che lo interrogava sulle sue frequentazioni, perde non solo le staffe, ma ogni senso della buona educazione e del limite appena una donna, una sua collega parlamentare e vicepresidente della camera, si permette di criticarlo. Nella cultura da caserma in cui sembra trovarsi a suo agio quando tratta di donne e con le donne, non gli basta insultarla genericamente come comunista mangiabambini, come fa di consueto con gli oppositori del suo stesso sesso.

Non può trattenersi dall'appoggiare il suo disprezzo ad un giudizio estetico. Confermando che per lui - per altro brutto, tinto e rifatto, oltre che piuttosto anziano - le donne si dividono in due categorie: quelle (per lui) guardabili e potenzialmente utilizzabili (se non già utilizzate), la cui intelligenza è eventualmente un optional e comunque non deve velarne il giudizio obbligatoriamente positivo nei suoi confronti, e tutte le altre. Le non convenzionalmente belle e le anziane sono accettabili solo se adoranti. Altrimenti cadono sotto la mannaia del giudizio di non esistenza.

Il leghista Castelli ha offerto un'altra variante della stessa cultura da caserma, scegliendo un altro topos classico, quello della zitella. Come se, tra l'altro, una donna senza un uomo fosse automaticamente una donna non voluta, non desiderata e non una che ha scelto di non avere un compagno (saggiamente, verrebbe da dire, se questi fossero gli unici tipi di maschi disponibili sul mercato). Per i leghisti, apparentemente, le donne non devono coprirsi il volto e il capo per motivi religiosi, ma vale sempre l'esortazione del Veneto profondo, secondo cui la donna "Che la tosa la tasa, che la piasa, che la staga a casa" - un atteggiamento non molto distante da quello degli uomini tradizionalisti mussulmani da cui gli orgogliosi leghisti nordici si sentono tanto diversi.

Con prontezza, Rosy Bindi ha reagito all'insulto osservando che ovviamente lei non appartiene alla categoria delle disponibili e utilizzabili . Ma è stata la sola a reagire alla maleducazione di Berlusconi e Castelli. Nonostante qualche faccia imbarazzata, nessuno dei maschi presenti, incluso il conduttore, ha ritenuto doveroso prendere le distanze da questo tipo di linguaggio e comportamento gravemente sessista, che rende difficile partecipare alla comunicazione pubblica le poche donne cui, raramente, si concede la parola (Bindi era la sola donna l'altra sera a Porta a Porta, in un folto parterre di uomini).

Nessuno dei molti brutti, sfatti e rifatti uomini più o meno anziani che popolano la politica italiana deve temere di essere insultato e delegittimato per questo dai propri interlocutori, per quanto aggressivi. Il silenzio - complice, imbarazzato o codardo - degli uomini sia alleati a Berlusconi che all'opposizione, sia in politica che nei media è una questione politicamente seria che andrebbe affrontata, perché segnala quanto siano profonde le radici culturali del sessismo nel nostro paese. Non dimentichiamo che in Spagna Zapatero è stato attaccato dalla stampa per aver assistito in silenzio allo show in cui Berlusconi ha spiegato come intende le norme di ospitalità quando si trova di fronte una bella donna potenzialmente disponibile.

Ma c'è anche un altro silenzio che disturba: quello delle donne dei partiti di governo, a cominciare dalle ministre. Le loro voci si sono levate solo quando il capo le ha chiamate all'appello perché lo difendessero allorché scoppiarono gli scandali a catena: dalle candidature promesse alle veline a Noemi ai festini di Villa Certosa. Mai nessuna presa di distanza dalla immagine di donna - e di loro come politiche e come ministre - che emerge dalle appassionate autodifese del loro capo.

Particolarmente silente è la ministra delle Pari opportunità, che pure dovrebbe parlare per dovere istituzionale. Qualsiasi siano i motivi per cui è finita lì, cerchi di ricordarsi per favore che le pari opportunità non sono un concorso di bellezza. E che non si può lasciare a dei vecchi mandrilli, per quanto ricchi e potenti, il potere di parola e di giudizio su ciò che sono, sanno e possono fare e dire le donne, a prescindere dall'età e dai canoni estetici. Lasciare insultare una collega, anche della opposizione, con argomenti che nulla hanno a che fare con la politica, ma solo con il sessismo, è un errore grave, di cui paghiamo il prezzo tutte.

11.8.09

Chi gioca con i salari

II costo della vita varia anche tra aree metropolitane e piccoli comuni del Nord. E poi al Sud i servizi sono di qualità inferiore

di CHIARA SARACENO

Dopo i sindacati, anche Confindustria ha osservato che già ora i salari ufficiali sono differenziati per ambito territoriale, anche dopo l'abolizione delle gabbie salariali: perché le aziende più grandi, dove i salari sono in media più alti, sono più diffuse al Nord e perché qui è anche più diffusa la contrattazione aziendale.

Viceversa, aggiungo io, al Sud è più diffusa, soprattutto nelle piccole aziende, la pratica di distinguere tra busta paga ufficiale e salario effettivo, con il secondo più o meno sostanziosamente più basso del primo. Fosse solo per questi motivi, non si capisce la ragione per cui il presidente del Consiglio si accoda a Bossi nell'auspicare la reintroduzione delle gabbie salariali, proprio nel momento in cui si autonomina a capo della riedizione della Cassa per il mezzogiorno.

Ma ci sono altri motivi, oltre a quelli di uno stato davvero liberale che non fissa per legge i limiti salariali e i loro confini geografici, che devono indurre a respingere ogni velleità di re-introduzione di salari territoriali. Il primo motivo è che le differenze del costo della vita non riguardano solo le grandi ripartizioni territoriali. Altrettanto grandi sono le differenze tra aree metropolitane, grandi città e piccoli comuni. Ad esempio, secondo i calcoli dell'Istat, lo stesso paniere di beni essenziali costa circa 195 euro in più al mese in un'area metropolitana del Nord rispetto a una del Sud e isole, ma anche 76 euro in più rispetto a un piccolo comune sempre del Nord. Per motivi di coerenza, occorrerebbe quindi differenziare i salari anche all'interno di ciascuna area territoriale. Il secondo motivo, più importante, è che non basta tenere conto del costo della vita misurato sui consumi quotidiani e abitativi per comparare il valore dei salari nelle varie zone del paese. Occorre tenere conto di almeno due altri elementi. Il primo è la quantità e la qualità dei beni pubblici disponibili nei vari territori: scuola, sanità, infrastrutture, trasporti, sicurezza, efficienza della pubblica amministrazione e così via. Anche questi, infatti, entrano nella valutazione del benessere dei singoli e delle famiglie, integrando le economie famigliari o viceversa, quando sono assenti o di cattiva qualità, rappresentando un costo aggiuntivo.

Il secondo motivo è che il valore del salario non va rapportato solo al costo della vita, ma anche al numero di persone che di esso deve vivere. È noto che nel Mezzogiorno non solo i salari sono mediamente più bassi che nel Centro-Nord (e lo stesso vale per le pensioni), ma devono bastare per famiglie mediamente più grandi, tanto più che, vista la situazione del mercato del lavoro, nel Mezzogiorno sono meno diffuse le famiglie con due o più percettori.

Secondo i dati dell'indagine europea sulla condizioni socio-economiche delle famiglie, tra le famiglie il cui reddito principale è da lavoro dipendente, quelle del mezzogiorno hanno un reddito medio netto, tenuto conto anche del possesso dell'abitazione, del 20,4% inferiore a quelle del Nord. Uno scarto superiore al 16% complessivo di differenziale nel costo della vita rilevato da Istat e Banca d'Italia che ha scatenato la polemica di questi giorni. Gli scarti sono particolarmente accentuati per alcuni tipi di famiglia, per altro più diffusi nel Mezzogiorno rispetto ad altre aree del paese. Una famiglia di quattro persone ha un reddito netto pari al 67,4% di una famiglia analoga del Nord e al 69% di una del Centro. Se ci sono due figli minori, il reddito famigliare è pari al 65% di quelle analoghe del Nord. Non stupisce che l'incidenza della povertà assoluta, misurata tenendo conto del costo della vita, sia più che doppia nel Mezzogiorno rispetto al Centro-Nord.

Ma è soprattutto la diversa quantità e qualità dei beni pubblici a fare la differenza. Sappiamo come la scuola abbia sia infrastrutture che prestazioni più basse nel Mezzogiorno. I servizi per l'infanzia sono scarsi e spesso a metà tempo, così come la scuola elementare.

Di conseguenza, anche a fronte dell'esistenza di forti rischi ambientali, molte famiglie a reddito modesto preferiscono mandare i figli ad imparare un mestiere anche a scapito di un impegno scolastico di cui non vedono i benefici. Sappiamo anche che, nonostante alcune eccellenze, il servizio sanitario è spesso così scadente da costituire un rischio per la vita e da incoraggiare, in chi può, un turismo sanitario interregionale, con i costi aggiuntivi che questo comporta. A sud di Roma, i trasporti ferroviari e le autostrade assomigliano spesso a quelli di un paese del Terzo mondo. E l'efficienza della pubblica amministrazione è molto inferiore alla media, pur non eccelsa, nazionale.

Piuttosto che trastullarsi con l'idea delle gabbie salariali il governo dovrebbe intervenire sulla indegnità di "gabbie territoriali di beni pubblici", di cui è non marginale responsabile anche il ceto politico locale, presente e passato, spesso con l'uso improprio (clientelare) della Cassa per il Mezzogiorno. Lo stesso ceto che, in barba non solo alle gabbie salariali, ma anche ad ogni criterio di produttività, si assegna lauti compensi per il proprio malgoverno senza che nessuno pensi autorevolmente di intervenire.