2.4.19

Parole

Giovanni De Mauro (Internazionale)

Nessun fornitore o utilizzatore di un servizio interattivo telematico sarà trattato come un editore o un portavoce delle informazioni prodotte da un altro fornitore di contenuto”. Queste sono le 26 parole che rendono possibile la diffusione di contenuti violenti su internet. E queste sono anche le 26 parole che consentono a internet di essere un posto libero, aperto, accessibile a tutti. Nel bene e nel male, senza queste parole internet oggi sarebbe molto diversa ed è probabile che Facebook, Google, YouTube, Twitter e Amazon non esisterebbero.

Sono nascoste nella sezione 230 del Communications decency act approvato dal congresso degli Stati Uniti nel 1996. Il presidente era Bill Clinton (e in Italia il premier era Lamberto Dini: per dire quant’era diverso il mondo). Il problema era evitare che i primi fornitori d’accesso a internet, CompuServe e Prodigy, fossero ritenuti responsabili per quello che i loro utenti scrivevano nei bulletin board, nelle chatroom e nelle newsletter. L’idea fu di considerarli non editori, ma intermediari. Come una biblioteca, che non può essere denunciata per i libri che ospita. Più di altre legislazioni al mondo, la sezione 230 ha protetto la libertà di espressione in rete. Ma a un costo che molti trovano troppo alto, soprattutto oggi che non serve più a favorire la crescita di una tecnologia appena nata.

Se n’è tornato a parlare dopo gli attentati in Nuova Zelanda, quando il terrorista che ha ucciso 50 persone in due moschee ha messo online il video della strage. Facebook e YouTube hanno cercato di limitarne la diffusione, senza riuscirci del tutto, e il video è stato visto da migliaia di persone e continua a circolare. “Perché tolleriamo una tecnologia che può essere usata per seminare odio e violenza alla velocità della luce e su scala mondiale?”. La domanda di John Thornhill sul Financial Times è legittima. Ma il confine tra controllo e censura è sottile. E attraversarlo può essere pericoloso.

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