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5.7.15

Il piano B di Grecia e Germania dopo il referendumTitolo del post

 
Carta di Laura Canali
[Carta di Laura Canali]
La contesa tra Atene e l’ex Troika è più politica che economica e non riguarda solo il debito pubblico. Merkel prepara da tempo un progetto alternativo all’Eurozona attuale, Tsipras dovrebbe fare lo stesso.
A maggio, il prezzo del petrolio è calato di circa 2 dollari al barile ($/b). In particolare, il Brent ha chiuso poco sopra i 63$/b mentre la qualità Wti attorno ai 59$/b. L’euro si è inizialmente apprezzato verso il dollaro superando quota 1,14€/$ dopo che la Fed ha dichiarato che il rialzo dei tassi sarà più lento e meno intenso rispetto a quanto precedentemente ipotizzato, per poi deprezzarsi a 1,12€/$ in conseguenza degli effetti della crisi greca.

Nonostante l’offerta globale di petrolio sia diminuita di 155 mila barili al giorno (b/d), collocandosi attorno ai 96 milioni di b/d, essa continua a eccedere la domanda per circa 1.5 milioni b/d. Secondo le stime dell’International Energy Agency, quest’ultima crescerà nell’anno in corso di 1.4 milioni di b/d sulla scia di un incremento del pil mondiale del 3,3%.

A Vienna, i membri dell’Opec – in particolare l’Arabia Saudita e i suoi alleati del Golfo – hanno deciso di mantenere invariato l’output del Cartello anche a costo di deprimere le quotazioni di mercato (ufficialmente, 30.49 milioni di b/d; in realtà, circa 1 milione di b/d in più) al fine di difendere le proprie quote, mettendo in difficoltà chi sostiene maggiori costi di estrazione, auspicando anche il rallentamento della produzione di tight oil negli Stati Uniti (vedi 1,2,3,4,5)

Il motivo per il quale il prezzo del barile continua a resistere è la presenza di una forte speculazione finanziaria non sostenuta dai cosiddetti “fondamentali”, a dimostrazione del fatto che il petrolio non è solo una materia prima, bensì un asset finanziario. Con ogni probabilità, nei mesi a venire il petrolio risentirà anche delle decisioni della Fed in merito al dollaro.

Secondo quanto riportato dal Financial Times, dall’inizio dell’anno Gazprom Neft ha iniziato a regolare le proprie esportazioni di petrolio verso la Cina in renminbi anziché in dollari. Per Verda, “dal punto di vista dei mercati petroliferi, l’egemonia del dollaro non è al momento in discussione: l’impatto della decisione russa è poco più che simbolico, dati i volumi in questione. Resta però sul tavolo la questione dell’inevitabile superamento dell’unicità della posizione del dollaro e del disancoramento dei prezzi del greggio dalle politiche monetarie statunitensi”.

A maggio, la Federazione Russa è stata il 1° fornitore di petrolio della Cina, scavalcando l’Arabia Saudita. Nel 2015 Riyad rimane ancora il principale fornitore di greggio di Pechino seguito a stretta distanza dall’Angola, ma le esportazioni di petrolio russo verso l’Impero del Centro sono aumentate di un terzo rispetto a maggio 2014. Non tanto a causa di qualità meno costose, bensì di una chiara scelta politica.

La Grecia e i suoi creditori (Fmi, Bce e Commissione europea, la cosiddetta Troika), dopo oltre 4 mesi di trattative pare non siano riusciti a trovare un accordo. Posto dinanzi alla sostanziale riproposizione delle politiche di austerità, il primo ministro greco Alexis Tsipras, ottenuto il via libera dal parlamento di Atene, ha indetto un referendum per domenica 5 luglio, riguardante l’accettazione o meno delle misure richieste dai creditori.

Indipendentemente dal fatto che quest’ultimo si tenga o sia annullato grazie a un accordo raggiunto in camera caritatis, l’impressione è che lo scoglio sia politico più che economico, cioè che consista nel profilo ideologico dell’alleanza Syriza-Anel attualmente al governo ad Atene. Inoltre, un’intesa che non contempli la capitolazione dell’esecutivo greco rischia di creare un “pericoloso” precedente che potrebbe essere replicato in Spagna con Podemos e magari in Francia (dove si vota nel 2017) con il Front National. Aprirebbe infine un auspicabile spiraglio a favore di modalità di rientro dall’eccessivo rapporto debito pubblico/pil di alcuni Stati dell’Ue – Italia in primis – che liberino risorse per la crescita.

Da un punto di vista strettamente economico, lo scontro in atto tra creditori e debitori solleva i seguenti punti di discussione:

  1. La Grecia, indipendentemente dall’esito delle trattative e del referendum e dalla volontà dell’attuale maggioranza di governo che continua a essere in favore della moneta unica, deve mettere in campo un’opzione alternativa alla permanenza nell’Eurozona che non escluda anche l’uscita dal mercato unico.
  2. Sulla scia dell’attuale posizione di Bruxelles nei confronti di Atene, è facile prevedere che i creditori non concederanno alcuno sconto riguardo l’attuazione del Fiscal Compact. Per l’Italia, dal 2016, ciò significherà ridurre il debito dello Stato per un ammontare pari a circa 45/50 miliardi di euro l’anno, obiettivo da conseguire in presenza della sciagurata aggiunta del principio del pareggio di bilancio in Costituzione (art. 81).
  3. La Germania non ha alcuna intenzione di convertire la propria economia dall’export ai consumi e agli investimenti. Berlino, in merito alla continuazione della propria politica neo-mercantilista, sta già predisponendo da tempo un eventuale piano B, il cui fulcro sarà volto a sostituire il mercato di sbocco intraeuropeo con quello dei mercati emergenti (Brics, Cina su tutti).

Da un punto di visto geopolitico, le potenziali conseguenze della crisi greca portano alla ribalta i seguenti interrogativi:

  1. La permanenza della Grecia nella Nato.
  2. Dopo la firma definitiva del 18 giugno tra Tsipras e il presidente russo Vladimir Putin, Atene può diventare lo snodo energetico dell’Europa del Sud grazie al gasdotto Turkish (Greek) Stream attraverso il quale verrà dirottato il gas naturale russo che, dal 2019, non transiterà più attraverso il sistema infrastrutturale dell’Ucraina. Questo aspetto interessa anzitutto l’Italia.
  3. La Cina, dopo avere individuato il porto del Pireo come hub in Europa meridionale ed essere in procinto di investire nel complesso del sistema infrastrutturale greco, ha in progetto la costruzione della tratta ferroviaria Atene-Budapest onde trasportare le proprie esportazioni.

In un contesto internazionale contraddistinto dai simultanei episodi terroristici verificatisi in Europa, Africa e Medioriente, oltre al conflitto strisciante in Ucraina e alle incognite legate all’accordo sul nucleare iraniano, potrebbe non essere così sbagliato estendere anche alla Grecia il modus operandi suggerito dall’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger nella sua intervista al Corriere della Sera del 18 giugno scorso. Nella sostanza, siano Stati Uniti, Federazione Russa – e Cina aggiungiamo noi – a creare quella sorta di “camera di compensazione” alla quale l’Europa si ostina a non volere, o forse a non poter, partecipare.

Purtroppo, a differenza dell’ottimo ruolo diplomatico svolto dall’Italia nel corso del Forum economico internazionale di San Pietroburgo del 18/19 giugno, la posizione assunta dal primo ministro italiano Matteo Renzi su Atene rischia di essere gravida di conseguenze negative anche per Roma.

Per approfondire: La Germania in Grecia: com’è nata e come si può risolvere la crisi di Atene

27.3.12

I martiri del Tibet sfidano la Cina

i Martiri Del Tibet Sfidano La Cina (Zucconi Vittorio)

16.11.08

Tra l'India e la Cina - AL TRAMONTO DELL OCCIDENTE SEGUIRÀ LA NOTTE DELL ORIENTE?

Due romanzi di autori indiani ruotano intorno allo stesso asse geografico: Mare di papaveri di Amitav Ghosh per Neri Pozza e La tigre bianca dell'esordiente Aravind Adiga per Einaudi. In uno stordente calderone linguistico, il primo rievoca il legame che le guerre dell'oppio hanno stabilito tra Cina e India. Il secondo, costruito per via epistolare, porta questi storici presupposti al loro compimento

Tommaso Pincio

Il passato è passato, su questo non ci piove. Tuttavia, ben lungi dall'essere tracciata una volta per sempre, la mappa di quel che è stato è in costante mutazione. Il passato si muove con la stessa impercettibile ma inesorabile deriva che allontana i continenti. Eventi che in un dato momento emergono imponenti al centro della Storia vengono poco a poco sospinti ai margini, lasciando spazio a nuovi accadimenti o magari a vecchi fatti inaspettatamente risorti dal dimenticatoio nel quale erano stati anzitempo relegati. La Rivoluzione Francese, per esempio. I nostri manuali la presentano come un faro, eppure la luminosa origine del mondo in cui oggi viviamo potrebbe essere a breve oscurata da un paio di sporche guerre combattute in terre lontane. Sì, perché il passato non si muove soltanto nel tempo ma anche nello spazio, ed è ormai pacifico che l'ago della bilancia smetterà di pendere a occidente. Il cuore del mondo globalizzato non batte in Europa e nemmeno in America. È in India e in Cina che bisogna cercarlo, paesi dove gli echi della Rivoluzione Francese non sono mai giunti. I fermenti che hanno innescato il radicale mutamento di prospettiva si chiamano Guerre dell'Oppio. A scatenarle fu la rottura di un pernicioso equilibrio: l'impero britannico pareggiava il suo deficit commerciale con la Cina rispondendo alle massicce importazioni di tè, seta e porcellana con l'esportazione di oppio coltivato in India. Quando i cinesi cominciarono a porre drastici freni all'insalubre traffico, peraltro già illegale da tempo, gli inglesi trovarono un pretesto qualunque per dichiarare guerra in nome del libero commercio. Che l'oppio fosse una droga, interessava poco.

Il primo atto di una trilogia
Il capitalismo, si sa, non va troppo per il sottile: la priorità è salvaguardare il mercato, il come costituisce un aspetto secondario, molto secondario. Mare di papaveri di Amitav Ghosh (Neri Pozza, traduzione magistrale di Anna Nadotti e Norman Gobetti, pp. 543 euro 18,50), primo atto di quella che si annuncia come una trilogia memorabile, ruota attorno alla tesi che alle sorgenti del XXI secolo e del comune destino che unisce Cina e India ci siano proprio le Guerre dell'Oppio, ma soprattutto le perverse dinamiche che le hanno determinate. Il romanzo fotografa i mesi immediatamente precedenti alle colonne d'Ercole della storia asiatica, e lo fa scegliendo quale teatro dell'azione un microcosmo in movimento, una splendida goletta a due alberi che nella primavera del 1838 si profila al largo dell'isola di Ganga-Sagar dove il Gange sfocia nel golfo del Bengala. La Ibis, questo il nome dell'imbarcazione, è lì per i campi di papaveri che si distendono per miglia e miglia oltre le sponde fangose dell'isola e i boschi di mangrovie dove persino le scimmie paiono inebetite da un «miasma letargico». La nave non caricherà a bordo soltanto l'oppio destinato alla Cina, accoglierà nel suo ventre di legno anche i colori e le espressioni di un'umanità oltremodo variegata. Un raja sull'orlo della bancarotta, la vedova di un oppiomane che lavorava in uno stabilimento per la lavorazione dei papaveri a Ghazipur, un mezzosangue americano, una ragazza francese la cui madre è spirata nel darla alla luce, un armatore inglese privo di scrupoli e poi ancora una moltitudine di altri personaggi, danzatrici hindu, lestofanti, poveri diavoli e una ciurma multietnica di lascari, marinai che parlano una lingua tutta loro e navigano per l'Oceano Indiano con indosso soltanto una striscia di cambrì attorno ai fianchi.
È un microcosmo in movimento o, per meglio dire, un microglobo. Arca dei tempi moderni, la Ibis traghetta un ricco campionario di umanità da un'epoca in cui l'Inghilterra era «il solo posto dove valesse la pena nascere» a un'altra dalla geografia incerta e in divenire. Il libro è diviso in tre parti denominate Terra, Fiume e Mare, quasi a rimarcare il progressivo spostamento verso un mondo sempre più fluido. Il destino di ogni personaggio affiora dalle profondità del passato grazie a coincidenze e sogni, ricordi e visioni, intrecciandosi a quello degli altri fino a confondersi in un'unica grande storia la cui trama è il comune cammino verso l'ignoto.
Alla maniera dei grandi romanzi storici dell'Ottocento, Mare di papaveri ha un che di enciclopedico, descrive usi e costumi, dai riti funebri alle pratiche medicinali, raccontando fatti di avventurosa e romantica natura, ammutinamenti, banchetti suntuosi, stupri e rapimenti. Ma soprattutto è uno stordente calderone linguistico, dove i termini marinari si alternano all'inglese coloniale, alle parole indiane e alla miriade di nuovi dialetti e slang fioriti nei porti asiatici. La Ibis, oltre a essere l'arca per un tempo a venire, è quindi una sorta nave di Babele. E anche qui Ghosh dà un'indicazione significativa chiudendo tra virgolette soltanto le battute di dialogo scambiate sulla goletta, lasciando nude e crude, invece, quelle pronunciate a terra, conferendo così all'intero romanzo l'aura di un racconto mitico, fondante. Il lettore occidentale, pur ammaliato dalla meravigliosa prosa dello scrittore nonché dal turbinio serrato degli eventi narrati, non potrà non constatare che in questa alba di un nuovo mondo i colonialisti inglesi sono spesso figure caricaturali e di secondo piano. Il fatto, poi, che Mare di papaveri sia un libro fedele ai canoni della tradizione romanzesca anglosassone e nel quale riecheggiano forti le pagine di Scott, Dickens, Conrad e naturalmente Kipling, colora questa constatazione di malinconia: il testimone è ormai passato, l'Occidente è definitivamente tramontato.
Ne è ulteriore riprova il fatto che i primordi tanto mirabilmente ricostruiti da Ghosh trovano il suo ideale e odierno compimento nel notevole esordio di Aravind Adiga, La tigre bianca (Einaudi, trad. Norman Gobetti, pp. 232, euro 19). Caso vuole che entrambi i romanzi siano stati finalisti dell'ultimo Booker Prize e che uno dei due, il secondo, abbia vinto. Ma il vero denominatore comune è l'asse India-Cina, che Adiga stabilisce per via epistolare. Il protagonista, la Tigre bianca del titolo ovvero un certo Balram Halwai, avendo saputo dalla radio che il primo ministro del «paese di mezzo» sta per giungere a Bangalore, pensa bene di scrivergli una lunga lettera per offrirgli la verità riguardo il luogo che si appresta a visitare. Gliela offre gratuitamente e spontaneamente in segno del suo rispetto «per l'amore della libertà mostrato dal popolo cinese, e anche della consapevolezza che il futuro del mondo è affidato ai gialli e ai marroni adesso che i nostri ex padroni, i bianchi, stanno precipitando nell'abisso della sodomia, della tossicodipendenza e dell'abuso di telefonia mobile». E quale potrebbe essere questa verità se non la storia della di lui vita? Il premier vuole recarsi a Bangalore perché è la culla del miracolo economico indiano, la culla che fa «andare avanti l'America» grazie alle società di outsourcing. In altre parole, il premier vuole carpire il segreto dell'imprenditoria indiana affinché in Cina si faccia altrettanto. Ebbene, quel segreto è per l'appunto lui, la Tigre bianca, un imprenditore autodidatta che, senza mezzi termini, si autodefinisce «il futuro».
Ma la verità che quest'uomo ha da offrire ha un suo lato oscuro. L'India è un paese a due facce: c'è quella luccicante dei centri commerciali, dei palazzi suntuosi e dalle auto tirate a lucido, e c'è poi l'altra, quella buia, il cuore nero dell'India rurale dove le buone notizie si tramutano in fretta in cattive notizie. Nei tempi andati c'erano mille caste, spiega Balram, oggi si sono ridotte a due: quella di chi la pancia piena e quella di chi ce l'ha vuota. Balram proviene per l'appunto dai bassifondi, è nato e cresciuto nelle tenebre, ma la storia della sua ascesa non è la bella favola di un uomo che, a prezzo di sacrifici e con un po' fortuna, si è fatto da sé.

Mangiare o essere mangiati
La verità che la Tigre bianca ha da offrire al premier cinese è molto meno edificante. Dopo poche pagine, infatti, rivela che il prezzo del successo si paga a suon di sangue versato e nefandezze. L'imprenditoria indiana si realizza con la corruzione, gli intrallazzi, i traffici sporchi, il furto e, talvolta, anche togliendo di mezzo qualcuno. La povertà genera mostri e lui è uno di questi: ha iniziato la scalata tagliando la gola al suo ex boss e mettendo in pratica quel ha appreso lavorando per lui. Al centro del romanzo emerge una brutale interpretazione della hegeliana dialettica servo-padrone: il servo uccide il padrone e ne acquisisce i privilegi. Ma non è il solo richiamo alla cultura occidentale. La tigre bianca può riportare alla mente un classico americano, Native Son di Richard Wright, che racconta la tragica parabola di un giovane afroamericano trasformato in assassino dall'abisso di privazione ed emarginazione in cui è costretto a vivere. Per altre vie discende anche da Dickens, che meglio di chiunque altro ha raccontato le ingiustizie di una società classista come quella dell'Inghilterra vittoriana. Agida è però consapevole che i problemi dell'India, come del resto della Cina, hanno una loro marcata specificità. Questi due colossi stanno per ereditare il mondo dall'Occidente ma la promessa della democrazia e di un riscatto fondato sulla dignità delle persone corre il serio rischio di restare disattesa. «Il giorno in cui gli inglesi se andarono» scrive la Tigre bianca al premier cinese, «le gabbie vennero aperte e gli animali presero ad aggredirsi e sbranarsi l'un l'altro, e la legge della giungla soppiantò la legge dello zoo». La giustizia della giungla si sa bene qual è: mangiare o essere mangiati. L'alba del nuovo millennio pare così metterci di fronte al seguente interrogativo: al tramonto dell'Occidente seguirà davvero la notte fonda dell'Oriente?

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