Due romanzi di autori indiani ruotano intorno allo stesso asse geografico: Mare di papaveri di Amitav Ghosh per Neri Pozza e La tigre bianca dell'esordiente Aravind Adiga per Einaudi. In uno stordente calderone linguistico, il primo rievoca il legame che le guerre dell'oppio hanno stabilito tra Cina e India. Il secondo, costruito per via epistolare, porta questi storici presupposti al loro compimento
Tommaso Pincio
Il passato è passato, su questo non ci piove. Tuttavia, ben lungi dall'essere tracciata una volta per sempre, la mappa di quel che è stato è in costante mutazione. Il passato si muove con la stessa impercettibile ma inesorabile deriva che allontana i continenti. Eventi che in un dato momento emergono imponenti al centro della Storia vengono poco a poco sospinti ai margini, lasciando spazio a nuovi accadimenti o magari a vecchi fatti inaspettatamente risorti dal dimenticatoio nel quale erano stati anzitempo relegati. La Rivoluzione Francese, per esempio. I nostri manuali la presentano come un faro, eppure la luminosa origine del mondo in cui oggi viviamo potrebbe essere a breve oscurata da un paio di sporche guerre combattute in terre lontane. Sì, perché il passato non si muove soltanto nel tempo ma anche nello spazio, ed è ormai pacifico che l'ago della bilancia smetterà di pendere a occidente. Il cuore del mondo globalizzato non batte in Europa e nemmeno in America. È in India e in Cina che bisogna cercarlo, paesi dove gli echi della Rivoluzione Francese non sono mai giunti. I fermenti che hanno innescato il radicale mutamento di prospettiva si chiamano Guerre dell'Oppio. A scatenarle fu la rottura di un pernicioso equilibrio: l'impero britannico pareggiava il suo deficit commerciale con la Cina rispondendo alle massicce importazioni di tè, seta e porcellana con l'esportazione di oppio coltivato in India. Quando i cinesi cominciarono a porre drastici freni all'insalubre traffico, peraltro già illegale da tempo, gli inglesi trovarono un pretesto qualunque per dichiarare guerra in nome del libero commercio. Che l'oppio fosse una droga, interessava poco.
Il primo atto di una trilogia
Il capitalismo, si sa, non va troppo per il sottile: la priorità è salvaguardare il mercato, il come costituisce un aspetto secondario, molto secondario. Mare di papaveri di Amitav Ghosh (Neri Pozza, traduzione magistrale di Anna Nadotti e Norman Gobetti, pp. 543 euro 18,50), primo atto di quella che si annuncia come una trilogia memorabile, ruota attorno alla tesi che alle sorgenti del XXI secolo e del comune destino che unisce Cina e India ci siano proprio le Guerre dell'Oppio, ma soprattutto le perverse dinamiche che le hanno determinate. Il romanzo fotografa i mesi immediatamente precedenti alle colonne d'Ercole della storia asiatica, e lo fa scegliendo quale teatro dell'azione un microcosmo in movimento, una splendida goletta a due alberi che nella primavera del 1838 si profila al largo dell'isola di Ganga-Sagar dove il Gange sfocia nel golfo del Bengala. La Ibis, questo il nome dell'imbarcazione, è lì per i campi di papaveri che si distendono per miglia e miglia oltre le sponde fangose dell'isola e i boschi di mangrovie dove persino le scimmie paiono inebetite da un «miasma letargico». La nave non caricherà a bordo soltanto l'oppio destinato alla Cina, accoglierà nel suo ventre di legno anche i colori e le espressioni di un'umanità oltremodo variegata. Un raja sull'orlo della bancarotta, la vedova di un oppiomane che lavorava in uno stabilimento per la lavorazione dei papaveri a Ghazipur, un mezzosangue americano, una ragazza francese la cui madre è spirata nel darla alla luce, un armatore inglese privo di scrupoli e poi ancora una moltitudine di altri personaggi, danzatrici hindu, lestofanti, poveri diavoli e una ciurma multietnica di lascari, marinai che parlano una lingua tutta loro e navigano per l'Oceano Indiano con indosso soltanto una striscia di cambrì attorno ai fianchi.
È un microcosmo in movimento o, per meglio dire, un microglobo. Arca dei tempi moderni, la Ibis traghetta un ricco campionario di umanità da un'epoca in cui l'Inghilterra era «il solo posto dove valesse la pena nascere» a un'altra dalla geografia incerta e in divenire. Il libro è diviso in tre parti denominate Terra, Fiume e Mare, quasi a rimarcare il progressivo spostamento verso un mondo sempre più fluido. Il destino di ogni personaggio affiora dalle profondità del passato grazie a coincidenze e sogni, ricordi e visioni, intrecciandosi a quello degli altri fino a confondersi in un'unica grande storia la cui trama è il comune cammino verso l'ignoto.
Alla maniera dei grandi romanzi storici dell'Ottocento, Mare di papaveri ha un che di enciclopedico, descrive usi e costumi, dai riti funebri alle pratiche medicinali, raccontando fatti di avventurosa e romantica natura, ammutinamenti, banchetti suntuosi, stupri e rapimenti. Ma soprattutto è uno stordente calderone linguistico, dove i termini marinari si alternano all'inglese coloniale, alle parole indiane e alla miriade di nuovi dialetti e slang fioriti nei porti asiatici. La Ibis, oltre a essere l'arca per un tempo a venire, è quindi una sorta nave di Babele. E anche qui Ghosh dà un'indicazione significativa chiudendo tra virgolette soltanto le battute di dialogo scambiate sulla goletta, lasciando nude e crude, invece, quelle pronunciate a terra, conferendo così all'intero romanzo l'aura di un racconto mitico, fondante. Il lettore occidentale, pur ammaliato dalla meravigliosa prosa dello scrittore nonché dal turbinio serrato degli eventi narrati, non potrà non constatare che in questa alba di un nuovo mondo i colonialisti inglesi sono spesso figure caricaturali e di secondo piano. Il fatto, poi, che Mare di papaveri sia un libro fedele ai canoni della tradizione romanzesca anglosassone e nel quale riecheggiano forti le pagine di Scott, Dickens, Conrad e naturalmente Kipling, colora questa constatazione di malinconia: il testimone è ormai passato, l'Occidente è definitivamente tramontato.
Ne è ulteriore riprova il fatto che i primordi tanto mirabilmente ricostruiti da Ghosh trovano il suo ideale e odierno compimento nel notevole esordio di Aravind Adiga, La tigre bianca (Einaudi, trad. Norman Gobetti, pp. 232, euro 19). Caso vuole che entrambi i romanzi siano stati finalisti dell'ultimo Booker Prize e che uno dei due, il secondo, abbia vinto. Ma il vero denominatore comune è l'asse India-Cina, che Adiga stabilisce per via epistolare. Il protagonista, la Tigre bianca del titolo ovvero un certo Balram Halwai, avendo saputo dalla radio che il primo ministro del «paese di mezzo» sta per giungere a Bangalore, pensa bene di scrivergli una lunga lettera per offrirgli la verità riguardo il luogo che si appresta a visitare. Gliela offre gratuitamente e spontaneamente in segno del suo rispetto «per l'amore della libertà mostrato dal popolo cinese, e anche della consapevolezza che il futuro del mondo è affidato ai gialli e ai marroni adesso che i nostri ex padroni, i bianchi, stanno precipitando nell'abisso della sodomia, della tossicodipendenza e dell'abuso di telefonia mobile». E quale potrebbe essere questa verità se non la storia della di lui vita? Il premier vuole recarsi a Bangalore perché è la culla del miracolo economico indiano, la culla che fa «andare avanti l'America» grazie alle società di outsourcing. In altre parole, il premier vuole carpire il segreto dell'imprenditoria indiana affinché in Cina si faccia altrettanto. Ebbene, quel segreto è per l'appunto lui, la Tigre bianca, un imprenditore autodidatta che, senza mezzi termini, si autodefinisce «il futuro».
Ma la verità che quest'uomo ha da offrire ha un suo lato oscuro. L'India è un paese a due facce: c'è quella luccicante dei centri commerciali, dei palazzi suntuosi e dalle auto tirate a lucido, e c'è poi l'altra, quella buia, il cuore nero dell'India rurale dove le buone notizie si tramutano in fretta in cattive notizie. Nei tempi andati c'erano mille caste, spiega Balram, oggi si sono ridotte a due: quella di chi la pancia piena e quella di chi ce l'ha vuota. Balram proviene per l'appunto dai bassifondi, è nato e cresciuto nelle tenebre, ma la storia della sua ascesa non è la bella favola di un uomo che, a prezzo di sacrifici e con un po' fortuna, si è fatto da sé.
Mangiare o essere mangiati
La verità che la Tigre bianca ha da offrire al premier cinese è molto meno edificante. Dopo poche pagine, infatti, rivela che il prezzo del successo si paga a suon di sangue versato e nefandezze. L'imprenditoria indiana si realizza con la corruzione, gli intrallazzi, i traffici sporchi, il furto e, talvolta, anche togliendo di mezzo qualcuno. La povertà genera mostri e lui è uno di questi: ha iniziato la scalata tagliando la gola al suo ex boss e mettendo in pratica quel ha appreso lavorando per lui. Al centro del romanzo emerge una brutale interpretazione della hegeliana dialettica servo-padrone: il servo uccide il padrone e ne acquisisce i privilegi. Ma non è il solo richiamo alla cultura occidentale. La tigre bianca può riportare alla mente un classico americano, Native Son di Richard Wright, che racconta la tragica parabola di un giovane afroamericano trasformato in assassino dall'abisso di privazione ed emarginazione in cui è costretto a vivere. Per altre vie discende anche da Dickens, che meglio di chiunque altro ha raccontato le ingiustizie di una società classista come quella dell'Inghilterra vittoriana. Agida è però consapevole che i problemi dell'India, come del resto della Cina, hanno una loro marcata specificità. Questi due colossi stanno per ereditare il mondo dall'Occidente ma la promessa della democrazia e di un riscatto fondato sulla dignità delle persone corre il serio rischio di restare disattesa. «Il giorno in cui gli inglesi se andarono» scrive la Tigre bianca al premier cinese, «le gabbie vennero aperte e gli animali presero ad aggredirsi e sbranarsi l'un l'altro, e la legge della giungla soppiantò la legge dello zoo». La giustizia della giungla si sa bene qual è: mangiare o essere mangiati. L'alba del nuovo millennio pare così metterci di fronte al seguente interrogativo: al tramonto dell'Occidente seguirà davvero la notte fonda dell'Oriente?
ilmanifesto.it
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