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16.2.16

Cinque chiarimenti doverosi

il manifesto. La nostra risposta alle critiche strumentali circolate in Rete in questi giorni. Abbiamo accertato che Giulio Regeni aveva proposto un solo articolo, con lo pseudonimo. Avevamo il dovere di pubblicarlo, dopo l’omicidio, per «smontare» verità di comodo

Tommaso Di Francesco (il manifesto)

È venuto il momento che il manifesto, dopo avere indagato anch’esso sulla tragica morte di Giulio Regeni e di fronte a tante, troppe illazioni, per rispetto di Giulio e della sua famiglia e per rispetto anche dei nostri lettori provi a chiarire equivoci, sbagli, ma anche a confermare convinzioni profonde su questo atroce delitto che non esitiamo a definire di Stato.

Perché intorno alle circostanze della morte dolorosa di Giulio Regeni, mentre emergono notizie e verità sconcertanti sulla sua uccisione, rischiano di piovere prese di posizione in aperta contraddizione.

Qualcuno ci accusa di non aver pubblicato subito l’articolo inviatoci co-firmato con uno pseudonimo; altri di essere stati «sciacalli» per averlo pubblicato dopo; qualcun altro di non avere chiarito se era o no un collaboratore; infine di non pagare i collaboratori.

1) Per prima cosa vogliamo subito dire che, dopo attenta valutazione, abbiamo finalmente accertato che Giulio Regeni aveva proposto al manifesto un solo articolo insieme a un altro collaboratore e con lo pseudonimo. Abbiamo equivocato che fossero suoi anche due contributi precedenti perché di eguale contenuto (i sindacati) e con pseudonimo. Cosa che sottolineava ai nostri occhi la cautela se non proprio la preoccupazione di Giulio Regeni.

Di questo equivoco ci scusiamo sia con i lettori che con la famiglia e con l’avvocata Alessandra Ballerini.

2) L’articolo al quale Regeni aveva collaborato era in attesa di pubblicazione, non era stato ancora pubblicato perché accade così nelle redazioni. Un contributo sul sindacato egiziano andava contestualizzato, soprattutto in vista dell’anniversario del 25 gennaio di Piazza Tahrir. Non riuscivamo a metterlo nel modo adeguato e allora Giulio e l’altro collaboratore lo proposero a Nena News dove è stato pubblicato.

Ma, ecco il punto, l’atteggiamento di Giulio che insieme a un altro collaboratore aveva proposto l’articolo non è di chi si mostra irritato per la non pubblicazione, ma positivo, anzi ancora motivato e propositivo. Ci scrivono infatti il 12 gennaio: «Un po’ a malincuore abbiamo deciso di proporre il pezzo ad altre testate online altrimenti invecchierebbe troppo. Restiamo comunque molto volentieri a disposizione per future collaborazioni dall’Egitto. Per noi è un piacere poter pubblicare sul manifesto. Grazie della vostra disponibilità, a presto».

3) Da questo punto di vista, chiariamo la questione del «collaboratore». Giulio Regeni era entrato in contatto con il manifesto, non era un collaboratore come tradizionalmente s’intende. Diverso è il caso di sfruttare il lavoro gratuito, come recita una delle accuse circolate in Rete. Su questo il manifesto può ricordare le tante pagine dedicate all’analisi di come il lavoro gratuito è usato contro gli altri lavoratori (ad esempio qui).

Ma ci sono tanti freelance che scrivono per il manifesto. Per noi sono compagni di viaggio. Li paghiamo poco e spesso in ritardo. Ma li paghiamo. Collaborare con noi vuol dire sensibilità comune sui contenuti, approfondimento di temi condivisi, e poi anche un articolo.

Non a caso Giulio Regeni era entrato in rapporti con noi — a questo teniamo in modo particolare -, visto il nostro lavoro d’indagine e denuncia sulle crisi del Medio Oriente e in particolare sull’Egitto.

Si dimentica infatti con grande facilità che siamo stati quasi l’unico giornale a denunciare da subito i crimini del golpe militare dell’estate 2013 del generale Al-Sisi raccontando quel massacro e tutte le malefatte sanguinose che ne sono seguite, da allora fino ad oggi. E la solitudine era terribile l’anno seguente quando denunciammo il presidente del consiglio Matteo Renzi che per primo sdoganava con una visita al Cairo il golpista proclamando che era «l’uomo nuovo emergente in Medio Oriente» e poi ricevendolo e incontrandolo anche a Roma.

4) Perché nelle ore difficili e concitate il giorno dopo l’annuncio del ritrovamento del suo corpo martoriato abbiamo allora deciso di pubblicare l’articolo che Giulio Regeni ci aveva proposto e che non eravamo riusciti a pubblicare?

Dovrebbe essere evidente, l’abbiamo già scritto ma vale la pena ripetere: esattamente perché la tragedia che si era appalesata diceva che quel testo non rappresentava più un semplice buon articolo ma era diventato un documento fondamentale, «il» documento, per capire perché davvero fosse stato sequestrato, torturato e ucciso così barbaramente.

Non ne avevamo diritto? No, avevamo il dovere di farlo.

Abbiamo rifiutato di stare zitti, un giornale non può farlo, tantomeno poteva farlo il manifesto. Solo a dieci giorni dalla scomparsa di Giulio Regeni e a due dalla sua morte comprovata, abbiamo deciso di pubblicare l’articolo-documento.

È elemento di verità inoltre ricordare che i timori e i guai che hanno riguardato l’ambiente degli amici di Giulio sono cominciati non con la pubblicazione dell’articolo, ma per l’assassinio di Giulio Regeni.

5) Un’ultima doverosa considerazione. Crediamo di non avere sbagliato a pubblicarlo perché così facendo difendevamo le ragioni di Giulio Regeni.

E poi, se non avessimo deciso di pubblicarlo non saremmo forse ancora alle prese con una verità comodissima, quella del crimine malavitoso o a sfondo sessuale?

E’ così evidente che le autorità del regime egiziano continuano a far finta di nulla, a trincerarsi dietro «le indagini» e intanto probabilmente preparano proprio quella verità di comodo che il nostro governo a parole dichiara di volere evitare.

Abbiamo pubblicato l’articolo di Giulio (tacendo naturalmente il nome dell’altro collaboratore) perché fossero chiari i motivi politici che avevano indotto a ucciderlo e confutare così il tentativo di attribuire la sua morte a un volgare crimine malavitoso o a sfondo sessuale, tutte piste vergognose su cui le autorità insistono, dando spazio all’oggettività di una indagine che ha invece profondi contenuti politici.

3.9.14

O l’Europa o la Nato

Tommaso Di Francesco (il Manifesto)

La mag­gio­ranza dei mem­bri della Com­mis­sione Ue non capi­sce nulla di que­stioni mon­diali. Vedi il ten­ta­tivo di far entrare nella Ue l’Ucraina. È mega­lo­ma­nia… hanno posto a Kiev la scelta o Ue o Est…ci vuole una rivolta del Par­la­mento euro­peo con­tro gli euro­crati di Bru­xel­les, così si rischia la terza guerra mon­diale»: (prima di quelle di Ber­go­glio) sono le parole allar­mate dell’ex can­cel­liere tede­sco Sch­midt in un’intervista alla Bild di tre mesi fa che non parla ancora di ingresso esplo­sivo di Kiev. Peri­colo sul quale, con ten­ta­tivo non riu­scito di influen­zare le scelte di Obama che invece rilan­cia il riarmo atlan­tico sulla base del pre­sunto sconfinamento-invasione russa dell’Ucraina, si sono pro­nun­ciati gli ex segre­tari di Stato Usa Kis­sin­ger e Brze­zin­ski e per­fino l’ex capo del Pen­ta­gono dell’amministrazione Obama, Robert Gates che nel suo libro di memo­rie ha scritto: «L’allargamento così rapido della Nato a est è un errore e serve solo ad umi­liare la Rus­sia, fino a pro­vo­care una guerra». Non è ser­vito a nulla a quanto pare.

Lamen­tano i governi euro­pei che è in gioco l’unità ter­ri­to­riale dell’Ucraina e Fede­rica Moghe­rini, Mrs Pesc in pec­tore davanti al Par­la­mento euro­peo, per farsi per­do­nare di essere con­si­de­rata filo­russa dati gli inte­ressi dell’Eni, ha la fac­cia tosta di accu­sare: «È colpa di Putin». Se gli stava vera­mente a cuore l’unità ter­ri­to­riale dell’Ucraina, per­ché i governi euro­pei insieme alla Nato e agli Usa con tanto di capo della Cia John Bren­nan, sena­tori repub­bli­cani gui­dati da McCain e segre­ta­rio di stato Kerry tutti su quella piazza, hanno ali­men­tato e soste­nuto dalla fine del 2013 fino al mag­gio 2014 la rivolta, spesso vio­lenta e di estrema destra, di Piazza Maj­dan che ha rimesso di fatto in discus­sione l’unità ter­ri­to­riale del Paese. Men­tre l’ambasciatrice Usa man­dava affan… l’Europa. Era colpa di Putin anche la rivolta di piazza Maj­dan? Magari per­ché aveva soc­corso, pronta cassa, le richie­ste di Kiev quando l’Ue se ne lavava le mani in preda alla sua crisi?

E come dimen­ti­care che quella rivolta è stata nazio­na­li­sta ucraina e anti­russa, non solo anti-Putin, ma con­tra­ria ai diritti delle popo­la­zioni dell’est che ave­vano soste­nuto ed eletto Yanu­ko­vitch — certo cor­rotto, ma non meno dell’attuale Poro­shenko e del pre­mier dimis­sio­na­rio Yatse­nyuk. La rivolta di Maj­dan è stata nazio­na­li­sta anti­russa, con­tro gli inte­ressi poli­tici e sociali delle popo­la­zioni dell’est, di lin­gua russa all’80%, quando non pro­prio russe e comun­que filo­russe, legate alla Rus­sia per appar­te­nenze sto­ri­che, reli­giose e cul­tu­rali e per legame eco­no­mico impre­scin­di­bile e com­ple­men­tare alla pro­pria soprav­vi­venza, tutt’altro che garan­tita dall’associazione delle regioni dell’ovest all’Ue.

È lì, in quel soste­gno stru­men­tale e ideo­lo­gico, come se fosse un nuovo ’89, dato dall’Occidente euro­peo ed ame­ri­cano che si è con­su­mata l’unità dell’Ucraina che a quel punto si è asso­ciata all’Ue solo a metà.
Ora accade che il governo di Kiev dimis­sio­nato pochi giorni fa dal pre­si­dente Poro­shenko annunci, di fronte alla pre­sunta inva­sione — è il quarto allarme in due mesi — la richie­sta di ade­sione all’Alleanza atlan­tica. «Il governo ha sot­to­po­sto al par­la­mento un pro­getto di legge per annul­lare lo sta­tus fuori dei bloc­chi dell’Ucraina e tor­nare sulla via dell’adesione alla Nato» ha dichia­rato quasi in fuga il pre­mier uscente, già lea­der di Maj­dan, Yatse­niuk. E subito il segre­ta­rio della Nato Ander Fogh Rasmus­sen, ha ammic­cato: «Ogni paese ha diritto di sce­gliere da sé le pro­prie alleanze». Tanto più che la deci­sione sem­bra andare incon­tro alle ultime parole di Obama che, ormai inca­pace di uscire dal «mili­ta­ri­smo uma­ni­ta­rio» degli Stati uniti, scio­rina per fer­mare l’orso russo (quel Putin che gli ha impe­dito di impe­la­garsi ancora di più nella guerra in Siria) la «nuova» agenda del riarmo ame­ri­cano e Nato nell’Europa dell’est, dalla Polo­nia, ai Paesi bal­tici — andrà in Esto­nia per que­sto domani — e alle finora neu­trali Fin­lan­dia e Svezia.

Altro che nuova agenda: è la scel­le­rata stra­te­gia della Nato in atto da più di venti anni a par­tire dalle guerre nei Bal­cani, con rela­tiva redi­stri­bu­zione di costi per la difesa sullo scac­chiere euro­peo, tra gli stessi paesi ora alle prese con la lace­rante crisi eco­no­mica. Una stra­te­gia che in que­sti venti anni ha visto l’ingresso di tutti i paesi dell’ex Patto di Var­sa­via nella Nato, con mis­sioni in guerre alleate, a par­tire dall’ex Jugo­sla­via (dove, a spec­chio capo­volto della sto­ria, i raid Nato hanno aiu­tato i ribelli dell’Uck — cri­mi­nali, dice ora l’indagine della stessa com­mis­sione Ue Eulex — ad otte­nere l’indipendenza) e ancora tante basi, strut­ture d’intelligence, siti mis­si­li­stici, ogive nucleari, scudi spa­ziali tutti quanti ai con­fini russi.

Senza l’allargamento a est della Nato non ci tro­ve­remmo sull’orlo di un con­flitto spa­ven­toso in Ucraina, né ci sarebbe stata la sce­neg­giata arro­gante di una lea­der­ship di oli­gar­chi vol­ta­gab­bana che ha desta­bi­liz­zato l’Ucraina con la vio­lenza della piazza «buona» per­ché sedi­cente filoeu­ro­pea, e che ora cavalca la repres­sione san­gui­nosa della piazza «cat­tiva» per­ché filo­russa. Senza la Nato esi­ste­reb­bero una poli­tica estera e di difesa dell’Ue. Intanto in que­ste ore nell’est ucraino si com­batte, Kiev è all’offensiva. Secondo l’Onu i morti, tanti i civili, in quat­tro mesi sono più di 2.600.

Se dal ver­tice Nato che si apre domani a Car­diff, in Gal­les, arri­vasse un sì alla richie­sta incen­dia­ria di Kiev e se si avvia, come accade, lo schie­ra­mento di forze mili­tari Nato in dichia­rate eser­ci­ta­zioni anti-Russia o ai con­fini russi, come ha chie­sto l’irresponsabile Came­ron, è l’inizio della fine. Cioè la sepa­ra­zione delle regioni dell’est con l’intervento, sta­volta vero, della Rus­sia nella guerra, a quel punto moti­vata a difen­dere dalle truppe occi­den­tali le popo­la­zioni russo-ucraine, lo sta­tus pro­cla­mato dagli insorti filo-russi ma anche lo stesso ter­ri­to­rio russo. Quando invece è chiaro che l’Ucraina resterà unita fin­ché non appar­terrà ad alcun blocco mili­tare e se ci sarà un tavolo nego­ziale per una fede­ra­liz­za­zione del paese capace di garan­tire l’autonomia sostan­ziale dell’est. È quello che chiede anche Putin quando dichiara: «Devono essere imme­dia­ta­mente avviati nego­ziati sostan­ziali non su que­stioni tec­ni­che, ma sull’organizzazione poli­tica della società e sul sistema sta­tale nel sud-est dell’Ucraina allo scopo di garan­tire incon­di­zio­na­ta­mente gli inte­ressi delle per­sone che vivono lì», ma le sue parole sono tra­dotte in modo pro­pa­gan­di­stico dai media veli­nari: «Voglio uno Stato nell’est».

È la stessa richie­sta che for­mula, ina­scol­tato, sul Cor­riere della Sera, Ser­gio Romano, tra i pochi ad inten­dersi di Rus­sia. Fede­rale e neu­trale sono le due parole chiave garan­zia di pace anche per l’Ue, e certo non aiuta l’elezione a pre­si­dente dell’Unione del polacco Tusk, lea­der della Polo­nia che vanta un con­ten­zioso sto­rico su una parte della terra ucraina con­si­de­rata ancora «polacca».

Altri­menti sarà, e non a pez­zetti, la terza guerra mon­diale in piena Europa. E siamo a cento anni fa. È il nuovo che avanza, la «nuova gene­ra­zione» alla guida euro­pea tanto cara a Renzi. Ora la Mrs Pesc Moghe­rini, anche se è stata com­mis­sa­riata da un vice-Pesc tede­sco, ha l’occasione di dimo­strarsi per una volta euro­pea e non schiac­ciata sull’Alleanza atlan­tica e sugli Stati uniti. Qual­cosa ci dice che non saremo ascoltati.