il manifesto. La nostra risposta alle critiche strumentali circolate in Rete in questi giorni. Abbiamo accertato che Giulio Regeni aveva proposto un solo articolo, con lo pseudonimo. Avevamo il dovere di pubblicarlo, dopo l’omicidio, per «smontare» verità di comodo
Tommaso Di Francesco (il manifesto)
È venuto il momento che il manifesto, dopo avere indagato anch’esso sulla tragica morte di Giulio Regeni e di fronte a tante, troppe illazioni, per rispetto di Giulio e della sua famiglia e per rispetto anche dei nostri lettori provi a chiarire equivoci, sbagli, ma anche a confermare convinzioni profonde su questo atroce delitto che non esitiamo a definire di Stato.
Perché intorno alle circostanze della morte dolorosa di Giulio Regeni, mentre emergono notizie e verità sconcertanti sulla sua uccisione, rischiano di piovere prese di posizione in aperta contraddizione.
Qualcuno ci accusa di non aver pubblicato subito l’articolo inviatoci co-firmato con uno pseudonimo; altri di essere stati «sciacalli» per averlo pubblicato dopo; qualcun altro di non avere chiarito se era o no un collaboratore; infine di non pagare i collaboratori.
1) Per prima cosa vogliamo subito dire che, dopo attenta valutazione, abbiamo finalmente accertato che Giulio Regeni aveva proposto al manifesto un solo articolo insieme a un altro collaboratore e con lo pseudonimo. Abbiamo equivocato che fossero suoi anche due contributi precedenti perché di eguale contenuto (i sindacati) e con pseudonimo. Cosa che sottolineava ai nostri occhi la cautela se non proprio la preoccupazione di Giulio Regeni.
Di questo equivoco ci scusiamo sia con i lettori che con la famiglia e con l’avvocata Alessandra Ballerini.
2) L’articolo al quale Regeni aveva collaborato era in attesa di pubblicazione, non era stato ancora pubblicato perché accade così nelle redazioni. Un contributo sul sindacato egiziano andava contestualizzato, soprattutto in vista dell’anniversario del 25 gennaio di Piazza Tahrir. Non riuscivamo a metterlo nel modo adeguato e allora Giulio e l’altro collaboratore lo proposero a Nena News dove è stato pubblicato.
Ma, ecco il punto, l’atteggiamento di Giulio che insieme a un altro collaboratore aveva proposto l’articolo non è di chi si mostra irritato per la non pubblicazione, ma positivo, anzi ancora motivato e propositivo. Ci scrivono infatti il 12 gennaio: «Un po’ a malincuore abbiamo deciso di proporre il pezzo ad altre testate online altrimenti invecchierebbe troppo. Restiamo comunque molto volentieri a disposizione per future collaborazioni dall’Egitto. Per noi è un piacere poter pubblicare sul manifesto. Grazie della vostra disponibilità, a presto».
3) Da questo punto di vista, chiariamo la questione del «collaboratore». Giulio Regeni era entrato in contatto con il manifesto, non era un collaboratore come tradizionalmente s’intende. Diverso è il caso di sfruttare il lavoro gratuito, come recita una delle accuse circolate in Rete. Su questo il manifesto può ricordare le tante pagine dedicate all’analisi di come il lavoro gratuito è usato contro gli altri lavoratori (ad esempio qui).
Ma ci sono tanti freelance che scrivono per il manifesto. Per noi sono compagni di viaggio. Li paghiamo poco e spesso in ritardo. Ma li paghiamo. Collaborare con noi vuol dire sensibilità comune sui contenuti, approfondimento di temi condivisi, e poi anche un articolo.
Non a caso Giulio Regeni era entrato in rapporti con noi — a questo teniamo in modo particolare -, visto il nostro lavoro d’indagine e denuncia sulle crisi del Medio Oriente e in particolare sull’Egitto.
Si dimentica infatti con grande facilità che siamo stati quasi l’unico giornale a denunciare da subito i crimini del golpe militare dell’estate 2013 del generale Al-Sisi raccontando quel massacro e tutte le malefatte sanguinose che ne sono seguite, da allora fino ad oggi. E la solitudine era terribile l’anno seguente quando denunciammo il presidente del consiglio Matteo Renzi che per primo sdoganava con una visita al Cairo il golpista proclamando che era «l’uomo nuovo emergente in Medio Oriente» e poi ricevendolo e incontrandolo anche a Roma.
4) Perché nelle ore difficili e concitate il giorno dopo l’annuncio del ritrovamento del suo corpo martoriato abbiamo allora deciso di pubblicare l’articolo che Giulio Regeni ci aveva proposto e che non eravamo riusciti a pubblicare?
Dovrebbe essere evidente, l’abbiamo già scritto ma vale la pena ripetere: esattamente perché la tragedia che si era appalesata diceva che quel testo non rappresentava più un semplice buon articolo ma era diventato un documento fondamentale, «il» documento, per capire perché davvero fosse stato sequestrato, torturato e ucciso così barbaramente.
Non ne avevamo diritto? No, avevamo il dovere di farlo.
Abbiamo rifiutato di stare zitti, un giornale non può farlo, tantomeno poteva farlo il manifesto. Solo a dieci giorni dalla scomparsa di Giulio Regeni e a due dalla sua morte comprovata, abbiamo deciso di pubblicare l’articolo-documento.
È elemento di verità inoltre ricordare che i timori e i guai che hanno riguardato l’ambiente degli amici di Giulio sono cominciati non con la pubblicazione dell’articolo, ma per l’assassinio di Giulio Regeni.
5) Un’ultima doverosa considerazione. Crediamo di non avere sbagliato a pubblicarlo perché così facendo difendevamo le ragioni di Giulio Regeni.
E poi, se non avessimo deciso di pubblicarlo non saremmo forse ancora alle prese con una verità comodissima, quella del crimine malavitoso o a sfondo sessuale?
E’ così evidente che le autorità del regime egiziano continuano a far finta di nulla, a trincerarsi dietro «le indagini» e intanto probabilmente preparano proprio quella verità di comodo che il nostro governo a parole dichiara di volere evitare.
Abbiamo pubblicato l’articolo di Giulio (tacendo naturalmente il nome dell’altro collaboratore) perché fossero chiari i motivi politici che avevano indotto a ucciderlo e confutare così il tentativo di attribuire la sua morte a un volgare crimine malavitoso o a sfondo sessuale, tutte piste vergognose su cui le autorità insistono, dando spazio all’oggettività di una indagine che ha invece profondi contenuti politici.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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16.2.16
Cinque chiarimenti doverosi
3.9.14
O l’Europa o la Nato
Tommaso Di Francesco (il Manifesto)
La maggioranza dei membri della Commissione Ue non capisce nulla di questioni mondiali. Vedi il tentativo di far entrare nella Ue l’Ucraina. È megalomania… hanno posto a Kiev la scelta o Ue o Est…ci vuole una rivolta del Parlamento europeo contro gli eurocrati di Bruxelles, così si rischia la terza guerra mondiale»: (prima di quelle di Bergoglio) sono le parole allarmate dell’ex cancelliere tedesco Schmidt in un’intervista alla Bild di tre mesi fa che non parla ancora di ingresso esplosivo di Kiev. Pericolo sul quale, con tentativo non riuscito di influenzare le scelte di Obama che invece rilancia il riarmo atlantico sulla base del presunto sconfinamento-invasione russa dell’Ucraina, si sono pronunciati gli ex segretari di Stato Usa Kissinger e Brzezinski e perfino l’ex capo del Pentagono dell’amministrazione Obama, Robert Gates che nel suo libro di memorie ha scritto: «L’allargamento così rapido della Nato a est è un errore e serve solo ad umiliare la Russia, fino a provocare una guerra». Non è servito a nulla a quanto pare.
Lamentano i governi europei che è in gioco l’unità territoriale dell’Ucraina e Federica Mogherini, Mrs Pesc in pectore davanti al Parlamento europeo, per farsi perdonare di essere considerata filorussa dati gli interessi dell’Eni, ha la faccia tosta di accusare: «È colpa di Putin». Se gli stava veramente a cuore l’unità territoriale dell’Ucraina, perché i governi europei insieme alla Nato e agli Usa con tanto di capo della Cia John Brennan, senatori repubblicani guidati da McCain e segretario di stato Kerry tutti su quella piazza, hanno alimentato e sostenuto dalla fine del 2013 fino al maggio 2014 la rivolta, spesso violenta e di estrema destra, di Piazza Majdan che ha rimesso di fatto in discussione l’unità territoriale del Paese. Mentre l’ambasciatrice Usa mandava affan… l’Europa. Era colpa di Putin anche la rivolta di piazza Majdan? Magari perché aveva soccorso, pronta cassa, le richieste di Kiev quando l’Ue se ne lavava le mani in preda alla sua crisi?
E come dimenticare che quella rivolta è stata nazionalista ucraina e antirussa, non solo anti-Putin, ma contraria ai diritti delle popolazioni dell’est che avevano sostenuto ed eletto Yanukovitch — certo corrotto, ma non meno dell’attuale Poroshenko e del premier dimissionario Yatsenyuk. La rivolta di Majdan è stata nazionalista antirussa, contro gli interessi politici e sociali delle popolazioni dell’est, di lingua russa all’80%, quando non proprio russe e comunque filorusse, legate alla Russia per appartenenze storiche, religiose e culturali e per legame economico imprescindibile e complementare alla propria sopravvivenza, tutt’altro che garantita dall’associazione delle regioni dell’ovest all’Ue.
È lì, in quel sostegno strumentale e ideologico, come se fosse un nuovo ’89, dato dall’Occidente europeo ed americano che si è consumata l’unità dell’Ucraina che a quel punto si è associata all’Ue solo a metà.
Ora accade che il governo di Kiev dimissionato pochi giorni fa dal presidente Poroshenko annunci, di fronte alla presunta invasione — è il quarto allarme in due mesi — la richiesta di adesione all’Alleanza atlantica. «Il governo ha sottoposto al parlamento un progetto di legge per annullare lo status fuori dei blocchi dell’Ucraina e tornare sulla via dell’adesione alla Nato» ha dichiarato quasi in fuga il premier uscente, già leader di Majdan, Yatseniuk. E subito il segretario della Nato Ander Fogh Rasmussen, ha ammiccato: «Ogni paese ha diritto di scegliere da sé le proprie alleanze». Tanto più che la decisione sembra andare incontro alle ultime parole di Obama che, ormai incapace di uscire dal «militarismo umanitario» degli Stati uniti, sciorina per fermare l’orso russo (quel Putin che gli ha impedito di impelagarsi ancora di più nella guerra in Siria) la «nuova» agenda del riarmo americano e Nato nell’Europa dell’est, dalla Polonia, ai Paesi baltici — andrà in Estonia per questo domani — e alle finora neutrali Finlandia e Svezia.
Altro che nuova agenda: è la scellerata strategia della Nato in atto da più di venti anni a partire dalle guerre nei Balcani, con relativa redistribuzione di costi per la difesa sullo scacchiere europeo, tra gli stessi paesi ora alle prese con la lacerante crisi economica. Una strategia che in questi venti anni ha visto l’ingresso di tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia nella Nato, con missioni in guerre alleate, a partire dall’ex Jugoslavia (dove, a specchio capovolto della storia, i raid Nato hanno aiutato i ribelli dell’Uck — criminali, dice ora l’indagine della stessa commissione Ue Eulex — ad ottenere l’indipendenza) e ancora tante basi, strutture d’intelligence, siti missilistici, ogive nucleari, scudi spaziali tutti quanti ai confini russi.
Senza l’allargamento a est della Nato non ci troveremmo sull’orlo di un conflitto spaventoso in Ucraina, né ci sarebbe stata la sceneggiata arrogante di una leadership di oligarchi voltagabbana che ha destabilizzato l’Ucraina con la violenza della piazza «buona» perché sedicente filoeuropea, e che ora cavalca la repressione sanguinosa della piazza «cattiva» perché filorussa. Senza la Nato esisterebbero una politica estera e di difesa dell’Ue. Intanto in queste ore nell’est ucraino si combatte, Kiev è all’offensiva. Secondo l’Onu i morti, tanti i civili, in quattro mesi sono più di 2.600.
Se dal vertice Nato che si apre domani a Cardiff, in Galles, arrivasse un sì alla richiesta incendiaria di Kiev e se si avvia, come accade, lo schieramento di forze militari Nato in dichiarate esercitazioni anti-Russia o ai confini russi, come ha chiesto l’irresponsabile Cameron, è l’inizio della fine. Cioè la separazione delle regioni dell’est con l’intervento, stavolta vero, della Russia nella guerra, a quel punto motivata a difendere dalle truppe occidentali le popolazioni russo-ucraine, lo status proclamato dagli insorti filo-russi ma anche lo stesso territorio russo. Quando invece è chiaro che l’Ucraina resterà unita finché non apparterrà ad alcun blocco militare e se ci sarà un tavolo negoziale per una federalizzazione del paese capace di garantire l’autonomia sostanziale dell’est. È quello che chiede anche Putin quando dichiara: «Devono essere immediatamente avviati negoziati sostanziali non su questioni tecniche, ma sull’organizzazione politica della società e sul sistema statale nel sud-est dell’Ucraina allo scopo di garantire incondizionatamente gli interessi delle persone che vivono lì», ma le sue parole sono tradotte in modo propagandistico dai media velinari: «Voglio uno Stato nell’est».
È la stessa richiesta che formula, inascoltato, sul Corriere della Sera, Sergio Romano, tra i pochi ad intendersi di Russia. Federale e neutrale sono le due parole chiave garanzia di pace anche per l’Ue, e certo non aiuta l’elezione a presidente dell’Unione del polacco Tusk, leader della Polonia che vanta un contenzioso storico su una parte della terra ucraina considerata ancora «polacca».
Altrimenti sarà, e non a pezzetti, la terza guerra mondiale in piena Europa. E siamo a cento anni fa. È il nuovo che avanza, la «nuova generazione» alla guida europea tanto cara a Renzi. Ora la Mrs Pesc Mogherini, anche se è stata commissariata da un vice-Pesc tedesco, ha l’occasione di dimostrarsi per una volta europea e non schiacciata sull’Alleanza atlantica e sugli Stati uniti. Qualcosa ci dice che non saremo ascoltati.
La maggioranza dei membri della Commissione Ue non capisce nulla di questioni mondiali. Vedi il tentativo di far entrare nella Ue l’Ucraina. È megalomania… hanno posto a Kiev la scelta o Ue o Est…ci vuole una rivolta del Parlamento europeo contro gli eurocrati di Bruxelles, così si rischia la terza guerra mondiale»: (prima di quelle di Bergoglio) sono le parole allarmate dell’ex cancelliere tedesco Schmidt in un’intervista alla Bild di tre mesi fa che non parla ancora di ingresso esplosivo di Kiev. Pericolo sul quale, con tentativo non riuscito di influenzare le scelte di Obama che invece rilancia il riarmo atlantico sulla base del presunto sconfinamento-invasione russa dell’Ucraina, si sono pronunciati gli ex segretari di Stato Usa Kissinger e Brzezinski e perfino l’ex capo del Pentagono dell’amministrazione Obama, Robert Gates che nel suo libro di memorie ha scritto: «L’allargamento così rapido della Nato a est è un errore e serve solo ad umiliare la Russia, fino a provocare una guerra». Non è servito a nulla a quanto pare.
Lamentano i governi europei che è in gioco l’unità territoriale dell’Ucraina e Federica Mogherini, Mrs Pesc in pectore davanti al Parlamento europeo, per farsi perdonare di essere considerata filorussa dati gli interessi dell’Eni, ha la faccia tosta di accusare: «È colpa di Putin». Se gli stava veramente a cuore l’unità territoriale dell’Ucraina, perché i governi europei insieme alla Nato e agli Usa con tanto di capo della Cia John Brennan, senatori repubblicani guidati da McCain e segretario di stato Kerry tutti su quella piazza, hanno alimentato e sostenuto dalla fine del 2013 fino al maggio 2014 la rivolta, spesso violenta e di estrema destra, di Piazza Majdan che ha rimesso di fatto in discussione l’unità territoriale del Paese. Mentre l’ambasciatrice Usa mandava affan… l’Europa. Era colpa di Putin anche la rivolta di piazza Majdan? Magari perché aveva soccorso, pronta cassa, le richieste di Kiev quando l’Ue se ne lavava le mani in preda alla sua crisi?
E come dimenticare che quella rivolta è stata nazionalista ucraina e antirussa, non solo anti-Putin, ma contraria ai diritti delle popolazioni dell’est che avevano sostenuto ed eletto Yanukovitch — certo corrotto, ma non meno dell’attuale Poroshenko e del premier dimissionario Yatsenyuk. La rivolta di Majdan è stata nazionalista antirussa, contro gli interessi politici e sociali delle popolazioni dell’est, di lingua russa all’80%, quando non proprio russe e comunque filorusse, legate alla Russia per appartenenze storiche, religiose e culturali e per legame economico imprescindibile e complementare alla propria sopravvivenza, tutt’altro che garantita dall’associazione delle regioni dell’ovest all’Ue.
È lì, in quel sostegno strumentale e ideologico, come se fosse un nuovo ’89, dato dall’Occidente europeo ed americano che si è consumata l’unità dell’Ucraina che a quel punto si è associata all’Ue solo a metà.
Ora accade che il governo di Kiev dimissionato pochi giorni fa dal presidente Poroshenko annunci, di fronte alla presunta invasione — è il quarto allarme in due mesi — la richiesta di adesione all’Alleanza atlantica. «Il governo ha sottoposto al parlamento un progetto di legge per annullare lo status fuori dei blocchi dell’Ucraina e tornare sulla via dell’adesione alla Nato» ha dichiarato quasi in fuga il premier uscente, già leader di Majdan, Yatseniuk. E subito il segretario della Nato Ander Fogh Rasmussen, ha ammiccato: «Ogni paese ha diritto di scegliere da sé le proprie alleanze». Tanto più che la decisione sembra andare incontro alle ultime parole di Obama che, ormai incapace di uscire dal «militarismo umanitario» degli Stati uniti, sciorina per fermare l’orso russo (quel Putin che gli ha impedito di impelagarsi ancora di più nella guerra in Siria) la «nuova» agenda del riarmo americano e Nato nell’Europa dell’est, dalla Polonia, ai Paesi baltici — andrà in Estonia per questo domani — e alle finora neutrali Finlandia e Svezia.
Altro che nuova agenda: è la scellerata strategia della Nato in atto da più di venti anni a partire dalle guerre nei Balcani, con relativa redistribuzione di costi per la difesa sullo scacchiere europeo, tra gli stessi paesi ora alle prese con la lacerante crisi economica. Una strategia che in questi venti anni ha visto l’ingresso di tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia nella Nato, con missioni in guerre alleate, a partire dall’ex Jugoslavia (dove, a specchio capovolto della storia, i raid Nato hanno aiutato i ribelli dell’Uck — criminali, dice ora l’indagine della stessa commissione Ue Eulex — ad ottenere l’indipendenza) e ancora tante basi, strutture d’intelligence, siti missilistici, ogive nucleari, scudi spaziali tutti quanti ai confini russi.
Senza l’allargamento a est della Nato non ci troveremmo sull’orlo di un conflitto spaventoso in Ucraina, né ci sarebbe stata la sceneggiata arrogante di una leadership di oligarchi voltagabbana che ha destabilizzato l’Ucraina con la violenza della piazza «buona» perché sedicente filoeuropea, e che ora cavalca la repressione sanguinosa della piazza «cattiva» perché filorussa. Senza la Nato esisterebbero una politica estera e di difesa dell’Ue. Intanto in queste ore nell’est ucraino si combatte, Kiev è all’offensiva. Secondo l’Onu i morti, tanti i civili, in quattro mesi sono più di 2.600.
Se dal vertice Nato che si apre domani a Cardiff, in Galles, arrivasse un sì alla richiesta incendiaria di Kiev e se si avvia, come accade, lo schieramento di forze militari Nato in dichiarate esercitazioni anti-Russia o ai confini russi, come ha chiesto l’irresponsabile Cameron, è l’inizio della fine. Cioè la separazione delle regioni dell’est con l’intervento, stavolta vero, della Russia nella guerra, a quel punto motivata a difendere dalle truppe occidentali le popolazioni russo-ucraine, lo status proclamato dagli insorti filo-russi ma anche lo stesso territorio russo. Quando invece è chiaro che l’Ucraina resterà unita finché non apparterrà ad alcun blocco militare e se ci sarà un tavolo negoziale per una federalizzazione del paese capace di garantire l’autonomia sostanziale dell’est. È quello che chiede anche Putin quando dichiara: «Devono essere immediatamente avviati negoziati sostanziali non su questioni tecniche, ma sull’organizzazione politica della società e sul sistema statale nel sud-est dell’Ucraina allo scopo di garantire incondizionatamente gli interessi delle persone che vivono lì», ma le sue parole sono tradotte in modo propagandistico dai media velinari: «Voglio uno Stato nell’est».
È la stessa richiesta che formula, inascoltato, sul Corriere della Sera, Sergio Romano, tra i pochi ad intendersi di Russia. Federale e neutrale sono le due parole chiave garanzia di pace anche per l’Ue, e certo non aiuta l’elezione a presidente dell’Unione del polacco Tusk, leader della Polonia che vanta un contenzioso storico su una parte della terra ucraina considerata ancora «polacca».
Altrimenti sarà, e non a pezzetti, la terza guerra mondiale in piena Europa. E siamo a cento anni fa. È il nuovo che avanza, la «nuova generazione» alla guida europea tanto cara a Renzi. Ora la Mrs Pesc Mogherini, anche se è stata commissariata da un vice-Pesc tedesco, ha l’occasione di dimostrarsi per una volta europea e non schiacciata sull’Alleanza atlantica e sugli Stati uniti. Qualcosa ci dice che non saremo ascoltati.
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