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22.2.22

Che cos’è e perché è pericoloso l’allargamento a Est della Nato

Manlio Dinucci, 22.02.2022 (il manifesto)

Crisi Ucraina. Stoltenberg: «Bene, più di 270 miliardi di dollari di spese militari degli alleati europei dal 2014». Al via negli Usa la la produzione delle nuove atomiche B61-12: andranno in Europa e in Italia

ESSA INIZIA NELLO STESSO anno, il 1999, in cui la Nato demolisce con la guerra la Jugoslavia e, al vertice di Washington, annuncia di voler «condurre operazioni di risposta alle crisi, non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza». Dimenticando di essersi impegnata con la Russia a «non allargarsi neppure di un pollice a Est», la Nato inizia la sua espansione ad Est. Ingloba i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004, si estende ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Federazione Jugoslava). Nel 2009, la Nato ingloba l’Albania (un tempo membro del Patto di Varsavia) e la Croazia (già parte della Federazione Jugoslava); nel 2017, il Montenegro (già parte della Jugoslavia); nel 2020 la Macedonia del Nord (già parte della Jugoslavia) In vent’anni, la Nato si estende da 16 a 30 paesi. In tal modo Washington ottiene un triplice risultato. Estende a ridosso della Russia, fin dentro il territorio dell’ex Urss, l’Alleanza militare di cui mantiene le leve di comando: il Comandante Supremo Alleato in Europa è, «per tradizione», sempre un generale Usa nominato dal presidente degli Stati Uniti e appartengono agli Usa anche gli altri comandi chiave.

ALLO STESSO TEMPO, Washington lega i paesi dell’Est non tanto all’Alleanza, quanto direttamente agli Usa. Romania e Bulgaria, appena entrate, mettono subito a disposizione degli Stati Uniti le importanti basi militari di Costanza e Burgas sul Mar Nero. Il terzo risultato ottenuto da Washington con l’allargamento della Nato a Est è il rafforzamento della propria influenza in Europa. Sui dieci paesi dell’Europa centro-orientale che entrano nella Nato tra il 1999 e il 2004, sette entrano nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2007: alla Ue che si allarga a Est, gli Stati Uniti sovrappongono la Nato che si allarga a Est sull’Europa. Oggi 21 dei 27 paesi dell’Unione Europea appartengono alla Nato sotto comando Usa. Il Consiglio Nord Atlantico, l’organo politico dell’Alleanza, secondo le norme Nato decide non a maggioranza ma sempre «all’unanimità e di comune accordo», ossia d’accordo con quanto deciso a Washington.

LA PARTECIPAZIONE delle maggiori potenze europee a tali decisioni (esclusa l’Italia che finora ubbidisce in genere tacendo) avviene in genere attraverso trattative segrete con Washington sul dare e avere. Ciò comporta un ulteriore indebolimento dei parlamenti europei, in particolare di quello italiano, già oggi privati di reali poteri decisionali su politica estera e militare. In tale quadro, l’Europa si ritrova oggi in una situazione ancora più pericolosa della guerra fredda. Altri tre paesi – Bosnia Erzegovina (già parte della Jugoslavia), Georgia e Ucraina (già parte dell’Urss) – sono candidati a entrare nella Nato. Stoltenberg, portavoce Usa prima che della Nato, dichiara che «teniamo la porta aperta e, se l’obiettivo del Cremlino è quello di avere meno Nato ai confini della Russia, otterrà solo più Nato».

NELLA ESCALATION Usa-Nato, che ci porta sul baratro di una guerra su larga scala nel cuore dell’Europa, entrano in gioco le armi nucleari. Fra tre mesi inizia negli Usa la produzione in serie delle nuove bombe nucleari B61-12, che saranno schierate sotto comando Usa in Italia e altri paesi europei, probabilmente anche dell’Est ancora più a ridosso della Russia. Oltre a queste, gli Usa hanno in Europa due basi terrestri in Romania e Polonia e quattro navi da guerra dotate del sistema missilistico Aegis, in grado di lanciare non solo missili anti-missile ma anche missili Cruise a testata nucleare. Stanno inoltre preparando missili nucleari a raggio intermedio, da schierare in Europa contro la Russia, il nemico inventato che può però rispondere in maniera distruttiva se attaccato.

A TUTTO QUESTO si aggiunge l’impatto economico e sociale della crescente spesa militare. Alla riunione dei ministri della Difesa, Stoltenberg ha annunciato trionfante che «questo è il settimo anno consecutivo di aumento della spesa della Difesa degli Alleati europei, accresciuta di 270 miliardi di dollari dal 2014». Altro denaro pubblico sottratto alle spese sociali e agli investimenti produttivi, mentre i paesi europei devono ancora riprendersi dal lockdown economico del 2020-21. La spesa militare italiana ha superato i 70 milioni di euro al giorno, ma non bastano. Il premier Draghi ha già annunciato «Ci dobbiamo dotare di una difesa più significativa: è chiarissimo che bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora». Chiarissimo: stringiamo la cinghia perché la Nato possa allargarsi.

© 2022

3.9.14

O l’Europa o la Nato

Tommaso Di Francesco (il Manifesto)

La mag­gio­ranza dei mem­bri della Com­mis­sione Ue non capi­sce nulla di que­stioni mon­diali. Vedi il ten­ta­tivo di far entrare nella Ue l’Ucraina. È mega­lo­ma­nia… hanno posto a Kiev la scelta o Ue o Est…ci vuole una rivolta del Par­la­mento euro­peo con­tro gli euro­crati di Bru­xel­les, così si rischia la terza guerra mon­diale»: (prima di quelle di Ber­go­glio) sono le parole allar­mate dell’ex can­cel­liere tede­sco Sch­midt in un’intervista alla Bild di tre mesi fa che non parla ancora di ingresso esplo­sivo di Kiev. Peri­colo sul quale, con ten­ta­tivo non riu­scito di influen­zare le scelte di Obama che invece rilan­cia il riarmo atlan­tico sulla base del pre­sunto sconfinamento-invasione russa dell’Ucraina, si sono pro­nun­ciati gli ex segre­tari di Stato Usa Kis­sin­ger e Brze­zin­ski e per­fino l’ex capo del Pen­ta­gono dell’amministrazione Obama, Robert Gates che nel suo libro di memo­rie ha scritto: «L’allargamento così rapido della Nato a est è un errore e serve solo ad umi­liare la Rus­sia, fino a pro­vo­care una guerra». Non è ser­vito a nulla a quanto pare.

Lamen­tano i governi euro­pei che è in gioco l’unità ter­ri­to­riale dell’Ucraina e Fede­rica Moghe­rini, Mrs Pesc in pec­tore davanti al Par­la­mento euro­peo, per farsi per­do­nare di essere con­si­de­rata filo­russa dati gli inte­ressi dell’Eni, ha la fac­cia tosta di accu­sare: «È colpa di Putin». Se gli stava vera­mente a cuore l’unità ter­ri­to­riale dell’Ucraina, per­ché i governi euro­pei insieme alla Nato e agli Usa con tanto di capo della Cia John Bren­nan, sena­tori repub­bli­cani gui­dati da McCain e segre­ta­rio di stato Kerry tutti su quella piazza, hanno ali­men­tato e soste­nuto dalla fine del 2013 fino al mag­gio 2014 la rivolta, spesso vio­lenta e di estrema destra, di Piazza Maj­dan che ha rimesso di fatto in discus­sione l’unità ter­ri­to­riale del Paese. Men­tre l’ambasciatrice Usa man­dava affan… l’Europa. Era colpa di Putin anche la rivolta di piazza Maj­dan? Magari per­ché aveva soc­corso, pronta cassa, le richie­ste di Kiev quando l’Ue se ne lavava le mani in preda alla sua crisi?

E come dimen­ti­care che quella rivolta è stata nazio­na­li­sta ucraina e anti­russa, non solo anti-Putin, ma con­tra­ria ai diritti delle popo­la­zioni dell’est che ave­vano soste­nuto ed eletto Yanu­ko­vitch — certo cor­rotto, ma non meno dell’attuale Poro­shenko e del pre­mier dimis­sio­na­rio Yatse­nyuk. La rivolta di Maj­dan è stata nazio­na­li­sta anti­russa, con­tro gli inte­ressi poli­tici e sociali delle popo­la­zioni dell’est, di lin­gua russa all’80%, quando non pro­prio russe e comun­que filo­russe, legate alla Rus­sia per appar­te­nenze sto­ri­che, reli­giose e cul­tu­rali e per legame eco­no­mico impre­scin­di­bile e com­ple­men­tare alla pro­pria soprav­vi­venza, tutt’altro che garan­tita dall’associazione delle regioni dell’ovest all’Ue.

È lì, in quel soste­gno stru­men­tale e ideo­lo­gico, come se fosse un nuovo ’89, dato dall’Occidente euro­peo ed ame­ri­cano che si è con­su­mata l’unità dell’Ucraina che a quel punto si è asso­ciata all’Ue solo a metà.
Ora accade che il governo di Kiev dimis­sio­nato pochi giorni fa dal pre­si­dente Poro­shenko annunci, di fronte alla pre­sunta inva­sione — è il quarto allarme in due mesi — la richie­sta di ade­sione all’Alleanza atlan­tica. «Il governo ha sot­to­po­sto al par­la­mento un pro­getto di legge per annul­lare lo sta­tus fuori dei bloc­chi dell’Ucraina e tor­nare sulla via dell’adesione alla Nato» ha dichia­rato quasi in fuga il pre­mier uscente, già lea­der di Maj­dan, Yatse­niuk. E subito il segre­ta­rio della Nato Ander Fogh Rasmus­sen, ha ammic­cato: «Ogni paese ha diritto di sce­gliere da sé le pro­prie alleanze». Tanto più che la deci­sione sem­bra andare incon­tro alle ultime parole di Obama che, ormai inca­pace di uscire dal «mili­ta­ri­smo uma­ni­ta­rio» degli Stati uniti, scio­rina per fer­mare l’orso russo (quel Putin che gli ha impe­dito di impe­la­garsi ancora di più nella guerra in Siria) la «nuova» agenda del riarmo ame­ri­cano e Nato nell’Europa dell’est, dalla Polo­nia, ai Paesi bal­tici — andrà in Esto­nia per que­sto domani — e alle finora neu­trali Fin­lan­dia e Svezia.

Altro che nuova agenda: è la scel­le­rata stra­te­gia della Nato in atto da più di venti anni a par­tire dalle guerre nei Bal­cani, con rela­tiva redi­stri­bu­zione di costi per la difesa sullo scac­chiere euro­peo, tra gli stessi paesi ora alle prese con la lace­rante crisi eco­no­mica. Una stra­te­gia che in que­sti venti anni ha visto l’ingresso di tutti i paesi dell’ex Patto di Var­sa­via nella Nato, con mis­sioni in guerre alleate, a par­tire dall’ex Jugo­sla­via (dove, a spec­chio capo­volto della sto­ria, i raid Nato hanno aiu­tato i ribelli dell’Uck — cri­mi­nali, dice ora l’indagine della stessa com­mis­sione Ue Eulex — ad otte­nere l’indipendenza) e ancora tante basi, strut­ture d’intelligence, siti mis­si­li­stici, ogive nucleari, scudi spa­ziali tutti quanti ai con­fini russi.

Senza l’allargamento a est della Nato non ci tro­ve­remmo sull’orlo di un con­flitto spa­ven­toso in Ucraina, né ci sarebbe stata la sce­neg­giata arro­gante di una lea­der­ship di oli­gar­chi vol­ta­gab­bana che ha desta­bi­liz­zato l’Ucraina con la vio­lenza della piazza «buona» per­ché sedi­cente filoeu­ro­pea, e che ora cavalca la repres­sione san­gui­nosa della piazza «cat­tiva» per­ché filo­russa. Senza la Nato esi­ste­reb­bero una poli­tica estera e di difesa dell’Ue. Intanto in que­ste ore nell’est ucraino si com­batte, Kiev è all’offensiva. Secondo l’Onu i morti, tanti i civili, in quat­tro mesi sono più di 2.600.

Se dal ver­tice Nato che si apre domani a Car­diff, in Gal­les, arri­vasse un sì alla richie­sta incen­dia­ria di Kiev e se si avvia, come accade, lo schie­ra­mento di forze mili­tari Nato in dichia­rate eser­ci­ta­zioni anti-Russia o ai con­fini russi, come ha chie­sto l’irresponsabile Came­ron, è l’inizio della fine. Cioè la sepa­ra­zione delle regioni dell’est con l’intervento, sta­volta vero, della Rus­sia nella guerra, a quel punto moti­vata a difen­dere dalle truppe occi­den­tali le popo­la­zioni russo-ucraine, lo sta­tus pro­cla­mato dagli insorti filo-russi ma anche lo stesso ter­ri­to­rio russo. Quando invece è chiaro che l’Ucraina resterà unita fin­ché non appar­terrà ad alcun blocco mili­tare e se ci sarà un tavolo nego­ziale per una fede­ra­liz­za­zione del paese capace di garan­tire l’autonomia sostan­ziale dell’est. È quello che chiede anche Putin quando dichiara: «Devono essere imme­dia­ta­mente avviati nego­ziati sostan­ziali non su que­stioni tec­ni­che, ma sull’organizzazione poli­tica della società e sul sistema sta­tale nel sud-est dell’Ucraina allo scopo di garan­tire incon­di­zio­na­ta­mente gli inte­ressi delle per­sone che vivono lì», ma le sue parole sono tra­dotte in modo pro­pa­gan­di­stico dai media veli­nari: «Voglio uno Stato nell’est».

È la stessa richie­sta che for­mula, ina­scol­tato, sul Cor­riere della Sera, Ser­gio Romano, tra i pochi ad inten­dersi di Rus­sia. Fede­rale e neu­trale sono le due parole chiave garan­zia di pace anche per l’Ue, e certo non aiuta l’elezione a pre­si­dente dell’Unione del polacco Tusk, lea­der della Polo­nia che vanta un con­ten­zioso sto­rico su una parte della terra ucraina con­si­de­rata ancora «polacca».

Altri­menti sarà, e non a pez­zetti, la terza guerra mon­diale in piena Europa. E siamo a cento anni fa. È il nuovo che avanza, la «nuova gene­ra­zione» alla guida euro­pea tanto cara a Renzi. Ora la Mrs Pesc Moghe­rini, anche se è stata com­mis­sa­riata da un vice-Pesc tede­sco, ha l’occasione di dimo­strarsi per una volta euro­pea e non schiac­ciata sull’Alleanza atlan­tica e sugli Stati uniti. Qual­cosa ci dice che non saremo ascoltati.

2.9.14

Ecco i dieci motivi che danno ragione allo "zar" Putin

Il Cremlino è stato costretto a reagire all'intesa tra Ucraina e Unione europea: rischiava di perdere corridoi energetici e approdi nel Mar Nero. La minaccia Usa

Gian Micalessin (il Giornale)

Uno scacco matto al più abile giocatore di scacchi della scena internazionale. Dietro il tentativo di Stati Uniti ed Unione Europea di scippare a Vladimir Putin il controllo sull'Ucraina si celava quest'azzardo. L'azzardo prende il via lo scorso autunno quando l'Unione Europea cerca di far firmare all'allora presidente ucraino Viktor Yanukovich un accordo di libero scambio.

Dietro quell'accordo si celano intese economiche, politiche e strategiche che puntano, di fatto, a ridimensionare l'influenza internazionale della Russia e spostare verso oriente il raggio d'influenza dell'Alleanza Atlantica. Un tentativo davanti al quale un giocatore di scacchi come Putin non può far a meno di reagire. Per almeno 10 ottimi motivi.

A Il capitolo politico dell'«Accordo di Associazione tra Kiev e Unione Europea» proposto da Bruxelles e firmato il 27 giugno dal presidente ucraino Petro Poroshenko, nascondeva il tentativo di far entrare l'Ucraina nella Nato. A Putin non erano sfuggiti i punti in cui si accennava alla necessità di «approfondire la cooperazione tra le parti nei campi della sicurezza e della difesa» e «promuovere una graduale convergenza in materia di politica estera e sicurezza, con lo scopo di un coinvolgimento sempre più profondo dell'Ucraina nell'area di sicurezza europea». Come dire strappare Kiev a Mosca e regalarla all'Alleanza Atlantica.

B Accogliendo l'Ucraina la Nato avrebbero potuto chiedere a Kiev di partecipare al progetto dello Scudo Spaziale Europeo e di accettare, come ha già fatto la Polonia, lo schieramento sul proprio territorio di sistemi radar e missili statunitensi con una portata di circa 3000 chilometri. Il progetto, presentato come un sistema per neutralizzare attacchi iraniani con missili di lungo raggio, punta, in verità a tenere sotto tiro Mosca e a bloccare eventuali sue mosse a danno di quei paesi dell'Europa orientale, ex membri del Patto di Varsavia, diventati parte integrante del sistema di difesa atlantico.

C Firmando l'accordo di partenariato propostole dall'Unione Europea Kiev avrebbe potuto cancellare i trattati di lungo termine che garantiscono alla Marina Militare russa di affittare e utilizzare Sebastopoli e gli altri porti sul Mar Mero. Senza quei porti la flotta del Mar Nero non avrebbe più potuto accedere al Mediterraneo e al cruciale scalo di Tartus in territorio siriano, una base navale fondamentale per consentire a Mosca di continuare ad esercitare il suo ruolo da grande potenza in Medio Oriente. Per questo ora, dopo essersi annessa la Crimea, Putin potrebbe prendersi anche Odessa.

D L' Ucraina è uno dei principali corridoi energetici, uno snodo cruciale per il passaggio delle tubature che portano in Europa il petrolio e il gas del Caucaso. Il 30% del gas consumato dall'Europa proviene dalla Russia. L'Ucraina stessa non può sopravvivere per ora senza il gas russo. La rottura tra Bruxelles e Mosca potrebbe spingere le nazioni europee a cercare altre rotte di approvvigionamento. Perdendo il controllo sull'Ucraina la Russia rischia dunque di perdere la cruciale partita che ha come obbiettivo il controllo dei mercati dell'energia nei prossimi venti trenta anni.

E In Ucraina hanno sede almeno 50 aziende che producono componenti e parti di ricambio fondamentali per l'industria militare russa. La sospensione delle forniture decretata da Kiev minaccia la produzione degli aerei Antonov, degli elicotteri d'assalto Mi 26 e degli Mi8 ed Mi17. A rischio anche gli aerei antisommergibile Albatross e le componenti fondamentali per la guida dei missili balistici. Senza i 400 motori per elicotteri acquistati ogni anno dalla «Motor Sich» e senza i sistemi geostazionari della «Zorya Mashproekt» Putin rischia di veder compromesso il proprio potenziale militare.

F La crisi dell'industria bellica, causata dal blocco delle forniture ucraine, rischia non solo d'indebolire militarmente la potenza russa, ma anche di causare un'impareggiabile danno economico. La produzione di elicotteri rischia di risultare compromessa per i prossimi 5 anni. Oltre a dover rinunciare alle entrate per oltre un miliardo di euro annui garantite dalle esportazione di armi Putin dovrà spendere quasi un miliardo e mezzo di euro all'anno per adeguare l'apparato industriale e metterlo in grado di sfornare le componenti prodotte fin qui dall'Ucraina.

G La perdita dell'Ucraina rischia di compromettere il più ambizioso progetto geopolitico di Vladimir Putin, ovvero la nascita nel 2015 dell'Unione Economica dell'Eurasia a cui aderiscono Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghisia. Il nuovo colosso, considerato una riproposizione dell'Unione Sovietica, rappresenta già ora un mercato da 171 milioni di consumatori con un prodotto interno lordo da 2 trilioni e mezzo di euro. Ma nei piani di Putin solo l'Ucraina con i suoi 46 milioni di abitanti e la sua produzione agricola e industriale consentirà all'«Eurasia» di contrapporsi a Stati Uniti, Europa e Cina.

H L'Ucraina e la sua capitale furono il fulcro di quel regno conosciuto con il nome di «Russia di Kiev» che nell'XI secolo, all'apice della sua potenza, si estendeva dai Carpazi a sudovest fino alla confluenza tra la Volga e il fiume Oka a nordest, toccando - a nordovest - il mar Baltico e seguendo - al confine sudorientale - il corso del Volga. Per questo per molti nazionalisti russi e per lo stesso Vladimir Putin, Kiev e i suoi territori restano storicamente parte integrante dei territori di Mosca.

I Il riconoscimento dell'indipendenza di Kiev da parte della Russia arriva solo dopo la fine dell'Unione Sovietica nel 1991. Per 900 anni dall'invasione mongola alla fine dell'impero austro ungarico non è mai esistito uno stato chiamato Ucraina. La Repubblica Nazionale dell'Ucraina Occidentale e quella Popolare, sorte nel 1918, vennero in breve assorbite da Polonia e Urss. Nel 2009 lo stesso Putin liquidò l'Ucraina con l'antico termine di «piccola Russia».

J Rinunciando al controllo su un'Ucraina considerata storicamente parte integrante della «grande Russia» Vladimir Putin teme di venir percepito dalla propria opinione pubblica come un nuovo Mikhail Gorbaciov. Il presidente che decretò la fine dell'Unione Sovietica è considerato da gran parte dei russi un inetto, responsabile del collasso della grande crisi economica e politica attraversata dalla Russia negli anni Novanta.

8.5.14

Quali sviluppi futuri nella crisi ucraina?


Slavyansk magNegli occhi abbiamo ancora tutti le immagini dell'incendio alla Casa dei sindacati di Odessa, ad opera dei neonazisti del Pravij Sector, dove decine di uomini e donne, giovani e anziani, hanno trovato la morte, arse vive. Alcuni pare, siano stati giustiziati sommariamente prima che venisse appiccato il fuoco.

È sicuramente l'episodio più terribile dall'inizio conflitto in Ucraina, la cui responsabilitùà è da attribuire al governo di Majdan e all'imperialismo occidentale, che non solo hanno lasciato mano libera, ma hanno addirittura integrato nell'apparato dello stato le forze paramilitari dell'estrema destra.
Un episodio che fa sprofondare ancora di più l'Ucraina verso il baratro della guerra civile. In questo contesto, è tutta da valutare l'efficacia delle aperture fatte da Putin ieri, tra cui il ritiro delle truppe russe dai confini con l'Ucraina e la richiesta ai ribelli delle regioni orientali di posticipare il referendum separatista, previsto per l'11 maggio prossimo. Finora gli Usa e i loro alleati a Kiev hanno sempre respinto ogni proposta di mediazione che non fosse alle loro condizioni.
A 24 ore dalle celebrazioni del giorno della vittoria dell'Urss sul nazismo nella Seconda guerra mondiale, l'articolo di Alan Woods e Francesco Merli, scritto una settimana fa, sviluppa un'analisi approfondita degli avvenimenti e, delineando la necessità della difesa di una posizione di indipendenza di classe, conserva tutta la sua validità.

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In un raro momento di sincerità, ieri, (30 aprile, ndt) il presidente ucraino ad interim Turchynov ha ammesso che le proprie forze sarebbero state “troppo deboli” per sedare i disordini nell’Ucraina dell’est, data l’ascesa dell’insurrezione filo-russa. Ha ammesso anche che le forze di sicurezza ucraine non erano affidabili e che “qualcuna di queste unità ha dato aiuto o collaborato coi gruppi terroristici”. Ormai l’obiettivo è quello di impedire che l’insurrezione filo-russa si diffonda alle regioni del Kharkiv e ad Odessa. Il che equivale praticamente ad una dichiarazione di sconfitta.
 Non sono passate nemmeno due settimane dallo “storico” accordo di Ginevra del 17 aprile tra il governo ucraino, la Russia, l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Accordo che è stato salutato dai media occidentali con un sospiro di sollievo collettivo e accolto come una svolta nella risoluzione della crisi ucraina. In realtà dietro questa ondata propagandistica di falso ottimismo, non si può non accorgersi del nervosismo dei funzionari americani e del sorriso beffardo dei loro omologhi russi. Non c’è stato infatti nessun accordo, se non quello per cui gli USA abbandonano ogni rivendicazione rispetto all’annessione della Crimea alla Russia, che è ormai un fatto assodato.
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Il rogo della Casa dei sindacati di Odessa
Gli scoppiettanti proclami del tipo: “ci saranno conseguenze” di John Kerry si sono dimostrati solo un mucchio di aria fritta. Da stratega consumato, Putin sta muovendo i propri pezzi sulla scacchiera della diplomazia con l’abilità di un Gran maestro. I punti segnati dalla diplomazia russa nel gioco di potere che si sta svolgendo in Ucraina stanno mettendo a dura prova la pazienza degli imperialisti statunitensi, che si sono messi in una posizione insostenibile. Le loro minacce vuote non scoraggiano la Russia perché non sono mai state sostenute da fatti concreti.
Sembra incredibile che gli Americani abbiano potuto pensare di sedersi al tavolo delle trattative a Ginevra, scambiare sorrisi e conversazioni educate con la controparte e ottenere con i mezzi della diplomazia quello che non sono stati in grado di ottenere sul campo. Questa sciocca illusione è frutto di una grossa sottovalutazione sia della determinazione di Mosca che del vero equilibrio di forze in Ucraina. In conclusione, l’accordo è stato ridotto a carta straccia ancor prima che l’inchiostro si fosse asciugato.
L’accordo raggiunto a Ginevra proclamava a gran voce che tutti gli edifici occupati dai rivoltosi filo-russi nell’Ucraina dell’est avrebbero dovuto essere sgomberati e che i gruppi armati avrebbero dovuto consegnare le armi. Un discorso davvero combattivo! Tuttavia non c’era nemmeno una piccola nota su chi avrebbe dovuto mettere in pratica questa decisione ed infatti non è mai stato fatto
Poche ore dopo questo annuncio, Denis Pushilin, il capo dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, ha fatto spallucce e ha respinto l’accordo sulla base del fatto che il governo di Kiev è illegittimo, e aggiungendo con una buona dose di ironia che sarebbero stati felici di rispettare l’accordo una volta che il governo avesse sgomberato gli edifici illegalmente occupati a Kiev. Lo stesso spirito di sfida ha risuonato in tutti gli avamposti ribelli nell’area di Donetsk, incoraggiato dalle vittorie ottenute sul campo.

L’umiliante sconfitta dell’esercito ucraino
Quello che il teatrino di Ginevra ha cercato di coprire è stato il fallimento imbarazzante del governo ucraino nel tentativo del 16 aprile di riconquistare il controllo degli avamposti ribelli a Sloviansk e Kramatorsk. Tentativo arrivato dopo giorni di ultimatum mai fatti rispettare. La massiccia campagna propagandistica del governo volta a dimostrare che dietro l’insurrezione nelle regioni orientali ci siano “milizie terroriste” e il diretto coinvolgimento della Russia gli si è evidentemente ritorta contro. Può avere avuto all’inizio l’effetto di montare un’isterica combattività in una minoranza dell’opinione pubblica nazionalista ucraina. Ma questa si è sgonfiata rapidamente e si è trasformata in rabbia e frustrazione verso il manifesto fallimento del governo nel far seguire a queste dure parole fatti altrettanto duri.
Dall’altra parte invece i messaggi minacciosi lanciati da Kiev hanno avuto un effetto elettrizzante sulla popolazione del Sud-Est dell’Ucraina. Gli abitanti di quella zona prevalentemente russofona sono stati allarmati dall’implicita minaccia di un attacco da parte di un esercito agli ordini di un governo che la maggior parte di loro considera illegittimo. Ma i giorni sono passati e la cagnara bellicosa di Kiev non si è tradotta in alcuna azione concreta. Chiaramente il governo ha ritenuto di non potere fare affidamento sui propri soldati per fare il lavoro sporco nel Sud-Est. Gli avvenimenti successivi hanno dimostrato che questo timore era ben fondato.
Alla fine le truppe e i veicoli blindati ucraini hanno tentato di entrare nelle due città alle prime luci dell’alba del 16 aprile. Ma quella che voleva essere una dimostrazione di forza si è immediatamente trasformata in una dimostrazione di debolezza. I veicoli blindati sono stati circondati dalla popolazione arrabbiata, con urla di sfida e insulti ai confusi e avviliti soldati ucraini.
Il comandante di un carroarmato è stato visto fare una telefonata disperata al proprio comandante: “Sono circondato da un gran numero di persone. Cosa dovrei fare?”. Non si sa cosa abbia risposto il comandante, ma non è stato sparato nemmeno un colpo e alla fine i veicoli blindati sono stati lasciati alla folla festante. Un soldato ucraino ha gridato dalla sommità di un carro armato “Io sono contro tutto questo”, saltando giù dal veicolo e unendosi ai dimostranti. I suoi commilitoni hanno ben presto seguito il suo esempio e in pochi minuti la dimostrazione di forza era bella che finita.
Che le forze armate ucraine siano preparate ad affrontare un’invasione russa resta da vedere, ma i soldati semplici ucraini non sono certi preparati ad aprire il fuoco contro la loro stessa gente. Per tutta la mattinata sono stati diffusi in rete da giornalisti indipendenti resoconti e video che mostrano soldati ucraini demoralizzati che abbandonano armi e carriarmati e se ne vanno a testa bassa davanti a centinaia di comuni cittadini infuriati e di pochi miliziani male armati (guarda: Il tentativo dell’Ucraina di riconquistare l’Est fallisce miseramente).
Le forze armate ucraine sono state inviate nella regione senza alcuna seria preparazione. Molti dei soldati che sono stati mandati contro gli insorti provenivano da zone vicine e alcuni di loro si sono lamentati di non avere avuto cibo sufficiente per settimane. Le conseguenze di questa umiliazione, che diventeranno sempre più evidenti nel prossimo periodo, avranno effetti a lungo termine. L’autorità del governo su generali e soldati, che non è mai stata particolarmente salda, ha ora raggiunto nuovi minimi tra le fila delle truppe e anche tra gli ufficiali, fino ai livelli più alti.

L’ipocrisia dell’Occidente
La campagna dei media occidentali che tenta di attribuire la colpa di tutto alla Russia puzza di ipocrisia. I portavoce della Casa Bianca si richiamano solennemente ai principi del diritto internazionale che vietano l’interferenza di un Paese negli affari di un altro per condannare le azioni di Mosca in Crimea e in qualche modo riescono a farlo mantenendo un’espressione seria sulla faccia. Come però lo stupro brutale di Iraq e Afghanistan possa essere conciliato col rispetto di questi stessi principi resta un mistero. Ma d’altronde è sempre stato il compito della diplomazia far quadrare il cerchio, sostenere che il bianco sia nero e fare le più vergognose affermazioni senza arrossire.
Per più di vent’anni l’imperialismo americano ha imperversato per il mondo, invadendo Paesi, rovesciando governi, perseguitando stati sovrani e spiando i propri alleati, bombardando, uccidendo, torturando e in generale imponendosi con la forza dappertutto. Tutto questo naturalmente nel pieno rispetto del diritto internazionale. Ma se qualcuno prova a resistergli Washington immediatamente piange e si dispera. Si comporta come un bullo a scuola, che è abituato a ottenere tutto ciò che vuole come gli pare ma quando riceve un pugno sul naso corre dalla maestra lamentandosi di essere stato vittima di un attacco gratuito.
Gli americani usano colpevolmente due pesi e due misure. Hanno attivamente sostenuto il rovesciamento del governo Yanukovych, cosa che hanno presentato (come sempre in questi casi) come un movimento per la democrazia, nonostante il fatto che elementi apertamente fascisti vi abbiano giocato un ruolo chiave. Ora che il popolo del Sud-Est ucraino ha preso in mano le redini del governo locale e ha cacciato i rappresentanti di Kiev con gli stessi metodi, continuano a dire che si tratta di un atto illegittimo e dell’opera di agenti Russi.
I lavoratori del Sud-Est dell’Ucraina non avevano illusioni in Yanukovich, ma sono fortemente ostili al nuovo governo di Kiev, il cui primo atto è stato abrogare la legge che dava al russo lo status di lingua ufficiale a livello regionale. È stato come mostrare un drappo rosso ad un toro per i russofoni ucraini. La rivolta è stata tale che il presidente ad interim Turchynov è stato costretto a dichiarare che avrebbe posto il veto sulla legge che abrogava il russo come lingua ufficiale.
A peggiorare le cose, le condizioni di vita sono crollate e i prezzi sono saliti, specialmente quelli del carburante. Per aggiungere la beffa al danno, gli oligarchi legati alla nuova cricca al potere a Kiev sono stati ben presto nominati governatori delle regioni del Sud e dell’Est. Così il terzo uomo più ricco del Paese, Kolomoisky, è stato nominato governatore di Dnipropetrovk, mentre Serhiy Taruta, il sedicesimo uomo più ricco del Paese, è diventato governatore di Donetsk. La conseguenza è stata un malcontento crescente. L’intera regione si è trasformata in una polveriera che aspettava solo una scintilla per esplodere. Non è stato il Cremlino a dare vita a questa polveriera, ma le azioni della cricca dominante di Kiev e dei suoi sostenitori imperialisti.
Per vari mesi i media occidentali hanno provato a ritrarre il cosiddetto movimento Maidan con toni rosei, come un movimento per la “democrazia”. Hanno spudoratamente nascosto il ruolo chiave giocato da organizzazioni apertamente fasciste e naziste nel rovesciamento di Yanukovich. Elementi fascisti sono presenti nel governo di Kiev e dettano molte delle sue politiche, incluso il tentativo di bandire la lingua russa. Hanno cominciato a riscrivere la storia parlando dei seguaci di Bandera, che hanno collaborato coi nazisti e perpetrato atrocità contro Russi, Polacchi ed Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, come eroi nazionali. I reazionari di Kiev bollano chiunque non sia d’accordo con loro come “schiavi” o lacchè dei Russi. La deputata di Leopoli, in Ucraina occidentale, Iryna Farion ama riferirsi ai russofoni come “animali”.
Nessun politico occidentale potrebbe cavarsela con tale linguaggio. Tuttavia la poplazione in Occidente, che si basa sulle notizie riportate dai media, non ha idea di quanto la reazione si sia spinta avanti in Ucraina. Perciò quando vedono servizi su uomini armati che occupano palazzi governativi nel Sud-Est del Paese, l’unica spiegazione che possono darsi è che tutto ciò sia opera di forze oscure inviate da Mosca.
Kiev, Leopoli e le altre città dell’Ucraina occidentale sono nella morsa del Terrore Bianco. I comunisti vengono malmenati e le loro sedi saccheggiate e date alle fiamme dalle bande fasciste. Ad esempio, gli uffici del Partito Comunista (KPU) a Kiev sono stati saccheggiati da delinquenti di estrema destra provenienti dall’area neo-nazista e dal “Gruppo di autodifesa” di Maidan il 9 aprile e più tardi quella stessa notte ha subito un attentato incendiario. Le sedi del KPU sono state attaccate anche a Leopoli e in altre città. Alcuni parlamentari del partito di estrema destra Svoboda (facente parte del nuovo governo) hanno malmenato il direttore della sede della TV di stato e lo hanno costretto a dimettersi. Gli stessi parlamentari di Svoboda hanno malmenato il leader del Partito Comunista Symonenko per essersi rivolto alla Rada criticando la destra nazionalista ucraina. Oleg Tsarev, un candidato che alle presidenziali dichiarava di rappresentare le regioni sud-orientali, è stato pestato da teppisti di estrema destra dopo una sua apparizione televisiva e di nuovo quando ha visitato Mikolayiv.
Il 27 aprile a Leopoli si è svolto un corteo che commemorava l’anniversario della fondazione della divisione SS Galicia dei volontari ucraini, responsabile dell’eccidio di massa di ebrei e altri oppositori. Il corteo è stato organizzato da Svoboda che è il primo partito della regione e, come abbiamo già detto, fa parte della coalizione di governo a Kiev.
Di tutto ciò non è apparsa una sola parola nella stampa occidentale. Questa scandalosa omertà organizzata rispetto al regime di terrore dell’Ucraina occidentale contrasta con i servizi palesemente distorti e faziosi a proposito dei “terroristi”, degli “agenti russi” e dei “separatisti” del Sud-est.
Non solo il partito di estrema destra Svoboda fa parte della coalizione di governo, ma uno dei suoi membri, Oleh Makhnitskiy, ricopre la carica di procuratore generale dello Stato. Andriy Parubiy, fondatore del neonazista Partito Nazionalsocialista (quindi un rispettabile politico borghese di destra), e già “comandante del gruppo di autodifesa di Maidan” è ora segretario Consiglio di Sicurezza Nazionale e di Difesa.
lviv march  ss galicia division
Leopoli: Commemorazione della divisione SS Galicia
formata da volontari ucraini
La piccola borghesia nazionalista fanatica dell’Ucraina occidentale è mossa da un odio cieco verso tutto ciò che è russo. Ma non offre nessuna soluzione ai problemi scottanti del popolo ucraino. Il sogno per cui l’Ucraina avrebbe potuto risolvere i propri problemi avvicinandosi all’Occidente si è rivalato subito come un’illusione senza speranza. L’aiuto promesso dall’Occidente a sostegno dei propri tirapiedi di Kiev (che comunque sono davvero pochi) è arrivato subordinato a vincoli ben precisi. Hanno chiesto “riforme”, che significa tagli feroci alle condizioni di vita e ai servizi. Il Ministro delle Finanze Oleksandr Shlapak ha già promesso “riforme strutturali”, “liberalizzazioni” e “riduzione del deficit di bilancio”, e non serve una laurea per capire cosa comporta un memorandum dell’Unione Europea e dell’FMI!
Tutto ciò ha ulteriormente allontanato i lavoratori e le lavoratrici di Donetsk, Lugansk o Kharkiv, che ora guardano con invidia ai salari più alti e alle migliori condizioni dei propri colleghi della Federazione Russa. Così i cosiddetti patrioti ucraini sono riusciti a costruire un solido muro tra Ovest ed Est dell’Ucraina, in grado di minacciare l’esistenza stessa dell’Ucraina come nazione.
La situazione si è deteriorata a tal punto e la popolazione del Sud-Est è talmente arrabbiata che qualsiasi tentativo da parte del governo di Kiev di risolvere la questione sud-orientale con la violenza sfocerebbe in una vera e propria sanguinosa guerra civile. Fino ad ora tutti i tentativi del governo di riaffermare la propria autorità sulla regione sono finiti in farsa.

L’insurrezione nel Sud-Est
Coloro che pensano che sia la Russia a tirare i fili nell’Ucraina sud-orientale sono colpevoli di una grave incomprensione della complessità della regione, della sua composizione nazionale e sociale e del suo legame storico con la Russia. La regione di Donbas comprende il 10% della popolazione ucraina, ma produce il 25% delle esportazioni del Paese. I suoi abitanti, per la stragrande maggioranza russofoni, sono di estrazione prevalentemente proletaria, lavorano nelle miniere, negli impianti chimici e siderurgici e nelle fabbriche di macchinari. Guardano con profonda diffidenza alle manovre per sottrarre l’Ucraina alla sfera d’influenza Russa e portarla sotto il controllo dell’imperialismo occidentale. Da un punto di vista economico l’integrazione dell’Ucraina nell’Unione Europea significherebbe la rovina per le loro industrie, che dipendono pesantemente dall’esportazione verso il mercato russo.
I lavoratori di Donetsk non hanno bisogno che sia Vladimir Putin a dire loro che le loro aziende chiuderanno una volta che l’Ucraina sarà entrata nell’Unione Europea. Possono vedere benissimo quello che è successo in Paesi come l’Ungheria, la Romania o i Paesi Baltici quando sono entrati nell’Unione Europea. O ancora l’integrazione della Russia nell’economia capitalista globale, che ha portato all’esportazione di risorse naturali, con conseguente chiusura di migliaia di fabbriche. Qui il problema non è un problema nazionale, ma un problema del sistema capitalistico in sé. La rovina economica, la disoccupazione di massa e l’aumento del costo della vita colpisce tutti: gli Ucraini, i Russi, gli Armeni o gli Ungheresi, sono tutti vittime della crisi del capitalismo e del dominio degli oligarchi.
Alla questione economica dobbiamo aggiungere la questione dell’oppressione nazionale e linguistica. Dal punto di vista dei russofoni, la dominazione dei nazionalisti ucraini della regione occidentale del Paese rappresenta una potenziale minaccia allo status di lingua ufficiale del russo e la possibilità che la popolazione della regione sud-orientale possa diventare una minoranza nazionale oppressa e cittadini di seconda categoria nel proprio stesso Paese. È quindi così sorprendente che tentino di difendersi?

Siamo davanti ad una riedizione della Crimea?
Washington sostiene che l’occupazione degli uffici governativi sia stata portata avanti da soldati professionisti ben armati. Ma tutte le testimonianze non supportano questa tesi. Sebbene non sia impossibile che ci siano agenti russi attivi nella regione (anzi, sarebbe sorprendente il contrario, così come sarebbe sorprendente che non ci fossero agenti della CIA a Kiev), i servizi televisivi e gli articoli della stampa indicano che queste azioni sono opera di gente del posto e milizie armate locali. Il fatto che essi siano “ben armati” non è sorprendente, dal momento che sono state assaltate le caserme dell’esercito e le stazioni di polizia e sono state prese le armi. Addirittura in molti casi la polizia locale è passata dalla parte dei ribelli, combattendo al loro fianco.
Non è nemmeno chiaro se Putin al momento intenda inviare le proprie truppe oltre il confine. La rivista Time cita Vyacheslav Ponomaryov, titolare di un azienda produttrice di sapone che ha preso il titolo di “sindaco del popolo” dopo la presa del potere a Slaviansk: “Abbiamo bisogno di armi, capite? Siamo a corto di tutto tranne che di entusiasmo”, ha invocato l’aiuto da parte della Russia, ma a quanto pare è stato ignorato. Il Time commenta:
“La sua milizia, ammette, è formata in parte da volontari provenienti dalla Russia, dalla Bielorussia, dal Kazakistan e da altre zone dell’ex Unione Sovietica. Ma le lamentele di Kiev riguardo ad un’insurrezione separatista alimentata con denaro, armi e truppe dal governo russo non c’entra niente con la realtà di Slaviansk.”
“I combattenti ben armati come Mozhaev costituiscono una piccola minoranza delle milizie di Ponomaryov, forse poche centinaia di uomini al massimo, insieme ad un certo numero di Cosacchi. Noti come “uomini verdi” per le divise mimetiche che indossano, questi membri della milizia non sono ben addestrati e ben equipaggiati come i soldati russi che hanno occupato la Crimea il mese scorso. Se c’è una presenza militare russa in questo momento a Slaviansk è rimasta fuori o è ormai fuori dalla scena pubblica”.
(Esclusiva: incontro con i separatisti filo-russi dell’Ucraina orientale, Time, 23 aprile)
Gli elementi attivi nell’occupazione di palazzi governativi locali sono relativamente pochi, forse poche migliaia in tutto. Comunque, non è questo il punto. L’elemento più importante dell’equazione è l’atteggiamento della maggioranza della popolazione. Sebbene non vi abbia preso attivamente parte, è chiaro che la maggior parte della popolazione guarda con favore all’insurrezione. Non si ha notizia di grandi dimostrazioni a sostegno del governo di Kiev o di qualche serio tentativo di sgomberare i ribelli dai palazzi occupati. E nell’eventualità di un attacco da parte di forze militari inviate da Kiev questa simpatia passiva potrebbe trasformarsi molto rapidamente in rabbia e sostegno per un intervento militare russo.
Un sondaggio d’opinione, condotto all’inizio di Aprile dall’Istituto Internazionale di Sociologia di Kiev in 8 regioni del Sud e dell’Est dell’Ucraina, dà uno scorcio molto interessante sul sentimento comune tra le masse. In tutte e 8 le regioni il 49,6% considera illegittimo il governo di Yatsenyuk (e un ulteriore 13% lo considera parzialmente illegittimo), con punte del 72% a Donetsk e del 70% a Lugansk. Riguardo alla forma di governo che sceglierebbero per l’Ucraina il 45% si dichiara favorevole ad una decentralizzazione del potere, a questi si aggiunge un 24,8% favorevole al federalismo, e più dell’86% vorrebbe l’elezione diretta dei governatori locali (in contrapposizione all’attuale nomina da Kiev). Riguardo alle relazioni con la Russia e con l’Unione Europea il 42% è favorevole alla creazione di una unione doganale con la Russia (percentuale che sale al 72% a Donetsk e al 64% a Lugansk) contro il 24% favorevole all’integrazione nell’Unione Europea.
Forse però la questione più interessante, che mostra quale potenziale ci sia per un’alternativa di classe, è quella riguardo ai possedimenti degli oligarchi. In tutte e 8 le regioni il 41% dichiara che le proprietà acquisite illegalmente dagli oligarchi dovrebbero essere nazionalizzate, ma un ulteriore 24% dichiara che tutte le proprietà dovrebbero essere nazionalizzate, e solo un misero 4% risponde che la proprietà privata dovrebbe essere rispettata.
Il 19 aprile la rivista Time ha pubblicato quanto segue, il che dà un’idea del sentimento della maggioranza passiva della popolazione:
“Deduk, un avvocato del posto, non ne è così sicura. Seduta su una panchina con suo figlio Stepan ai margini della manifestazione, ha detto che la maggior parte della gente che conosce è ben contenta di tenersi fuori dagli scontri e che se la Russia arrivasse e conquistasse la regione come ha fatto con la Crimea il mese scorso, loro con ogni probabilità si limiterebbero a fare spallucce e ad accettarlo come proprio destino. “La gente si è dimenticata di tutti gli orrori che abbiamo passato sotto Mosca al tempo dell’Unione Sovietica”, ha affermato. “Tutto quello che ricordano è che i salari venivano pagati e che l’assistenza sanitaria era gratuita.””
(Donetsk saluta la crisi ucraina con una scrollata di spalle, Time, 19 aprile)

Cosa vuole Putin?
Gli sconvolgimenti in Ucraina orientale hanno riacceso in Occidente la paura che la Russia possa ripetere quello che è successo con l’annessione della Crimea. La presenza di 40mila soldati russi sul confine non fa che alimentare questi timori, ai quali, se si concretizzassero, l’Occidente non sarebbe in grado di rispondere. La sua impotenza si è palesata in maniera ridicola quando la NATO ha inviato di recente un gran numero di forze, non meno di 600 soldati americani, nei Paesi Baltici! In primo luogo non c’è assolutamente motivo di credere che la Russia abbia intenzione di invadere i Paesi Baltici, e qualora l’avesse è alquanto improbabile che 600 marines, anche qualora fossero tutti Rambo, possano fare la differenza. Questo è un esempio del livello di idiozia diplomatica e militare.
odessa borotba
Una manifestazione dell'organizzazione
di sinistra "Borotba" a Odessa
In ogni caso, sembra probabile che gli obiettivi di Putin siano più limitati e sottili di questo. Infatti le azioni russe non hanno carattere offensivo, ma difensivo. Sin dalla caduta dell’URSS l’imperialismo statunitense ha condotto una strategia a lungo termine volta a sottrarre una dopo l’altra le ex Repubbliche Sovietiche dalla sfera d’influenza russa. Ma ora, nel caso dell’Ucraina, Mosca ha deciso di puntare i piedi. La Russia sta dicendo all’Occidente: “Adesso basta!”. È determinata ad impedire l’uscita dell’Ucraina dalla propria orbita economica e militare.
Gli Americani e l’Unione Europea vogliono prendere il controllo dell’Ucraina, mentre i Russi vogliono mantenerla nella propria sfera d’influenza. L’obiettivo dell’Occidente è più difficile da raggiungere, mentre quello della Russia e di gran lunga più semplice. Non hanno bisogno di invadere l’Ucraina, dal momento che hanno molte altre frecce al proprio arco, specialmente quelle di tipo economico. Al fine di presentare la propria politica in modo ragionevole, il Cremlino ha avanzato quella che sembra una richiesta molto moderata: l’adozione di un sistema federale che conceda molto più potere ai governatori locali in Ucraina.
Una struttura simile indebolirebbe il governo centrale di Kiev e garantirebbe che l’Ucraina non diventerà mai anti-russa. In pratica si tratterebbe di una “finlandizzazione” dell’Ucraina. Qualunque governo arrivasse al potere a Kiev, non potrebbe fare nulla senza tenere in considerazione il punto di vista di Mosca. E non ci sarebbe assolutamente nessuna discussione sul fatto che l’Ucraina non aderirà mai né alla NATO né all’Unione Europea. Per quanto questo esito possa risultare indigesto a Washington e a Bruxelles, al momento è il meglio che possano sperare.

E adesso?
È impossibile prevedere con certezza quello che succederà nelle prossime settimane. La sola cosa certa è che l’imperialismo ha appena subito una sconfitta e non riuscirà a riprendersi.
C’è una serie di possibilità, nessuna delle quali veramente appetibile per l’Occidente. La prima possibilità si basa sull’esito delle prossime elezioni presidenziali. La Russia è già riuscita a destabilizzare in larga misura queste elezioni e a mettere in dubbio la legittimità di chiunque venga eletto. Il nuovo regime sarà debole e sottoposto a forti pressioni da Mosca. Se la Russia non riuscirà ad ottenere un candidato di proprio gradimento, continuerà a premere per una costituzione federale che le permetterà di esercitare il proprio veto sulla politica estera, economica e militare.
Fino ad ora nessun candidato è ufficialmente alleato con Mosca. Mikhail Dobkin, il candidato del Partito delle Regioni (il partito di Yanukovich) potrebbe essere quello preferito da Mosca, ma ha ben poche se non nessuna possibilità di vincere. Dall’altra parte c’è Yulia V. Tymoshenko, che è stata uno dei leader della cosiddetta Rivoluzione Arancione, ma che aveva convenientemente costruito una stretta collaborazione con Putin quando era primo ministro. Fino ad adesso si è tenuta in disparte, ma in futuro potrebbe essere un candidato di “compromesso”.
In ogni caso nessun leader ucraino avrà il coraggio di resistere a Putin, che ha in mano le forniture di petrolio e di gas e 40mila soldati sul confine e un’influenza dominante su gran parte della popolazione ucraina. Inoltre le economie di Russia e Ucraina sono inestricabilmente legate: un terzo delle esportazioni ucraine sono dirette in Russia.
Il secondo possibile esito sarebbe anche peggio per l’Occidente. Se il governo di Kiev non sarà in grado di riprendere il controllo sulle regioni orientali, si potrebbe finire in una situazione simile a quella che si è verificata in Crimea. Se la popolazione delle regioni sud-orientali tenesse un referendum sull’annessione alla Russia, il risultato sarebbe quasi certamente in favore della secessione. Allora l’Ucraina così come la conosciamo cesserebbe di esistere.
I contestatori di Donetsk hanno già annunciato la volontà di indire un tale referendum per l’11 maggio. Tuttavia è significativo che Mosca non abbia immediatamente appoggiato la proposta. Putin si sta comportando con cautela, lasciandosi aperte tutte le strade. Se riuscisse a raggiungere i suoi obiettivi fondamentali senza dover pagare il prezzo di un intervento militare né quello che deriverebbe dal doversi accollare l’economia ucraina in bancarotta, ne sarebbe naturalmente ben contento. Tuttavia la caratteristica instabilità della situazione fa sì che non sia completamente libero di scegliere.
Questo ci porta al terzo esito possibile: un’invasione su vasta scala. Questa eventualità è verosimile? Per mesi i media occidentali hanno montato una campagna propagandistica isterica su una presunta aggressione militare russa in Ucraina. Tuttavia tale aggressione militare fino ad ora non si è concretizzata. Le truppe stanziate sul versante russo del confine sono state impiegate in una serie di manovre, ma niente di più.
Le ultime dichiarazioni di Americani e Russi sembrano suggerire che stiano cercando di raggiungere un compromesso sottobanco. Ieri Putin ha dichiarato che la Russia non ha nessuna intenzione di invadere l’Ucraina. È possibile che si tratti soltanto di un bluff. Prima di ogni guerra i leader dei paesi coinvolti hanno sempre fatto dichiarazioni del genere poco prima di lanciare l’attacco. Comunque in questo caso non ci sono motivi per dubitare della sincerità delle dichiarazioni d’intenti di Vladimir Putin.
In questo momento Putin non ha alcun bisogno di invadere l’Ucraina, dal momento che ha raggiunto il suo obbiettivo principale. Chiunque sia a capo del governo di Kiev deve ora capire molto chiaramente che non potrà fare nulla senza il permesso di Mosca e che tutte le altisonanti dichiarazioni di solidarietà provenienti da Washington e da Bruxelles in pratica non contano nulla quando si trovano a scontrarsi con la Russia.
Comunque, come abbiamo spiegato in articoli precedenti, il dipanarsi della crisi ucraina ha una propria logica che non può essere controllata facilmente né da Kiev, né da Mosca, né da Washington. Più il governo di Kiev si indebolirà, più sarà incline a ricorrere a misure disperate. Di fronte alla possibilità di disintegrazione dell’esercito ucraino, il governo di Kiev ha cominciato a mettere in piedi un corpo armato alternativo. La Guardia Nazionale ha già aumentato le proprie dimensioni con l’integrazione del Gruppo di Autodifesa di Maidan e di altri gruppi armati paramilitari. Come se non bastasse, il Ministro degli Interni ha annunciato la creazione di unità o battaglioni di Autodifesa Territoriale, formati dalla feccia della società ucraina: fascisti, ultranazionalisti, sottoproletari, criminali e ogni tipo di avventurieri che sono pronti a perpetrare le azioni più estreme e brutali che i soldati comuni si rifiutano di compiere. L’ala nazista ha già dichiarato che si unirà al Battaglione Donbas per “combattere i separatisti”.
Questa misura è frutto di una disperazione nata dall’impotenza. Non è difficile immaginare cosa potrebbe arrivare a fare una milizia armata simile se inviata nel Sud-Est dell’Ucraina. Lo spettro della Yugoslavia rialza la sua orribile testa: massacri e pulizia etnica, un’ondata di profughi verso oriente e verso occidente e tutte le inevitabili conseguenze di una guerra civile. In queste condizioni, qualunque potessero essere le intenzioni originarie di Putin, un intervento della Russia diventerebbe inevitabile.

Le conseguenze per la Russia
Un’invasione russa sarebbe davvero rischiosa per Vladimir Putin. Il consenso nei suoi confronti ha superato il 70% dopo l’annessione della Crimea. Ma è stato ottenuto senza violenza e senza la perdita di un solo soldato russo. Il popolo della Crimea ha accolto l’esercito russo come un liberatore e questa immagine è arrivata alla maggioranza della popolazione russa. Dopo decenni di umiliazione nazionale, il popolo russo nella sua totalità ha tirato un sospiro di sollievo. Vladimir Putin potrebbe crogiolarsi al sole dell’approvazione pubblica, almeno per un po’.
La gran parte della sinistra in Russia è in uno stato di profonda depressione. Vede crescere il sentimento nazionalista tra la classe lavoratrice ed è disperata. Ma in generale la sinistra russa è ormai completamente aliena alla classe lavoratrice e incapace di trovare con essa un terreno comune. Non è assolutamente vero che i lavoratori russi siano diventati reazionari perché provano simpatia per i loro fratelli e sorelle oppressi in Ucraina e ostilità per il fascismo ucraino.
Inoltre lo stato d’animo della società può cambiare rapidamente. Nel 1914 lo spirito patriottico in Russia era molto più forte che adesso eppure appena tre anni dopo gli stessi lavoratori che sventolavano la bandiera zarista hanno sventolato la bandiera rossa e combattuto per il potere sovietico.
Sebbene l’esercito russo potrebbe infliggere senza dubbio una pesante sconfitta all’esercito ucraino, la vittoria non sarebbe tanto a buon mercato quanto lo è stata in Crimea. Ci sarebbero molte vittime russe e ci si dovrebbe preparare al peggio. Il revanscismo e l’odio nazionale che sarebbero generati da una guerra simile durerebbero per generazioni e produrrebbero frutti velenosi sottoforma di attacchi terroristici e altre atrocità. L’esperienza della Cecenia insegna che una vittoria militare può avere un prezzo più alto di una sconfitta.
Le conseguenze economiche, non solo per la Russia e l’Ucraina ma per tutto il mondo, sarebbero incalcolabili. La cosiddetta ripresa dell’economia globale è debole e fragile. Il boom febbrile delle Borse è una conseguenza di una sfrenata speculazione finanziaria, non di una solida crescita economica. La bolla speculativa può scoppiare in qualsiasi momento, gettando l’economia mondiale in un profondo abisso. I mercati non sopportano alcun tipo di instabilità e un’invasione russa dell’Ucraina provocherebbe senza dubbio un fuggi fuggi sui mercati finanziari. Il Paese più colpito sarebbe la Russia stessa.
Putin può permettersi di ridere delle pietose “sanzioni” minacciate dalla codarda Unione Europea, ma deve preoccuparsi seriamente della fuga di capitali dai mercati Russi (60miliardi di dollari nel primo trimestre del 2014) e della caduta del rublo. L’economia russa è già in recessione (è calata dello 0,3% nel primo trimestre del 2014). Il costo economico di un’invasione e un brusco crollo dell’economia russa potrebbero ribaltare rapidamente il favore di cui gode presso la popolazione, cosa che gli sta molto a cuore. L’eroe della Crimea si trasformerebbe in un attimo nel responsabile della rovina della Russia. Un crollo economico aprirebbe gli occhi alla classe operaia russa che si libererebbe velocemente dall’intossicazione dei fumi patriottici. Si preparerebbe il terreno per una nuova impennata della lotta di classe in Russia. Questa è la motivazione dell’improvvisa e sorprendente conversione di Putin al “pacifismo”.
Condanniamo il comportamento ipocrita e reazionario dell’imperialismo occidentale in Ucraina. È dettato soltanto dagli interessi personali degli imperialisti statunitensi e dei loro scagnozzi di Bruxelles e di Berlino. Non sono interessati per nulla al destino del popolo ucraino che è soltanto una pedina nei loro cinici calcoli.
Ma sarebbe un grave errore nutrire una qualche illusione in Putin e nella cricca del Cremlino. Stanno sfruttando il legittimo desiderio della popolazione russofona dell’Ucraina sud-orientale per fare pressione sul governo di Kiev. Cercano di tenere sotto controllo l’Ucraina e di proteggere “gli interessi russi”: in poche parole, gli interessi dei grandi capitalisti che hanno devastato la Russia, proprio come gli oligarchi ucraini (parlino essi russo o ucraino) hanno saccheggiato l’Ucraina. La classe lavoratrice non deve sostenere in alcun modo nessuna delle due parti, ma mantenere in ogni momento una posizione di indipendenza di classe.

Nazionalismo o lotta di classe?
Nelle ultime settimane persino la stampa occidentale è stata costretta ad ammettere che mentre il movimento Maidan è composto prevalentemente da elementi della classe media e della piccola borghesia il movimento delle regioni sud-orientali è fondamentalmente un movimento dei lavoratori. Il recente sciopero dei minatori della regione di Donbass è un indicatore del potenziale presente per un’azione di classe indipendente.
Tuttavia la questione nazionale rischia di spaccare il fronte di classe, e c’è la possibilità concreta che il movimento delle regioni sud-orientali venga manipolato da elementi senza scrupoli e oligarchi russofoni che giocheranno la carta della questione nazionale per difendere i propri interessi. Ancora peggio, la minaccia proveniente dai nazionalisti estremisti ucraini, inclusi nazisti e fascisti, può incoraggiare lo sviluppo di tendenze ultranazionaliste russe e di elementi appartenenti al gruppo fascista delle Centurie nere di natura altrettanto inquietante. Non c’è bisogno di dire che qualsiasi tendenza di questo genere è nemica della classe lavoratrice, sia che si trovi sotto la bandiera ucraina sia che si collochi sotto quella russa, ed è necessario opporvisi con ogni mezzo.
La situazione resta estremamente instabile e soggetta a cambiamenti repentini. L’esito finale è incerto. La retorica violenta delle pubblicazioni dei nazionalisti ucraini è in totale contrasto con i rassicuranti discorsi dei diplomatici e con l’accordo di Ginevra. La creazione di una milizia ucraina fascista è una minaccia diretta alla classe operaia. Si sono scatenate dinamiche che non è facile tenere sotto controllo.
Sosteniamo in pieno la necessità del movimento dei lavoratori del Sud-Est dell’Ucraina di armarsi e organizzarsi per difendersi dal governo reazionario di Kiev e dalle bande fasciste che stanno organizzando pogrom sotto la sua protezione. Sosteniamo la necessità che il movimento prenda il controllo del governo locale e cacci via i governatori corrotti e reazionari.
Tuttavia i lavoratori devono restare vigili per assicurarsi che le loro coraggiose azioni non vengano usurpate da elementi borghesi avidi e senza scrupoli che si avvolgono nella bandiera russa per piegare il potere ai propri fini corrotti. Il nostro slogan deve essere: “Basta con gli oligarchi borghesi!”. Non importa se parlano russo o ucraino.
Il movimento rivoluzionario dei lavoratori del Sud-Est dell’Ucraina potrà avere successo solo se si estenderà anche ai lavoratori del resto del Paese. Questo non potrà mai succedere se si limiteranno ad un programma incentrato sul solo nazionalismo russo.
Allo stesso modo in cui la vista dei simboli fascisti e di Bandera a Maidan ha disgustato la popolazione della Crimea e del Sud-Est, così la presenza degli ultranazionalisti russi, dei Cosacchi, degli elementi legate alle Centurie nere in manifestazione con le bandiere dell’impero russo deve preoccupare e disgustare il popolo rivoluzionario nel resto dell’Ucraina. La nostra bandiera non è né quella ucraina né quella della controrivoluzione capitalista russa ma la bandiera rossa di Lenin, la bandiera dell’Ottobre, la bandiera dell’internazionalismo proletario rivoluzionario.
Per questo è un grave errore appellarsi all’intervento russo. Non ci potrebbe essere metodo migliore per allontanare i lavoratori e i contadini che parlano ucraino e gettarli fra le braccia della reazione. La frammentazione del corpo vivo dell’Ucraina non servirebbe né ai lavoratori di Donbass né a quelli di Kiev o di Leopoli. Uno sviluppo del genere sarebbe devastante da tutti i punti di vista e avrebbe enormi conseguenze sia nazionali che internazionali.
La classe operaia del Sud-Est dell’Ucraina parlerà anche russo, ma non ha nessun interesse nella divisione dell’Ucraina, che sarebbe disastrosa per tutti tranne che per un manipolo di ricchi oligarchi e di delinquenti.
È necessario unire tutti i lavoratori dell’Ucraina sulla base di un programma che colleghi le rivendicazioni rivoluzionarie a quelle democratiche, in primis l’espropriazione degli oligarchi. Solo una politica di classe potrà spezzare la follia nazionalista e unificare la classe lavoratrice in una comune battaglia rivoluzionaria.
  • Nessuna guerra tra i popoli, nessuna pace tra le classi!
  • Espropriazione dei possedimenti rubati dagli oligarchi sotto il controllo democratico dei lavoratori!
  • Per un’Ucraina socialista, unita e indipendente!

16.3.14

Un mondo in cerca di governance

Guido Rossi (ilsole24ore)

Si stanno oggi svolgendo le operazioni di referendum in Crimea per decidere il distacco dall'Ucraina e la eventuale adesione alla Federazione Russa, alla quale aveva appartenuto fino al 1954.
Il ricorso alla forma più classica di democrazia diretta, come il referendum, rivela purtroppo, anche in questo drammatico caso, la mancanza di una governance mondiale, poiché l'esito positivo di quel referendum non sarà riconosciuto né dagli Stati Uniti, né dall'Unione Europea.
Il processo di annessione alla Russia ha peraltro caratteristiche sostanziali di natura puramente militare decisamente palesi. Le truppe di Mosca, all'interno della Crimea e ammassate minacciose ai confini dell'Ucraina, non nascondono le intenzioni del Cremlino, in particolare di Putin, di un confronto diretto internazionale con gli Stati Uniti d'America dettato da esigenze di politica militare di dominio, sdegnosa di qualsivoglia diplomazia o mediazione e foriera di possibili pericoli d'ogni genere, da tempo dimenticati in Europa.
A livello internazionale assistiamo dunque all'uso della democrazia attraverso il voto popolare sovrano, suo limitato e spesso erroneo sinonimo, ma sovente, come qui, apparente strumento di legittimazione del potere.
È pur vero che l'uso strumentalmente abusato di forme democratiche, rivelatore di una ricerca costante ancorché di volta in volta diversa, ma di identica matrice, si verifica anche a livello di Unione Europea.

La sovranità popolare è infatti estranea sia all'organo di governo, cioè la Commissione, sia al Consiglio e soprattutto alla Bce, la quale certamente costituisce, come esattamente scrive Etienne Balibar, un tentativo di "rivoluzione dall'alto", nell'epoca in cui potere economico, finanziario e politico non si distinguono più l'uno dall'altro. Eppure sarebbe ben difficile non riconoscere la sovranità di fatto della Bce nella sua determinante influenza sulle politiche economiche degli Stati membri, ad iniziare dalle imposte politiche di austerità e di rigore di bilancio, introdotte poi passivamente anche a livello costituzionale dagli Stati membri.
Nello stesso tempo sono messe a repentaglio l'indipendenza, la legittimazione e la stessa sovranità degli Stati nazione, via via svuotati di identità. E tutto ciò avviene nella totale subordinazione del Parlamento europeo ai poteri esclusivi di iniziativa legislativa della Commissione che ha, in qualche misura, sanzionato la perdita di ogni riscontro democratico da parte di uno dei tre poteri fondamentali, cioè quello legislativo.
Prima di continuare il discorso, sembra purtroppo necessaria una parentesi che dimostra chiaramente il carattere generale di questo deficit di democrazia, globalmente individuabile nell'ambito delle democrazie liberali anche a livello interno dei singoli Stati nazione. Basterà un riferimento, pur trascurando quelli nostrani, agli Stati Uniti d'America, dove un recente editoriale del New York Times dall'inquietante titolo "The Dying Art of Legislating" riporta l'allarmante fenomeno delle dimissioni volontarie dal Congresso di ben 21 membri della Camera e 6 senatori, tutti autorevoli e ben noti per i loro fondamentali contributi all'attività legislativa negli ultimi decenni, i quali motivano le loro dimissioni perché il Congresso non legifera più, sanzionandone, conclude l'articolo, la decadenza del ruolo nella vita della nazione americana.

7.3.14

Ecco il nuovo esecutivo ucraino. Il clan Tymoschenko, i nuovi oligarchi, i neonazisti di Svoboda

Matteo Tacconi  (il manifesto)

Per gli occi­den­tali è il governo legit­timo dell’Ucraina, per Mosca un ese­cu­tivo gol­pi­sta. Ma a pre­scin­dere dai rispet­tivi punti di vista, al momento nei mini­steri di Kiev si sono piaz­zate que­ste per­sone. Chi sono di pre­ciso? Quali le loro bio­gra­fie? A quali cir­coli di potere rispon­dono? Più che da chi rico­pre posi­zioni, si può par­tire da chi non ne ha. È il caso di Vitali Kli­tschko e del suo par­tito, Udar, for­ma­zione cen­tri­sta e filo-occidentale con sta­tus di osser­va­tore nel Par­tito popo­lare euro­peo. Dal quale, assieme alla fon­da­zione Kon­rad Ade­nauer, filia­zione della Cdu tede­sca, ha rice­vuto lezioni di poli­tica e tec­nica par­la­men­tare, scri­veva a dicem­bre Der Spie­gel. Ci si chie­derà come mai Kli­tschko, che ha cer­cato di accre­di­tarsi come guida cari­sma­tica della pro­te­sta, almeno prima che dege­ne­rasse, non ha voluto assu­mere respon­sa­bi­lità di governo. Per qual­che ana­li­sta l’ex pugile, che punta alla pre­si­denza, non intende spor­carsi le mani con i prov­ve­di­menti impo­po­lari che il pac­chetto d’aiuti euro­peo, pronto a essere scon­ge­lato, dovrebbe imporre. In più sta­rebbe emer­gendo una con­trap­po­si­zione sem­pre più mar­cata — ed era pre­ve­di­bile — tra Udar e Bat­ki­v­schyna (Patria), il par­tito di Yulia Tymo­shenko.
La for­ma­zione della pasio­na­ria di Kiev ha fatto incetta di mini­steri, pro­ba­bil­mente sulla base di un ragio­na­mento oppo­sto a quello di Kli­tschko: dimo­strare di sapersi cari­care il paese sulle spalle. A gui­dare la com­pa­gine mini­ste­riale c’è Arse­niy Yatse­niuk, luo­go­te­nente della Tymo­shenko. Nomina scon­tata. Nelle scorse set­ti­mane la evocò anche l’assistente al segre­ta­riato di stato ame­ri­cano, Vic­to­ria Nuland, nel leak in cui si lasciò sfug­gire il «fuck the Eu». Accanto a Yatse­niuk ci sono figure di spicco del par­tito. Pavlo Petrenko è andato alla giu­sti­zia, Mak­sim Bur­bak alle infra­strut­ture e Ostap Seme­rak, con­si­gliere di poli­tica estera del primo mini­stro, sarà un po’ un gran ceri­mo­niere. Un ruolo chiave è quello di Vitali Yarema, ex capo della poli­zia di Kiev. È vice primo mini­stro con delega al law enfor­ce­ment.
Al blocco della Tymo­shenko – lei non avrà cari­che, la piazza ha mugu­gnato – affe­ri­sce anche il mini­stro degli interni Arsen Ava­kov, un tempo alleato dell’ex pre­si­dente Vik­tor Yush­chenko. È di Khar­khiv, la seconda città del paese. La più grande, tra quelle dell’est. Non ha casac­che, invece, il mini­stro degli esteri Andriy Desh­chy­tsia. Ma era stato tra i primi fir­ma­tari di un appello di alcuni diplo­ma­tici ucraini con­tro le repres­sioni di Yanu­ko­vich.
Nella coa­li­zione si deli­nea un ruolo note­vole per l’oligarca Ihor Kolo­moy­sky, numero uno di Pri­vat­Bank, prin­ci­pale isti­tuto di cre­dito del paese. Del cer­chio magico del ban­chiere, tra l’altro appena nomi­nato gover­na­tore di Dne­pro­pe­tro­vsk, fareb­bero parte il mini­stro dell’energia Yuriy Pro­dan (per­so­nag­gio chiac­chie­rato) e quello delle finanze Olek­sandr Shla­pak. Non è un caso, si direbbe, che si siano acca­par­rati due mini­steri così cru­ciali.
Discreta è l’influenza della Myhola Uni­ver­sity di Kiev, acca­de­mia rispet­tata, con respiro occi­den­ta­li­sta. Il mini­stro dell’economia Pavlo She­re­meta e quello dell’educazione Serhiy Kvit hanno inse­gnato lì.
Ristretto, un po’ a sopresa, il peso di Petro Poro­shenko, oli­garca di ten­denza euro­pei­sta. La sua pedina nel governo è Volo­dy­mir Gro­syan, ex sin­daco di Vin­ni­tsa, nell’ovest del paese. È il respon­sa­bile degli affari regio­nali. Una pos­si­bile mossa con cui, dato che Poro­shenko (pure lui di Vin­ni­tsa) è stato anche mini­stro con Yanu­ko­vich, tran­quil­liz­zare la popo­la­zione rus­so­fona. Per quanto pos­si­bile.
Arri­viamo alla destra-destra. A Svo­boda. Gli ultra­na­zio­na­li­sti, bol­lati come por­ta­tori di un verbo estre­mi­sta e anti­se­mita, hanno diversi inca­ri­chi. Olek­sandr Sych è vice primo mini­stro. In pas­sato fece cla­more pro­po­nendo il divieto asso­luto di aborto, per­sino in caso di stu­pro. Svo­boda s’è presa pure l’ambiente e l’agricoltura, con Andriy Mokh­nyk e Ihor Shvaika, due che hanno capeg­giato le pro­te­ste con­tro le licenze sullo shale gas con­cesse da Yanu­ko­vich a com­pa­gnie occi­den­tali.
In quota Svo­boda c’è anche Ihor Tenyukh, ex capo della marina. A lui la difesa. Men­tre Andrei Paru­biy, rite­nuto tra i fon­da­tori di Svo­boda, ma poi acca­sa­tosi presso la Tymo­shenko e da ultimo coor­di­na­tore delle bar­ri­cata di piazza dell’Indipendenza, pre­sie­derà il con­si­glio nazio­nale per la sicu­rezza. Dovrebbe avere come vice Dmy­tro Yarosh, coman­dante di Pra­vyi Sek­tor, le fami­ge­rate bande para­mi­li­tari di estrema destra. A quanto pare non ha ancora assunto l’incarico, ma ciò non toglie che si pro­fila un mono­po­lio della destra radi­cale sulla sicu­rezza. E la cosa ha allar­mato ben più di un osser­va­tore.
Infine, la piazza. Tetyana Chor­no­vol e Yegor Sobo­lev, gior­na­li­sti e atti­vi­sti, gui­de­ranno rispet­ti­va­mente l’anticorruzione e la lustra­zione. È la cam­biale riscossa da Euro­mai­dan per il con­tri­buto alla rivoluzione.

6.3.14

Ritorno all’Ottocento

di Barbara Spinelli  (La Repubblica)

IN PARTE per monotonia abitudinaria, in parte per insipienza e immobilità mentale, continuiamo a parlare dell’intrico ucraino come di un tragico ritorno della guerra fredda. Ritorno tragico ma segretamente euforizzante.
Perché la routine è sempre di conforto per chi ha poche idee e conoscenza. Le parole sono le stesse, e così i duelli e comportamenti: come se solo la strada di ieri spiegasse l’oggi, e fornisse soluzioni.
È una strada fuorviante tuttavia: non aiuta a capire, a agire. Cancella la realtà e la storia ucraina e di Crimea, coprendole con un manto di frasi fuori posto. È sbagliato dire che metà dell’Ucraina - quella insorta in piazza a Kiev - vuole «entrare in Europa». Quale Europa? Nei tumulti hanno svolto un ruolo cruciale - non denunciato a Occidente - forze nazionaliste e neonaziste (un loro leader è nel nuovo governo: il vice Premier). Il mito di queste forze è Stepan Bandera, che nel ’39 collaborò con Hitler.
È sbagliato chiamare l’Est ucraino regioni secessioniste perché «abitate da filorussi ». Non sono filo- russima russi, semplicemente. In Crimea il 60% della popolazione è russa, e il 77% usa il russo come lingua madre (solo il 10% parla ucraino). È mistificante accomunare Nato e Europa: se tanti sognano l’Unione, solo una minoranza aspira alla Nato (una minaccia, per il 40%). Sbagliato è infine il lessico della guerra fredda applicato ai rapporti euro-americani con Mosca, accompagnato dal refrain: è «nostra » vittoria, se Mosca è sconfitta.
Dal presente dramma bellicoso si uscirà con altri linguaggi, altre dicotomie. Con una politica - non ancora tentata - che cessi di identificare i successi democratici con la disfatta della Russia. Che integri quest’ultima senza trattarla come immutabile Stato ostile: con una diplomazia intransigente su punti nodali ma che «rispetti l’onore e la dignità dei singoli Stati, Mosca compresa», come scrive lo studioso russo-americano Andrej Tsygankov. L’Ucraina è una regione più vitale per Mosca che per l’Occidente, e i suoi abitanti russi vanno rassicurati a ogni costo. È il solo modo per esser severi con Mosca e insieme rispettarla, coinvolgerla.
Siamo lontani dunque dalla guerra fredda. Che era complicata, ma aveva due elementi oggi assenti: una certa prevedibilità, garantita dalla dissuasione atomica; e la natura ideologica (oggi si usa l’orrendo aggettivo valoriale) di un conflitto tra Est sovietizzato e liberal-democrazie. Grazie allo spauracchio dell’Urss, Europa e Usa formavano un «occidente » senza pecche, qualsiasi cosa facesse. L’Urss era nemico esistenziale: letteralmente, ci faceva esistere come blocco di idee oltre che di armi.
Questo schema è saltato, finita l’Urss, e l’Est è entrato nell’Unione. Mentre l’Urss crollava un alto dirigente sovietico, Georgij Arbatov, disse: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico ». Non aveva torto, se ancora viviamo quel lutto come orfani riottosi. Ma non è più l’antagonismo ideologico a spingerci. La Russia aspira a Riconquiste come la Nato e Washington. Fa guerre espansive in Cecenia mentre gli Usa, passivamente seguiti dall’Europa, fanno guerre illegali cominciando dall’Iraq e proseguendo con le uccisioni mirate tramite i droni. «Oggi la Russia di Putin e “l’Occidente” condividono un’identica visione basata sulla ricerca di profitto e di potere: in tutto tranne su un punto, e cioè a chi debbano andare profitto e potere», scrive Marco D’Eramo su Pagina 99(25-2-14).
Questo significa che non la guerra fredda torna, ma il vecchio equilibrio tra potenze (balance of power) che regnava in Europa fino al ’45: i Grandi Giochidell’800, in Asia centrale o Balcani. Qui è la perversione odierna, obnubilata. Washington ha giocato per anni con l’idea di spostare la Nato a Est, fino ai confini russi. Più per mantenere in piedi l’ostilità del Cremlino che per aiutare davvero nazioni divenute indipendenti. L’Europa avrebbe potuto essere primo attore, perso il «nemico esistenziale». Non lo è diventata. È un corpo con tante piccole teste, alcune delle quali (Germania per prima) curano propri interessi economico-strategici da soli. Lo scandalo è che nel continente c’è ancora una pax americana opposta alla russa. Una pax europea neppure è pensata.
Eppure una pax simile potrebbe esistere. L’unità europea fu inventata proprio in risposta all’equilibrio delle potenze, per una pace che non fosse una tregua ma un ordine nuovo. L’ombrello Usa ha protetto un pezzo del continente, consentendogli di edificare l’Unione, ma ha viziato gli europei, abituandoli all’indolenza passiva, all’inattività irresponsabile, al mutismo. Finite le guerre fratricide, l’Europa occidentale s’è occupata di economia, pensando che pace-guerra non fosse più di attualità. Lo è invece, atrocemente.
Priva di visioni su una pace attiva, l’Europa cade in errori successivi fin dai tempi dell’allargamento. Allargamento che non definì la pax europea: i paesi dell’Est si liberarono, senza apprendere la libertà. Il poeta russo Brodsky lo disse subito: «La verità è che un uomo liberato non diventa per questo un uomo libero. La liberazione è solo un mezzo per raggiungere la libertà, non è un sinonimo della libertà (...) Se vogliamo svolgere il ruolo di uomini liberi, dobbiamo esser capaci di accettare o almeno imitare il comportamento di una persona libera che conosce lo scacco: una persona libera che fallisce non getta la pietra su nessuno». L’Est si liberò dalle alleanze con Mosca, ma quel che ritrovò, troppo spesso, fu il nazionalismo di prima.
Non a caso molti a Est si misero a difendere la sovranità degli Stati, senza esser contestati. E la «liberazione» criticata da Brodsky risvegliò ataviche passioni mono-etniche, intolleranti del diverso. Si aggravò lo status dei Rom: ridivenuti apolidi. Si riaccesero nazionalismi irredentisti, come nell’Ungheria di Orbán. Nata contro le degenerazioni nazionaliste, L’Europa ammutolì.
Kiev corre gli stessi rischi, proprio perché manca una pax europea che superi le sovranità statali assolute, e la loro fatale propensione bellicosa. Se tanti sono euro- fili ignorando la filosofia dell’Unione, è perché anche l’Unione l’ignora. Bussola resta l’America: lo Stato che meno d’ogni altro riconosce autorità sopra la propria. Oppure il nazionalismo russo. Tra Russia e Usa il rapporto è antagonistico, ma a parole. Nei fatti è un rapporto di rivalità mimetica, di somiglianza inconfessata.
L’Ucraina è una nazione dalle molte etnie, con una storia terribile. Storia di russificazioni forzate, che in Crimea risalgono al ’700: ma oggi i russi che sono lì vanno protetti. Storia di deportazioni in massa di tatari dalla Crimea, che pagarono la collaborazione col nazismo e tornarono negli anni ’90. Storia di una carestia orchestrata da Stalin, e di patti con Hitler su cui non è iniziata alcuna autocritica (il collaborazionista Bandera è un mito, per le destre estreme che hanno pesato nei recenti tumulti). Uno dei più nefasti fallimenti della rivoluzione a Kiev è stata la decisione di abolire la tutela della lingua russa a Est: cosa che ha attizzato paure e risentimenti antichissimi dei cittadini russi, timorosi di trasformarsi in paria inascoltati dal mondo.
Tutte queste etnie convivevano, quando in Europa c’erano gli imperi. Pogrom e Shoah son figli dei nazionalismi. Oggi regnano due potenze dal comportamento imperialista (Usa, Russia), che però non sono imperi multietnici ma nazioni- Stato distruttivi come in passato.
Se l’Europa non trova in sé la vocazione di essere impero senza imperialismo, via d’uscita non c’è. Se non trova il coraggio di dire che mai considererà «filo- europei» neonazisti che si gloriano di un passato russofobo che combatté i liberatori dell’Urss, le guerre nel continente son destinate a ripetersi. Le tante chiese ucraine lo hanno capito meglio degli Stati.

5.3.14

La strana guerra di Andriy dentro la base assediata dai russi

“Combattere? Mica sono matto”
Il fuciliere ucraino e l’ordine di “ far finta di niente”


di Nicola Lombardozzi (la Repubblica)

PEREVALNOE (base della 37esima brigata fanteria della Marina ucraina)- Il fuciliere Andriy è in piena crisi di nervi. Arrampicato su un muro della caserma ammira le evoluzioni di un blindato russo con un suo coetaneo ben saldo sulla torretta: «E da me cosa vorrebbero? Che uscissi fuori a combattere contro questi qui?». Non è mancanza di coraggio, più che altro confusione. La stessa che si è impadronita di centinaia di migliaia di soldati ucraini in questi giorni assurdi divisi tra una rivoluzione ancora troppo fragile e un’invasione in piena regola. Andriy ce l’ha con i suoi amici d’infanzia che lo chiamano continuamente sul telefonino per chiedergli di arrendersi all’esercito amico venuto dall’Est; con i suoi superiori che sono più agitati di lui e non sanno cosa decidere; con quei «maledetti rompipalle» degli ufficiali addetti all’indottrinamento ideologico (antica eredità di tutti gli eserciti sovietici) che continuano invece a ordinargli di ribellarsi, di resistere all’occupazione.
Difficile calmarlo stando dall’altra parte di una parete di più di dieci metri e riuscendo a intravedere solo un paio di occhi da ventenne e un berretto di lana da assaltatore calcato sulla fronte. Andriy è troppo esasperato per fare un discorso lineare, parla senza pause, continua a voltarsi in equilibrio instabile per assicurarsi di non essere ascoltato né da i suoi né dai russi che ci circondano, ma quello che ne viene fuori è un racconto surreale e drammatico di quello che sta succedendo all’interno di questa base a 40 chilometri dal capoluogo Simferopoli, dotata di truppe scelte, autoblinde, pezzi d’artiglieria leggera, insomma il meglio della Difesa ucraina in Crimea.
Tutto è cominciato la mattina di domenica, dopo l’adunata e prima delle esercitazioni quotidiane. I ragazzi della base hanno visto che davanti ai loro cancelli c’erano dei colleghi con armi nuove di zecca, passamontagna sul viso e un armamento invidiabile. «Chi sono questi? Russi? Americani? E noi che dobbiamo fare?». Risposta: «Niente, fate come se non ci fossero ».
La voce di Andrjy si fa stridula: «Capite? Mi addestro da anni per combattere e poi mi ritrovo preso in ostaggio da sconosciuti». Orgoglio da soldato e perplessità da cittadino. Andrjy è anche lui di origine russa come la maggioranza di abitanti della Crimea, detesta «quelli della rivoluzione di Kiev», la sua famiglia abita a Pionerskoe, il primo villaggio a una decina di minuti di marcia da qui. «Loro vanno in piazza ad applaudire l’intervento di Putin. Li capisco e condivido pure. Ma io sono un soldato o no?».
Sul prato tutto intorno una compagnia di soldati russi ha dispiegato camion, blindati e pattuglie armate che perlustrano la valle giorno e notte. Hanno cucine da campo, tende, mense, e attrezzature di un livello che i loro colleghi ucraini non hanno mai visto. Sembra una scorta protettiva più che un assedio. Ma in caserma si fa appunto finta di niente come da ordini. Il comandante ucraino esce di tanto in tanto per andare dalla moglie che abita qui vicino. Passa senza fare una piega tra gli incappucciati che aprono e chiudono i cancelli della sua base, segue su Internet e in tv gli sviluppi internazionali, cerca di rinviare ogni decisione.
E i suoi soldati discutono, domandano, litigano fra di loro. C’è stata pure qualche scazzottata. Anche perché le pressioni non mancano. Tra le camerate qualcuno ha portato un foglio da firmare con il giuramento di fedeltà alla repubblica autonoma di Crimea. Chiede a ogni singolo commilitone di aderire. Andriy non firma: «Ho giurato fedeltà all’intera Ucraina. Tecnicamente è un tradimento ». E poi rimarca un aspetto meno nobile ma fondamentale: «E se poi si mettono tutti d’accordo, a me che succede?».
Ma i partiti sono due. Gli ufficiali specializzati in “indottrinamento”, per natura vicini alle alte sfere della capitale, fanno invece pressioni per aderire alla rivoluzione nazionale. Andrjy sorride nervosamente: «Ti chiamano in disparte, ti dicono che bisogna respingere questo assedio, liberare il territorio della caserma. Loro che sono ufficiali da scrivania dicono a me, soldato semplice, di organizzare un contrattacco. Follia pura».
E non sono pressioni da poco. L’altra sera tra i vialetti della caserma è comparsa perfino la sagoma colossale e baffuta di Oleksandr Kozmuk, per tanti anni ministro della Difesa ucraino. Qualcuno è riuscito a farlo passare beffando la sorveglianza dei russi e della milizia popolare che li affianca, attraverso un cancello laterale conosciuto a pochi. Usando gergo e modi da consumato militare di mestiere, diceva a ognuno di resistere, che qualcuno a Kiev stava studiando un piano per cacciare via i russi e che presto l’operazione sarebbe cominciata. E il nostro fuciliere non riesce proprio a capire: «A parte che io non ho niente contro questi ragazzi venuti dalla Russia, ragioniamo dal punto di vista di pura tecnica militare: ci schiaccerebbero senza nemmeno sforzarsi troppo».
La testa di Andrjy scompare all’improvviso. Alle nostre spalle è arrivata un pattuglia di russi. Restano in silenzio, ma agitano le canne dei fucili verso nord per indicarci cortesemente la strada statale. Da queste parti, per il momento, decidono loro.