Il silenzio del movimento pacifista e l'ipocrisia dei media embedded
Luciana Castellina (il manifesto)
Non voglio parlare nel merito di quanto sta accadendo a Gaza. Non ne voglio scrivere perché provo troppo dolore a dover per l’ennesima volta emettere grida di indignazione, né ho voglia di ridurmi ad auspicare da anima buona il dialogo fra le due parti, esercizio cui si dedicano le belle penne del nostro paese. Come si trattasse di due monelli litigiosi cui noi civilizzati dobbiamo insegnare le buone maniere. Per non dire di chi addirittura invoca le ragioni di Israele, così vilmente attaccata — poveretta — dai terroristi. ( I palestinesi non sono mai «militari» come gli israeliani, loro sono sempre e comunque terroristi, gli altri mai).
Ieri ho sentito a radio Tre, che ricordavo meglio delle altre emittenti, una trasmissione cui partecipavano commentatori davvero indecenti, un giornalista (Meucci o Meotti, non ricordo) che conteggiava le vittime palestinesi: che mascalzonata le menzogne degli antistraeliani, tutti dimentichi dell’Olocausto – protestava. Perchè non è vero che i civili morti ammazzati siano due terzi, tutt’al più un terzo.
E poi il «Foglio» che promuove una manifestazione di solidarietà con le vere vittime: gli israeliani, per l’appunto.
Si può non essere d’accordo con la linea politica di Hamas – e io lo sono — ma chi la critica dovrebbe poi spiegare perché allora né Netanyahu, né alcuno dei suoi predecessori, si sia accordato con l’Olp ( e anzi abbia sempre insidiato ogni tentativo di intesa fra Hamas e Abu Mazen, per mandarla per aria). E però io mi domando: se fossi nata in un campo profughi della Palestina, dopo quasi settant’anni di soprusi, di mortificazioni, di violazione di diritti umani e delle decisioni dell’Onu, dopo decine di accordi regolarmente infranti dall’avanzare dei coloni, a fronte della pretesa di rendere la Palestina tutt’al più un bantustan a macchia di leopardo dove milioni di coloro che vi sono nati non possono tornare, i tanti cui sono state rubate le case dove avevano per secoli vissuto le loro famiglie, dopo tutto questo: che cosa penserei e farei? Io temo che avrei finito per diventare terrorista.
Non perché questa sia una strada giusta e vincente ma perché è così insopportabile ormai la condizione dei palestinesi; così macroscopicamente inaccettabile l’ingiustizia storica di cui sono vittime; così filistea la giustificazione di Israele che si lamenta di essere colpita quando ha fatto di tutto per suscitare odio; così palesemente ipocrita un Occidente (ma ormai anche l’oriente) pronto a mandare ovunque bombardieri e droni e reggimenti con la pretesa di sostenere le decisioni delle Nazioni Unite, e che però mai, dico mai, dal 1948 ad oggi, ha pensato di inviare sia pure una bicicletta per imporre ad Israele di ubbidire alle tante risoluzioni votate nel Palazzo di Vetro che i suoi governi, di destra o di sinistra, hanno regolarmente irriso.
Ma non è di questo che voglio scrivere, so che i lettori di questo giornale non devono essere convinti. Ho preso la penna solo per il bisogno di una riflessione collettiva sul perché, in protesta con quanto accade a Gaza, sono scesi in piazza a Parigi e a Londra, cosa fra l’altro relativamente nuova nelle dimensioni in cui è accaduto, e nel nostro paese non si è andati oltre qualche presidio e volenterose piccole manifestazioni locali, per fortuna Milano, un impegno più rilevante degli altri.
Cosa è accaduto in Italia che su questo problema è stata sempre in prima linea, riuscendo a mobilitare centinaia di migliaia di persone? È forse proprio per questo, perché siamo costretti verificare che quei cortei, arrivati persino attorno alle mura di Gerusalemme (ricordate le «donne in nero»?) non sono serviti a far avanzare un processo di pace, a rendere giustizia? Per sfiducia, rinuncia? Perché noi — il più forte movimento pacifista d’Europa – non siamo riusciti ad evitare le guerre ormai diventate perenni, a far prevalere l’idea che i patti si fanno con l’avversario e non con l’alleato perché l’obiettivo non è prevalere ma intendersi? O perché – piuttosto — non c’è più nel nostro paese uno schieramento politico sufficientemente ampio dotato dell’autorevolezza necessaria ad una mobilitazione adeguata? O perché c’è un governo che è stato votato da tanti che nelle manifestazioni del passato erano al nostro fianco e che però non è stato capace di dire una parola, una sola parola di denuncia in questa tragica circostanza? Un silenzio agghiacciante da parte del ragazzo Renzi che pure ci tiene a far vedere che lui, a differenza dei vecchi politici, è umano e naturale? Privo di emozioni, di capacità di indignazione, almeno quel tanto per farsi sfuggire una frase, un moto di commozione per quei bambini di Gaza massacrati, nei suoi tanti accattivanti virtuali colloqui con il pubblico? È perché non prova niente, o perché pensa che le sorti dell’Italia e del mondo dipendano dal fatto che la muta Mogherini assurga al posto di ministro degli esteri dell’Unione Europea? E se sì, per far che?
Di questo vorrei parlassimo. Io non ho risposte. E non perché pensi che in Italia non c’è più niente da fare. Io non sono, come invece molti altri, così pessimista sul nostro paese. E anzi mi arrabbio quando, dall’estero, sento dire: «O diomio l’Italia come è finita», e poi si parla solo di quello che fa il governo e non ci si accorge che c’è ancora nel nostro paese una politicizzazione diffusa, un grande dinamismo nell’iniziativa locale, nell’associazionismo, nel volontariato.
Negli ultimi giorni sono stata a Otranto, al campeggio della «Rete della conoscenza» (gli studenti medi e universitari di sinistra). Tanti bravi ragazzi, nemmeno abbronzati sebbene ai bordi di una spiaggia, perché impegnati tutto il giorno in gruppi di lavoro, alle prese con i problemi della scuola, ma per nulla corporativi, aperti alle cose dell’umanità, ma certo privi di punti di riferimento politici generali, senza avere alle spalle analisi e progetti sul e per il mondo, come era per la mia generazione, e perciò vittime inevitabili della frammentazione. Poi ho partecipato a Villa Literno alla bellissima celebrazione del venticinquesimo anniversario della morte di Jerry Maslo, organizzata dall’Arci, che da quando, nel 1989, il giovane sudafricano, anche lui schiavo nei campi del pomodoro, fu assassinato ha via via sviluppato un’iniziativa costante, di supplenza si potrebbe dire, rispetto a quanto avrebbero dovuto fare le istituzioni: villaggi di solidarietà nei luoghi di maggior sfruttamento, volontariato faticoso per dare ai giovani neri magrebini e subsahariani, poi provenienti dall’est, l’appoggio umano sociale e politico necessario.
Parlo di queste due cose perchè sono quelle che ho visto negli ultimi giorni coi miei occhi, ma potrei aggiungere tante altre esperienze, fra queste certamente quanto ha costruito la lista Tsipras, che ha reso stabile, attraverso i comitati elettorali che non si sono sciolti dopo il voto, una inedita militanza politica diffusa sul territorio.
E allora perché non riusciamo a dare a tutto quello che pure c’è capacità di incidere, di contare?
Certo, molte delle risposte le conosciamo: la crescente irrilevanza della politica, il declino dei partiti, eccetera eccetera. Non ho scritto perché ho ricette, e nemmeno perché non conosca già tante delle risposte. Ho scritto solo per condividere la frustrazione dell’impotenza, per non abituarsi alla rassegnazione, per aiutarci l’un l’altro «a cercare ancora».
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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30.7.14
Perché Gaza è sola?
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13.7.14
La realtà di Gaza e le illusioni israeliane
Gideon Levy (giornalista israeliano. Scrive per il quotidiano Ha’aretz. Internazionale)
In seguito al rapimento e all’uccisione di tre ragazzi israeliani nei Territori occupati, Israele ha arrestato in maniera indiscriminata circa cinquecento palestinesi, tra cui alcuni parlamentari e decine di ex detenuti già scarcerati che non avevano alcun legame con il sequestro. L’esercito israeliano ha seminato il terrore in tutta la Cisgiordania con retate e arresti di massa allo scopo dichiarato di “schiacciare Hamas”.
Su internet ha imperversato una campagna razzista in seguito alla quale un adolescente palestinese è stato bruciato vivo. Tutto questo dopo che Israele aveva intrapreso un’offensiva contro il tentativo di creare un governo di unità palestinese che il mondo era pronto a riconoscere, aveva violato l’impegno a scarcerare dei detenuti, aveva congelato la via diplomatica e aveva rifiutato di proporre un piano alternativo per continuare il dialogo.
Pensavamo davvero che i palestinesi avrebbero accettato tutto questo in modo remissivo, obbediente e calmo, e che nelle città israeliane avrebbero continuato a regnare la pace e la tranquillità?
Cosa credevamo, noi israeliani? Che Gaza sarebbe vissuta per sempre all’ombra dell’arbitrio di Israele (e dell’Egitto), alternando momenti di lieve allentamento delle restrizioni imposte ai suoi abitanti a momenti di penoso inasprimento? Che il carcere più vasto del mondo sarebbe continuato a essere un carcere? Che centinaia di migliaia di residenti a Gaza sarebbero rimasti tagliati fuori per sempre? Che sarebbero state bloccate le esportazioni e decretate limitazioni alla pesca? Ma di cosa deve vivere un milione e mezzo di persone? Qualcuno sa spiegare perché prosegue il blocco, benché parziale, di Gaza? Qualcuno sa spiegare perché del suo futuro non si discute mai? Credevamo davvero che tutto sarebbe andato avanti come prima e che Gaza l’avrebbe accettato passivamente? Chiunque lo abbia creduto è stato vittima di un pericoloso delirio, e adesso il prezzo lo stiamo pagando tutti.
Però, per favore, non mostratevi stupiti. Non ricominciate a gridare che i palestinesi fanno piovere missili sulle città israeliane senza motivo: certi lussi non sono più ammissibili. Il terrore che provano adesso i cittadini israeliani non è più grande del terrore che hanno provato le centinaia di migliaia di palestinesi vissuti per settimane nell’attesa che nel bel mezzo della notte i soldati gli sfondassero le porte e gli invadessero le case per perquisire, smantellare, distruggere, umiliare e poi magari portarsi via un membro della famiglia.
La paura che stiamo vivendo noi israeliani non è più grande di quella vissuta dai bambini e dagli adolescenti palestinesi, alcuni dei quali sono stati uccisi inutilmente in queste ultime settimane dall’esercito d’Israele. La trepidazione che provano gli israeliani è sicuramente minore di quella che provano gli abitanti di Gaza, che non hanno allarmi rossi né rifugi né un sistema antimissile come Iron dome che li salvi, ma soltanto centinaia di terrificanti incursioni dell’aviazione militare israeliana che si concludono con la devastazione e la morte di innocenti, compresi anziani, donne e bambini: ne sono già stati uccisi durante l’operazione in corso, come durante tutte quelle che l’hanno preceduta.
Quest’operazione ha già un nome puerile, Protective edge, Margine di protezione. Ma l’operazione Protective edge è cominciata e si concluderà come tutte le precedenti, cioè senza assicurarci né la protezione né il margine. I mezzi d’informazione e l’opinione pubblica israeliani esigono il sangue dei palestinesi e la loro distruzione, e il centrosinistra è d’accordo, naturalmente, così come è sempre d’accordo all’inizio. Il seguito, però, è già scritto da un pezzo nelle cronache di tutte le operazioni insensate e sanguinarie condotte a Gaza in ogni epoca. Stupisce, semmai, che da un’operazione militare all’altra sembra che nessuno impari niente. L’unica cosa che cambia sono le armi impiegate.
È vero che inizialmente il primo ministro Benjamin Netanyahu ha reagito con moderazione, e per questo è stato debitamente elogiato, ma certo neanche lui poteva starsene fermo davanti ai missili sparati da Gaza. Comunque tutti sanno che Netanyahu non aveva alcun interesse a questo scontro.
Ma le cose stanno proprio così? Se davvero lo scontro non gli interessava, avrebbe dovuto perseguire seriamente delle trattative diplomatiche. Invece non l’ha fatto, quindi è chiaro che in realtà gli interessava eccome. Il suo quotidiano, Israel Hayom (“Israele oggi”), è uscito con titoli strillati: “Vai fino in fondo”. Ma Israele non raggiungerà mai il pazzesco “fondo” auspicato da Israel Hayom, e comunque non certo con la forza.
“Non c’è modo di sfuggire al castigo per ciò che sta succedendo qui da quasi cinquant’anni”, ha dichiarato lo scrittore David Grossman in occasione della Conferenza israeliana sulla pace, che si è aperta a Tel Aviv l’8 luglio. Queste parole sono state pronunciate solo poche ore prima che l’ultimo castigo nella lunga catena di delitti e castighi si abbattesse sui civili israeliani, così innocenti e senza colpa.
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3.6.10
Grossman: "Un atto criminale che riaccende odio e vendette"
(David Grossman, scrittore israeliano, nel 2006, ha perso un figlio arruolato nell'esercito di Israele)
Nessuna spiegazione può giustificare o mascherare il crimine commesso da Israele [ndr: assalto dell'esercito israeliano ad una nave di pacifisti che ha causato 9 vittime tra i civili impegnati a portar soccorso ai palestinesi] e nessun pretesto può motivare l'idiozia del suo governo e del suo esercito. Israele non ha inviato i suoi soldati a uccidere civili a sangue freddo, in pratica era l'ultima cosa che voleva che accadesse, eppure una piccola organizzazione turca, dall'ideologia fanatica e religiosa, ostile a Israele, ha arruolato alcune centinaia di pacifisti ed è riuscita a fare cadere lo Stato ebraico in una trappola proprio perché sapeva come avrebbe reagito e fino a che punto era condannato, come una marionetta, a fare ciò che ha fatto.
Quanto deve sentirsi insicura, confusa e spaventata una nazione per comportarsi come ha fatto Israele! Ricorrendo a un uso esagerato della forza (malgrado aspirasse a limitare la portata della reazione dei presenti sulla nave) ha ucciso e ferito civili al di fuori delle proprie acque territoriali comportandosi come una masnada di pirati. È chiaro che queste mie parole non esprimono assolutamente consenso alle motivazioni, nascoste o evidenti - e talvolta malvagie - di alcuni dei partecipanti al convoglio diretto a Gaza. Non tutti sono pacifisti animati da intenzioni umanitarie e le dichiarazioni di alcuni di loro riguardanti la distruzione dello stato di Israele sono infami. Ma tutto questo ora è irrilevante: queste opinioni non prevedono, per quanto si sappia, la pena di morte.
L'azione compiuta da Israele ieri sera non è che la continuazione del prolungato e ignobile blocco alla striscia di Gaza, il quale, a sua volta, non è che il prosieguo naturale dell'approccio aggressivo e arrogante del governo israeliano, pronto a rendere impossibile la vita di un milione e mezzo di innocenti nella striscia di Gaza pur di ottenere la liberazione di un unico soldato tenuto prigioniero, per quanto caro e amato. Il blocco è anche la continuazione naturale di una linea politica fossilizzata e goffa che a ogni bivio decisionale e ogni qualvolta servono cervello, sensibilità e creatività, ricorre a una forza enorme, esagerata, come se questa fosse l'unica scelta possibile.
E in qualche modo tutte queste stoltezze - compresa l'operazione assurda e letale di ieri notte - sembrano far parte di un processo di corruzione che si fa sempre più diffuso in Israele. Si ha la sensazione che le strutture governative siano unte, guaste. Che forse, a causa dell'ansia provocata dalle loro azioni, dai loro errori negli ultimi decenni, dalla disperazione di sciogliere un nodo sempre più intricato, queste strutture divengano sempre più fossilizzate, sempre più refrattarie alle sfide di una realtà complessa e delicata, che perdano la freschezza, l'originalità e la creatività che un tempo le caratterizzavano, che caratterizzavano tutto Israele. Il blocco della striscia di Gaza è fallito. È fallito già da quattro anni.
Non solo tale blocco è immorale, non è nemmeno efficace, non fa che peggiorare la situazione, come abbiamo potuto constatare in queste ore, e danneggia gravemente anche Israele. I crimini dei leader di Hamas che tengono in ostaggio Gilad Shalit da quattro anni a questa parte senza che abbia ricevuto nemmeno una visita dai rappresentanti della Croce Rossa, che hanno lanciato migliaia di razzi verso i centri abitati israeliani, vanno affrontati per vie legali, con ogni mezzo giuridico a disposizione di uno stato. Il prolungato isolamento di una popolazione civile non è uno di questi mezzi. Vorrei poter credere che il trauma per la sconsiderata azione di ieri ci porti a riesaminare tutta questa idea del blocco e a liberare finalmente i palestinesi dalla loro sofferenza e Israele da questa macchia. Ma la nostra esperienza in questa regione sciagurata ci insegna che accadrà invece il contrario: che i meccanismi della violenza, della rappresaglia e il cerchio della vendetta e dell'odio ieri hanno ricominciato a girare e ancora non possiamo immaginare con quale forza.
Ma più di ogni altra cosa questa folle operazione rivela fino a che punto è arrivato Israele. Non vale la pena di sprecare parole. Chi ha occhi per vedere capisce e sente. Non c'è dubbio che entro poche ore ci sarà chi si affretterà a trasformare il senso di colpa (naturale e giustificato) di molti israeliani, in vocianti accuse a tutto il mondo.
Con la vergogna, comunque, faremo un po' più fatica a venire a patti.
Traduzione dall'ebraico di A. Shomroni
Nessuna spiegazione può giustificare o mascherare il crimine commesso da Israele [ndr: assalto dell'esercito israeliano ad una nave di pacifisti che ha causato 9 vittime tra i civili impegnati a portar soccorso ai palestinesi] e nessun pretesto può motivare l'idiozia del suo governo e del suo esercito. Israele non ha inviato i suoi soldati a uccidere civili a sangue freddo, in pratica era l'ultima cosa che voleva che accadesse, eppure una piccola organizzazione turca, dall'ideologia fanatica e religiosa, ostile a Israele, ha arruolato alcune centinaia di pacifisti ed è riuscita a fare cadere lo Stato ebraico in una trappola proprio perché sapeva come avrebbe reagito e fino a che punto era condannato, come una marionetta, a fare ciò che ha fatto.
Quanto deve sentirsi insicura, confusa e spaventata una nazione per comportarsi come ha fatto Israele! Ricorrendo a un uso esagerato della forza (malgrado aspirasse a limitare la portata della reazione dei presenti sulla nave) ha ucciso e ferito civili al di fuori delle proprie acque territoriali comportandosi come una masnada di pirati. È chiaro che queste mie parole non esprimono assolutamente consenso alle motivazioni, nascoste o evidenti - e talvolta malvagie - di alcuni dei partecipanti al convoglio diretto a Gaza. Non tutti sono pacifisti animati da intenzioni umanitarie e le dichiarazioni di alcuni di loro riguardanti la distruzione dello stato di Israele sono infami. Ma tutto questo ora è irrilevante: queste opinioni non prevedono, per quanto si sappia, la pena di morte.
L'azione compiuta da Israele ieri sera non è che la continuazione del prolungato e ignobile blocco alla striscia di Gaza, il quale, a sua volta, non è che il prosieguo naturale dell'approccio aggressivo e arrogante del governo israeliano, pronto a rendere impossibile la vita di un milione e mezzo di innocenti nella striscia di Gaza pur di ottenere la liberazione di un unico soldato tenuto prigioniero, per quanto caro e amato. Il blocco è anche la continuazione naturale di una linea politica fossilizzata e goffa che a ogni bivio decisionale e ogni qualvolta servono cervello, sensibilità e creatività, ricorre a una forza enorme, esagerata, come se questa fosse l'unica scelta possibile.
E in qualche modo tutte queste stoltezze - compresa l'operazione assurda e letale di ieri notte - sembrano far parte di un processo di corruzione che si fa sempre più diffuso in Israele. Si ha la sensazione che le strutture governative siano unte, guaste. Che forse, a causa dell'ansia provocata dalle loro azioni, dai loro errori negli ultimi decenni, dalla disperazione di sciogliere un nodo sempre più intricato, queste strutture divengano sempre più fossilizzate, sempre più refrattarie alle sfide di una realtà complessa e delicata, che perdano la freschezza, l'originalità e la creatività che un tempo le caratterizzavano, che caratterizzavano tutto Israele. Il blocco della striscia di Gaza è fallito. È fallito già da quattro anni.
Non solo tale blocco è immorale, non è nemmeno efficace, non fa che peggiorare la situazione, come abbiamo potuto constatare in queste ore, e danneggia gravemente anche Israele. I crimini dei leader di Hamas che tengono in ostaggio Gilad Shalit da quattro anni a questa parte senza che abbia ricevuto nemmeno una visita dai rappresentanti della Croce Rossa, che hanno lanciato migliaia di razzi verso i centri abitati israeliani, vanno affrontati per vie legali, con ogni mezzo giuridico a disposizione di uno stato. Il prolungato isolamento di una popolazione civile non è uno di questi mezzi. Vorrei poter credere che il trauma per la sconsiderata azione di ieri ci porti a riesaminare tutta questa idea del blocco e a liberare finalmente i palestinesi dalla loro sofferenza e Israele da questa macchia. Ma la nostra esperienza in questa regione sciagurata ci insegna che accadrà invece il contrario: che i meccanismi della violenza, della rappresaglia e il cerchio della vendetta e dell'odio ieri hanno ricominciato a girare e ancora non possiamo immaginare con quale forza.
Ma più di ogni altra cosa questa folle operazione rivela fino a che punto è arrivato Israele. Non vale la pena di sprecare parole. Chi ha occhi per vedere capisce e sente. Non c'è dubbio che entro poche ore ci sarà chi si affretterà a trasformare il senso di colpa (naturale e giustificato) di molti israeliani, in vocianti accuse a tutto il mondo.
Con la vergogna, comunque, faremo un po' più fatica a venire a patti.
Traduzione dall'ebraico di A. Shomroni
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14.1.09
A Gaza, tra macerie e rabbia
Lorenzo Cremonesi
Reportage dall’inferno di uno dei pochi inviati presenti nella striscia, perché documentare è importante.
Entriamo verso le 14.00 con il bus egiziano scalcagnato dal posto di frontiera a Rafah. C'è un'atmosfera tesissima, Israele per tutta la mattina ha bombardato i tunnel lungo il confine. I caccia nel cielo, il fischio, lo scoppio, profondo, terrificante. Alcune bombe sono cadute poche decine di metri da qui, infrangendo parte delle vetrate al terminal egiziano. Sul bus siamo in due. L'altro passeggero è un dottore palestinese che rientra a casa. Dall'altra parte, in «Hamasland », non ci sono sentinelle armate, solo un paio di uomini barbuti con vestiti bruni impolverati che parlano al walkie talkie.
Per lasciare il terminal ci si muove in ambulanza: tutti, indistintamente. Le strade sono vuote. Solo tre vecchie Mercedes lungo i quattro chilometri che portano all'ospedale europeo nella zona palestinese di Rafah. Qui è la regione dei tunnel, la più colpita dagli israeliani. Chi può se ne sta ben lontano. Molte case sono abbandonate, alcuni capannoni sono chiusi, serrati. Si notano invece molti carretti tirati da muli, non utilizzano benzina (ora costa un dollaro e mezzo al litro, il triplo di un mese fa). La maggioranza dei negozi è chiusa, ma dicono che qui le scuole sono aperte di mattina e a ogni tregua i contadini tornano a lavorare nei campi, anche quelli più a rischio.
L'entrata all'ospedale è accompagnata dal grido corale « shahìd, shahìd » (martire). Sono due barelle arrossate di sangue e sopra due morti. Uomini, giovani, il cervello che cola dalla testa. Alcune donne vestite di nero, il volto scoperto, invocano Allah, piangono. Quando vedono un giornalista occidentale inveiscono contro Israele e i suoi «crimini nazisti ». Seguono alcuni feriti, almeno sei. Uno è scosso da tremiti continui. Anche lui ferito alla testa. Il volto è irriconoscibile, il naso aperto, gli occhi sbarrati.
Oggi Israele ha colpito duro i villaggi della zona sud orientale, quelli che guardano al deserto del Negev. Risuonano continuamente i nomi di due località: Abasan e Kuza, rispettivamente 25.000 e 16.000 abitanti. «Praticamente tutte le vittime gravi delle ultime ventiquattro ore vengono da quei due villaggi. Il nostro ospedale manda i casi più difficili all'ospedale più importante, il "Nasser" di Khan Yunis », spiega Kamal Mussa, direttore amministrativo dell'istituto.
Qui regna il caos. I guardiani lasciano entrare tutti al pronto soccorso. I medici appaiono professionali, molti di loro hanno studiato all'estero, al Cairo, ma anche in Italia, Francia e negli Stati Uniti. Non mancano medicinali, né macchinari. Pure la folla è troppa, il pronto soccorso ne è sommerso. «Gli israeliani non hanno umanità, sparano nel mucchio, non distinguono tra soldati e civili, mirano ai bambini, sparano sulle case», gridano i membri dei clan tribali più colpiti, i Qodeh e Argelah.
Un dato sembra evidente, almeno per il sud di Gaza: non c'è malnutrizione. Nonostante l'aumento dei prezzi, la mancanza di alcuni generi alimentari, il blocco dei movimenti, a Gaza nessuno muore di fame. «La situazione è molto peggiore nei grandi campi profughi più a nord, come quello di Jabaliah. Ma qui nel sud il cibo non manca», dice Saber Sarafandi, dottore internista di 30 anni. Lui e il suo collega infermiere, Mohammad Lafi, appena tornato da un lungo corso di perfezionamento negli Stati Uniti, a New Orleans, sono evidentemente dei moderati. Hanno ben poco da spartire con la cultura della guerra santa e del fondamentalismo islamico propagandata da Hamas. Anzi, guardano con un certo fastidio ai ragazzi dalla barba lunga e l'uniforme nera che si muovono nell'atrio dell'accettazione. Eppure di un fatto sono convinti: «E' vero che Hamas ha rotto la tregua e ha fatto precipitare l'inizio dei combattimenti il 27 dicembre. Ma Israele ci stava prendendo per il collo, non avevano alternativa. I fatti gravi non sono neppure tanto gli omicidi mirati, perpetrati da Israele anche ai tempi della tregua. Sono piuttosto il sigillare Gaza come una grande prigione. La scelta di Hamas è stata tra l'essere uccisi a fuoco lento, oppure velocemente nella guerra. E hanno giustamente scelto lo scontro subito, un grido al mondo. E così facendo sta catturando le simpatie della popolazione. Hamas è oggi più forte che mai tra la nostra gente». Alle sette di sera cala il buio. Non c'è illuminazione pubblica. Le finestre delle abitazioni sono serrate. E' allora che un'ambulanza nuova fiammante, appena arrivata dall'Egitto, offre un passaggio per l'ospedale centrale di Khan Yunis. Il viaggio nella notte più nera prende meno di venti minuti. Le strade sono semivuote, ma comunque più popolate del pomeriggio. Si vedono soprattutto giovani uomini, apparentemente disarmati. Per un secondo il mezzo si ferma a raccogliere un medico che porta con sé un bambino di quattro giorni. Vicino c'è una botteguccia che vende bombole di gas da cucina. «Sono diventate una rarità — spiega Amal, l'ambulanziere —. Prima costavano 35 shequel israeliani, adesso superano i 400». Così ci si industria a cercare legna da ardere per cucinare sul pavimento.
Il «Nasser» è presidiato da centinaia di ragazzi. Tanti perdono tempo, si sentono importanti a contare i morti. Tanti altri sono però palesemente militanti di Hamas, che guardano con un misto di sospetto e curiosità ogni occidentale che entra. E' il direttore amministrativo del «Nasser», We'am Fares, a fornire nel dettaglio le cifre della guerra. Sul muro dietro la sua scrivania c'è la foto di Yasser Arafat e frasi del Corano incorniciate. Tutti i 350 letti dell'ospedale sono occupati. «Solo oggi abbiamo ricevuto 12 morti e 48 feriti di età comprese tra i 13 e 75 anni. Dal 27 dicembre i morti da noi sono stati 680, i feriti curati 183, tra tutti almeno il 35 per cento sono bambini minori di 14 anni ».
Appare invece difficilissimo trovare risposte certe all'uso delle bombe al fosforo. Gli israeliani le hanno utilizzate o no, è possibile vedere qualche ferito?
«Certo che le hanno usate, contro tutte le convenzioni internazionali. Qui a Khan Yunis abbiamo contato almeno 18 feriti e 7 morti», dicono all'unisono medici e infermieri. C'è un problema però: «Non si possono vedere. Tutti i feriti da armi al fosforo sono già stati trasferiti all'estero, specie in Egitto e Qatar». Resta vago anche Christophe Oberlin, un chirurgo di Parigi arrivato 3 giorni fa per conto del governo francese: «Io personalmente non ne ho visti di feriti da fosforo e non so se potrei davvero distinguerli dagli altri feriti, non sono un medico di guerra». Però di un fatto è sicuro: «Gli israeliani dicono che solo il 30 per cento delle vittime palestinesi sono civili. Questa è una palese menzogna, sono pronto a testimoniarlo davanti a qualsiasi tribunale internazionale. È vero il contrario: almeno l'80 per cento delle vittime sono bambini, anche piccolissimi, donne, anziani. Qui si sta sparando contro la società civile senza porsi troppi problemi. E le ferite che ho visto sono orribili. Moltissimi dei pazienti muoiono sotto i ferri». Verso le dieci di sera arrivano altre ambulanze cariche di feriti. Una scena carica di dolore, alleviata solo dal grande sorriso di Asma, una bambina di 10 anni ferita al torace, ma che parla veloce, quasi allegra e promette che da grande andrà all'università.
Corriere (eddyburg.it)
Reportage dall’inferno di uno dei pochi inviati presenti nella striscia, perché documentare è importante.
Entriamo verso le 14.00 con il bus egiziano scalcagnato dal posto di frontiera a Rafah. C'è un'atmosfera tesissima, Israele per tutta la mattina ha bombardato i tunnel lungo il confine. I caccia nel cielo, il fischio, lo scoppio, profondo, terrificante. Alcune bombe sono cadute poche decine di metri da qui, infrangendo parte delle vetrate al terminal egiziano. Sul bus siamo in due. L'altro passeggero è un dottore palestinese che rientra a casa. Dall'altra parte, in «Hamasland », non ci sono sentinelle armate, solo un paio di uomini barbuti con vestiti bruni impolverati che parlano al walkie talkie.
Per lasciare il terminal ci si muove in ambulanza: tutti, indistintamente. Le strade sono vuote. Solo tre vecchie Mercedes lungo i quattro chilometri che portano all'ospedale europeo nella zona palestinese di Rafah. Qui è la regione dei tunnel, la più colpita dagli israeliani. Chi può se ne sta ben lontano. Molte case sono abbandonate, alcuni capannoni sono chiusi, serrati. Si notano invece molti carretti tirati da muli, non utilizzano benzina (ora costa un dollaro e mezzo al litro, il triplo di un mese fa). La maggioranza dei negozi è chiusa, ma dicono che qui le scuole sono aperte di mattina e a ogni tregua i contadini tornano a lavorare nei campi, anche quelli più a rischio.
L'entrata all'ospedale è accompagnata dal grido corale « shahìd, shahìd » (martire). Sono due barelle arrossate di sangue e sopra due morti. Uomini, giovani, il cervello che cola dalla testa. Alcune donne vestite di nero, il volto scoperto, invocano Allah, piangono. Quando vedono un giornalista occidentale inveiscono contro Israele e i suoi «crimini nazisti ». Seguono alcuni feriti, almeno sei. Uno è scosso da tremiti continui. Anche lui ferito alla testa. Il volto è irriconoscibile, il naso aperto, gli occhi sbarrati.
Oggi Israele ha colpito duro i villaggi della zona sud orientale, quelli che guardano al deserto del Negev. Risuonano continuamente i nomi di due località: Abasan e Kuza, rispettivamente 25.000 e 16.000 abitanti. «Praticamente tutte le vittime gravi delle ultime ventiquattro ore vengono da quei due villaggi. Il nostro ospedale manda i casi più difficili all'ospedale più importante, il "Nasser" di Khan Yunis », spiega Kamal Mussa, direttore amministrativo dell'istituto.
Qui regna il caos. I guardiani lasciano entrare tutti al pronto soccorso. I medici appaiono professionali, molti di loro hanno studiato all'estero, al Cairo, ma anche in Italia, Francia e negli Stati Uniti. Non mancano medicinali, né macchinari. Pure la folla è troppa, il pronto soccorso ne è sommerso. «Gli israeliani non hanno umanità, sparano nel mucchio, non distinguono tra soldati e civili, mirano ai bambini, sparano sulle case», gridano i membri dei clan tribali più colpiti, i Qodeh e Argelah.
Un dato sembra evidente, almeno per il sud di Gaza: non c'è malnutrizione. Nonostante l'aumento dei prezzi, la mancanza di alcuni generi alimentari, il blocco dei movimenti, a Gaza nessuno muore di fame. «La situazione è molto peggiore nei grandi campi profughi più a nord, come quello di Jabaliah. Ma qui nel sud il cibo non manca», dice Saber Sarafandi, dottore internista di 30 anni. Lui e il suo collega infermiere, Mohammad Lafi, appena tornato da un lungo corso di perfezionamento negli Stati Uniti, a New Orleans, sono evidentemente dei moderati. Hanno ben poco da spartire con la cultura della guerra santa e del fondamentalismo islamico propagandata da Hamas. Anzi, guardano con un certo fastidio ai ragazzi dalla barba lunga e l'uniforme nera che si muovono nell'atrio dell'accettazione. Eppure di un fatto sono convinti: «E' vero che Hamas ha rotto la tregua e ha fatto precipitare l'inizio dei combattimenti il 27 dicembre. Ma Israele ci stava prendendo per il collo, non avevano alternativa. I fatti gravi non sono neppure tanto gli omicidi mirati, perpetrati da Israele anche ai tempi della tregua. Sono piuttosto il sigillare Gaza come una grande prigione. La scelta di Hamas è stata tra l'essere uccisi a fuoco lento, oppure velocemente nella guerra. E hanno giustamente scelto lo scontro subito, un grido al mondo. E così facendo sta catturando le simpatie della popolazione. Hamas è oggi più forte che mai tra la nostra gente». Alle sette di sera cala il buio. Non c'è illuminazione pubblica. Le finestre delle abitazioni sono serrate. E' allora che un'ambulanza nuova fiammante, appena arrivata dall'Egitto, offre un passaggio per l'ospedale centrale di Khan Yunis. Il viaggio nella notte più nera prende meno di venti minuti. Le strade sono semivuote, ma comunque più popolate del pomeriggio. Si vedono soprattutto giovani uomini, apparentemente disarmati. Per un secondo il mezzo si ferma a raccogliere un medico che porta con sé un bambino di quattro giorni. Vicino c'è una botteguccia che vende bombole di gas da cucina. «Sono diventate una rarità — spiega Amal, l'ambulanziere —. Prima costavano 35 shequel israeliani, adesso superano i 400». Così ci si industria a cercare legna da ardere per cucinare sul pavimento.
Il «Nasser» è presidiato da centinaia di ragazzi. Tanti perdono tempo, si sentono importanti a contare i morti. Tanti altri sono però palesemente militanti di Hamas, che guardano con un misto di sospetto e curiosità ogni occidentale che entra. E' il direttore amministrativo del «Nasser», We'am Fares, a fornire nel dettaglio le cifre della guerra. Sul muro dietro la sua scrivania c'è la foto di Yasser Arafat e frasi del Corano incorniciate. Tutti i 350 letti dell'ospedale sono occupati. «Solo oggi abbiamo ricevuto 12 morti e 48 feriti di età comprese tra i 13 e 75 anni. Dal 27 dicembre i morti da noi sono stati 680, i feriti curati 183, tra tutti almeno il 35 per cento sono bambini minori di 14 anni ».
Appare invece difficilissimo trovare risposte certe all'uso delle bombe al fosforo. Gli israeliani le hanno utilizzate o no, è possibile vedere qualche ferito?
«Certo che le hanno usate, contro tutte le convenzioni internazionali. Qui a Khan Yunis abbiamo contato almeno 18 feriti e 7 morti», dicono all'unisono medici e infermieri. C'è un problema però: «Non si possono vedere. Tutti i feriti da armi al fosforo sono già stati trasferiti all'estero, specie in Egitto e Qatar». Resta vago anche Christophe Oberlin, un chirurgo di Parigi arrivato 3 giorni fa per conto del governo francese: «Io personalmente non ne ho visti di feriti da fosforo e non so se potrei davvero distinguerli dagli altri feriti, non sono un medico di guerra». Però di un fatto è sicuro: «Gli israeliani dicono che solo il 30 per cento delle vittime palestinesi sono civili. Questa è una palese menzogna, sono pronto a testimoniarlo davanti a qualsiasi tribunale internazionale. È vero il contrario: almeno l'80 per cento delle vittime sono bambini, anche piccolissimi, donne, anziani. Qui si sta sparando contro la società civile senza porsi troppi problemi. E le ferite che ho visto sono orribili. Moltissimi dei pazienti muoiono sotto i ferri». Verso le dieci di sera arrivano altre ambulanze cariche di feriti. Una scena carica di dolore, alleviata solo dal grande sorriso di Asma, una bambina di 10 anni ferita al torace, ma che parla veloce, quasi allegra e promette che da grande andrà all'università.
Corriere (eddyburg.it)
7.1.09
Le cinque maggiori menzogne sull’assalto di Israele a Gaza
di Jeremy R. Hammond* - Foreign Policy Journal
Menzogna numero 1. Israele sta solo colpendo legittimamente siti militari e sta cercando di proteggere vite innocenti. Israele non colpisce mai civili.
La Striscia di Gaza è una delle aree più densamente popolate al mondo. La presenza di militanti fra la popolazione civile non impedisce, secondo il diritto internazionale, che tale popolazione goda del suo status protetto; pertanto ogni assalto alla popolazione dietro la pretesa di colpire i militanti è, di fatto, un crimine di guerra.
Inoltre le persone che Israele rivendica come obiettivi legittimi sono membri di Hamas, che Israele sostiene sia un’organizzazione terroristica. Hamas è reponsabile per aver lanciato razzi in Israele. Tali razzi sono estremamente imprecisi e perciò, quand’anche Hamas intendesse colpire obiettivi militari in Israele, sono indiscriminati per natura. Quando i razzi lanciati da Gaza uccidono civili israeliani, questo è un crimine di guerra.
Hamas ha un’ala militare. Tuttavia non è interamente un’organizzazione militare ma politica. Membri di Hamas sono i rappresentanti democraticamente eletti del popolo palestinese. Decine di questi leader eletti sono stati rapiti e detenuti nelle prigioni israeliane senza capi d’accusa. Altri sono stati vittime di assassinii, come Nizar Rayan, funzionario di vertice di Hamas. Per uccidere Rayan Israele ha colpito un edificio di civili abitazioni. L’attacco non uccise solo Rayan ma anche due delle sue mogli e quattro dei suoi bambini, insieme ad altri sei. Non esiste nel diritto internazionale giustificazione per un tale attacco. Questo è un crimine di guerra.
Altri bombardamenti da parte di Israele su obiettivi dallo status protetto secondo il diritto internazionale includono una moschea, una prigione, stazioni di polizia ed un’università, oltre a civili abitazioni.
Inoltre Israele ha a lungo tenuto Gaza sotto assedio, permettendo l’accesso solo al minimo degli aiuti umanitari. Israele bombarda e uccide civili palestinesi. Innumerevoli altri sono feriti e non possono ricevere cure mediche. Gli ospedali alimentati da generatori hanno poco o nulla carburante. I medici non hanno adeguata strumentazione o farmaci per assistere i feriti.
Anche queste persone sono le vittime della strategia di Israele puntata non su Hamas o legittimi obiettivi militari ma direttamente concepita per punire la popolazione civile.
Menzogna numero 2. Hamas ha violato il cessate il fuoco. Il bombardamento israeliano è una risposta al lancio di razzi palestinesi ed è destinato a mettere fine a detti attacchi di razzi.
Israele non ha mai rispettato il cessate il fuoco. Sin dall’inizio ha definito una “zona speciale di sicurezza” dentro la Striscia di Gaza ed ha annunciato che i palestinesi che fossero entrati in questa zona sarebbero stati colpiti. In altre parole, Israele ha annunciato le sue intenzioni: i soldati israeliani avrebbero sparato a contadini ed altri individui che avessero tentato di raggiungere la propria terra in diretta violazione non solo del cessate il fuoco ma anche del diritto internazionale.
Nonostante alcuni episodi con spari, inclusi quelli in cui alcuni palestinesi sono rimasti feriti, Hamas ha comunque mantenuto il cessate il fuoco dal momento in cui è entrato in vigore il 19 giugno fino a quando Israele ha effettivamente rotto la tregua il 4 novembre, giorno in cui lanciò il raid aereo a Gaza che uccise cinque persone e ne ferì parecchie altre. La violazione di Israele del cessate il fuoco avrebbe prevedibilmente dato luogo ad una ritorsione da parte di militanti di Gaza che hanno sparato razzi su Israele come risposta. L’aumentata sequenza di lancio di razzi alla fine di dicembre è stata usata come giustificazione per il continuo bombardamento da parte di Israele, ma è la diretta risposta dei militanti agli attacchi di Israele.
Era prevedibile che le azioni di Israele, inclusa la sua violazione del cessate il fuoco, avrebbe dato luogo ad un’escalation degli attacchi con lancio di razzi contro la sua stessa popolazione.
Menzogna numero 3. Hamas sta usando scudi umani: ciò costituisce un crimine di guerra.
Non c’è prova che Hamas abbia usato scudi umani. Il fatto è che, come detto sopra, Gaza è un piccolo pezzo di terra densamente popolato. Israele ingaggia indiscriminate azioni di guerra come l’assassinio di Nizar Rayan, nel quale anche membri della sua famiglia sono stati uccisi. Sono le vittime come quei bambini uccisi che Israele nella sua propaganda definisce come “scudi umani”. Non c’è legittimità per questa interpretazione secondo il diritto internazionale. In circostanze come queste, Hamas non sta usando scudi umani, Israele sta compiendo crimini di guerra in violazione delle Convenzioni di Ginevra ed altre leggi internazionali in vigore.
Menzogna numero 4. I paesi arabi non hanno condannato le azioni di Israele perché comprendono le ragioni dell’assalto di Israele.
Le popolazioni di tali nazioni arabe si sentono oltraggiate dalle azioni di Israele e dai loro stessi governi per non aver condannato l’assalto di Israele e non essersi date da fare per mettere fine alla violenza. Più semplicemente i governi arabi non rappresentano le loro rispettive popolazioni. Le popolazioni dei paesi arabi hanno inscenato proteste di massa in opposizione non solo alle azioni di Israele ma anche all’inazione dei loro stessi governi e a quella che loro vedono come compiacenza o complicità verso i crimini di Israele. Inoltre il rifiuto dei paesi arabi di intraprendere azioni che andassero in aiuto ai palestinesi non è dovuto al fatto che siano d’accordo con l’operato di Israele ma perché sono sottomesse alla volontà degli Usa che sostengono pienamente Israele. L’Egitto, ad esempio, che ha rifiutato di aprire il valico per permettere ai palestinesi feriti negli attacchi di ricevere cure mediche negli ospedali egiziani, dipende pesantemente dall’aiuto statunitense, ed è stato largamente criticato dalle stesse popolazioni dei paesi arabi per quello che viene considerato un assoluto tradimento dei palestinesi di Gaza.
Persino il presidente palestinese Mahmoud Abbas è stato giudicato un traditore del suo stesso popolo per avere accusato Hamas delle sofferenze della gente di Gaza. I palestinesi sono pure ben consci dei precedenti atti di Abbas, percepiti come tradimenti, il quale tramò con Israele e con gli Usa per mettere fuori gioco il governo democraticamente eletto di Hamas, cosa che culminò in un contro-rovesciamento da parte di Hamas che espulse Fatah (l’ala militare dell’Autorità Palestinese di Abbas) dalla Striscia di Gaza. Benché l’obiettivo apparente fosse indebolire Hamas e rafforzare la propria posizione, i palestinesi ed altri arabi nel Medio Oriente sono così oltraggiati da Abbas che è improbabile che egli possa essere in grado di governare efficacemente.
Menzogna numero 5. Israele non è responsabile delle morti dei civili giacché ha avvertito i palestinesi di Gaza di sgombrare le aree che potevano essere colpite.
Israele reclama di aver inviato messaggi via radio e per telefono ai residenti di Gaza avvisandoli di sfollare in vista degli imminenti bombardamenti. Ma il popolo di Gaza non ha dove sfollare. Sono intrappolati dentro la Striscia di Gaza. È a causa del piano di Israele che non possono scappare oltre il confine. È a causa del piano di Israele che non hanno cibo, acqua, energia con cui sopravvivere. È a causa del piano di Israele che gli ospedali di Gaza non hanno elettricità e hanno scarse forniture mediche con le quali poter prendersi cura dei feriti e salvare vite. E Israele ha bombardato vaste aree di Gaza, colpendo infrastrutture civili ed altri siti che godono dello status protetto secondo il diritto internazionale. Non ci sono luoghi sicuri dentro la Striscia di Gaza.
Traduzione di Paolo Maccioni - Megachip
Link articolo originale:
http://www.foreignpolicyjournal.com/articles/2009/01/03/hammond_top-5-lies-about-israels-assault-on-gaza.html
* Jeremy R. Hammond, laureato in Scienze della Comunicazione, è titolare ed editorialista del “Foreign Policy Journal” pubblicazione online dedicata all’analisi critica delle politiche estere Usa con particolare attenzione al Medioriente. Hammond è autore di numerosissimi articoli ripresi sia da testate mainstream che da portali di informazione alternativa.
megachip.it
Menzogna numero 1. Israele sta solo colpendo legittimamente siti militari e sta cercando di proteggere vite innocenti. Israele non colpisce mai civili.
La Striscia di Gaza è una delle aree più densamente popolate al mondo. La presenza di militanti fra la popolazione civile non impedisce, secondo il diritto internazionale, che tale popolazione goda del suo status protetto; pertanto ogni assalto alla popolazione dietro la pretesa di colpire i militanti è, di fatto, un crimine di guerra.
Inoltre le persone che Israele rivendica come obiettivi legittimi sono membri di Hamas, che Israele sostiene sia un’organizzazione terroristica. Hamas è reponsabile per aver lanciato razzi in Israele. Tali razzi sono estremamente imprecisi e perciò, quand’anche Hamas intendesse colpire obiettivi militari in Israele, sono indiscriminati per natura. Quando i razzi lanciati da Gaza uccidono civili israeliani, questo è un crimine di guerra.
Hamas ha un’ala militare. Tuttavia non è interamente un’organizzazione militare ma politica. Membri di Hamas sono i rappresentanti democraticamente eletti del popolo palestinese. Decine di questi leader eletti sono stati rapiti e detenuti nelle prigioni israeliane senza capi d’accusa. Altri sono stati vittime di assassinii, come Nizar Rayan, funzionario di vertice di Hamas. Per uccidere Rayan Israele ha colpito un edificio di civili abitazioni. L’attacco non uccise solo Rayan ma anche due delle sue mogli e quattro dei suoi bambini, insieme ad altri sei. Non esiste nel diritto internazionale giustificazione per un tale attacco. Questo è un crimine di guerra.
Altri bombardamenti da parte di Israele su obiettivi dallo status protetto secondo il diritto internazionale includono una moschea, una prigione, stazioni di polizia ed un’università, oltre a civili abitazioni.
Inoltre Israele ha a lungo tenuto Gaza sotto assedio, permettendo l’accesso solo al minimo degli aiuti umanitari. Israele bombarda e uccide civili palestinesi. Innumerevoli altri sono feriti e non possono ricevere cure mediche. Gli ospedali alimentati da generatori hanno poco o nulla carburante. I medici non hanno adeguata strumentazione o farmaci per assistere i feriti.
Anche queste persone sono le vittime della strategia di Israele puntata non su Hamas o legittimi obiettivi militari ma direttamente concepita per punire la popolazione civile.
Menzogna numero 2. Hamas ha violato il cessate il fuoco. Il bombardamento israeliano è una risposta al lancio di razzi palestinesi ed è destinato a mettere fine a detti attacchi di razzi.
Israele non ha mai rispettato il cessate il fuoco. Sin dall’inizio ha definito una “zona speciale di sicurezza” dentro la Striscia di Gaza ed ha annunciato che i palestinesi che fossero entrati in questa zona sarebbero stati colpiti. In altre parole, Israele ha annunciato le sue intenzioni: i soldati israeliani avrebbero sparato a contadini ed altri individui che avessero tentato di raggiungere la propria terra in diretta violazione non solo del cessate il fuoco ma anche del diritto internazionale.
Nonostante alcuni episodi con spari, inclusi quelli in cui alcuni palestinesi sono rimasti feriti, Hamas ha comunque mantenuto il cessate il fuoco dal momento in cui è entrato in vigore il 19 giugno fino a quando Israele ha effettivamente rotto la tregua il 4 novembre, giorno in cui lanciò il raid aereo a Gaza che uccise cinque persone e ne ferì parecchie altre. La violazione di Israele del cessate il fuoco avrebbe prevedibilmente dato luogo ad una ritorsione da parte di militanti di Gaza che hanno sparato razzi su Israele come risposta. L’aumentata sequenza di lancio di razzi alla fine di dicembre è stata usata come giustificazione per il continuo bombardamento da parte di Israele, ma è la diretta risposta dei militanti agli attacchi di Israele.
Era prevedibile che le azioni di Israele, inclusa la sua violazione del cessate il fuoco, avrebbe dato luogo ad un’escalation degli attacchi con lancio di razzi contro la sua stessa popolazione.
Menzogna numero 3. Hamas sta usando scudi umani: ciò costituisce un crimine di guerra.
Non c’è prova che Hamas abbia usato scudi umani. Il fatto è che, come detto sopra, Gaza è un piccolo pezzo di terra densamente popolato. Israele ingaggia indiscriminate azioni di guerra come l’assassinio di Nizar Rayan, nel quale anche membri della sua famiglia sono stati uccisi. Sono le vittime come quei bambini uccisi che Israele nella sua propaganda definisce come “scudi umani”. Non c’è legittimità per questa interpretazione secondo il diritto internazionale. In circostanze come queste, Hamas non sta usando scudi umani, Israele sta compiendo crimini di guerra in violazione delle Convenzioni di Ginevra ed altre leggi internazionali in vigore.
Menzogna numero 4. I paesi arabi non hanno condannato le azioni di Israele perché comprendono le ragioni dell’assalto di Israele.
Le popolazioni di tali nazioni arabe si sentono oltraggiate dalle azioni di Israele e dai loro stessi governi per non aver condannato l’assalto di Israele e non essersi date da fare per mettere fine alla violenza. Più semplicemente i governi arabi non rappresentano le loro rispettive popolazioni. Le popolazioni dei paesi arabi hanno inscenato proteste di massa in opposizione non solo alle azioni di Israele ma anche all’inazione dei loro stessi governi e a quella che loro vedono come compiacenza o complicità verso i crimini di Israele. Inoltre il rifiuto dei paesi arabi di intraprendere azioni che andassero in aiuto ai palestinesi non è dovuto al fatto che siano d’accordo con l’operato di Israele ma perché sono sottomesse alla volontà degli Usa che sostengono pienamente Israele. L’Egitto, ad esempio, che ha rifiutato di aprire il valico per permettere ai palestinesi feriti negli attacchi di ricevere cure mediche negli ospedali egiziani, dipende pesantemente dall’aiuto statunitense, ed è stato largamente criticato dalle stesse popolazioni dei paesi arabi per quello che viene considerato un assoluto tradimento dei palestinesi di Gaza.
Persino il presidente palestinese Mahmoud Abbas è stato giudicato un traditore del suo stesso popolo per avere accusato Hamas delle sofferenze della gente di Gaza. I palestinesi sono pure ben consci dei precedenti atti di Abbas, percepiti come tradimenti, il quale tramò con Israele e con gli Usa per mettere fuori gioco il governo democraticamente eletto di Hamas, cosa che culminò in un contro-rovesciamento da parte di Hamas che espulse Fatah (l’ala militare dell’Autorità Palestinese di Abbas) dalla Striscia di Gaza. Benché l’obiettivo apparente fosse indebolire Hamas e rafforzare la propria posizione, i palestinesi ed altri arabi nel Medio Oriente sono così oltraggiati da Abbas che è improbabile che egli possa essere in grado di governare efficacemente.
Menzogna numero 5. Israele non è responsabile delle morti dei civili giacché ha avvertito i palestinesi di Gaza di sgombrare le aree che potevano essere colpite.
Israele reclama di aver inviato messaggi via radio e per telefono ai residenti di Gaza avvisandoli di sfollare in vista degli imminenti bombardamenti. Ma il popolo di Gaza non ha dove sfollare. Sono intrappolati dentro la Striscia di Gaza. È a causa del piano di Israele che non possono scappare oltre il confine. È a causa del piano di Israele che non hanno cibo, acqua, energia con cui sopravvivere. È a causa del piano di Israele che gli ospedali di Gaza non hanno elettricità e hanno scarse forniture mediche con le quali poter prendersi cura dei feriti e salvare vite. E Israele ha bombardato vaste aree di Gaza, colpendo infrastrutture civili ed altri siti che godono dello status protetto secondo il diritto internazionale. Non ci sono luoghi sicuri dentro la Striscia di Gaza.
Traduzione di Paolo Maccioni - Megachip
Link articolo originale:
http://www.foreignpolicyjournal.com/articles/2009/01/03/hammond_top-5-lies-about-israels-assault-on-gaza.html
* Jeremy R. Hammond, laureato in Scienze della Comunicazione, è titolare ed editorialista del “Foreign Policy Journal” pubblicazione online dedicata all’analisi critica delle politiche estere Usa con particolare attenzione al Medioriente. Hammond è autore di numerosissimi articoli ripresi sia da testate mainstream che da portali di informazione alternativa.
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31.12.08
Diario da Gaza, mappa dell'inferno
Jabilia, Bet Hanun, Rafah, Gaza City, le tappe della mia personale mappa per l'inferno. Checchè vadano ripetendo i comunicati diramati dai vertici militari israeliani, e ripetuti a pappagallo in Europa e Usa dai professionisti della disinformazione, sono stato testimone oculare in questi giorni di bombardamenti di moschee, scuole, università, ospedali, mercati, e decine e decine di edifici civili.
Il direttore medico dell'ospedale di Al Shifa mi ha confermato di aver ricevuto telefonate da esponenenti dell'IDF, l'esercito israeliano, che gli intimavano di evacuare all'istante l'ospedale, pena una pioggia di missili. Non si sono lasciati intimorire. Il porto, dove dovrei dormire, ma a Gaza non si chiude un occhio da 4 giorni, è costantemente soggetto a bombardamenti notturni. Non si odono più sirene di ambulanze rincorrersi all'impazzata, semplicemente perchè al porto e attorno non c'è più anima viva, sono morti tutti, sembra di poggiare piede su di un cimitero dopo un terremoto.
La situazione è davvero da catastrofe innaturale, un cataclisma di odio e cinismo piombato sulla popolazione di Gaza come piombo fuso, che fa a pezzi corpi umani, e contrariamente a quanto si prefigge, compatta i palestinesi tutti, gente che fino a qualche tempo fa non si salutava nemmeno perchè appartenenti a fazioni differenti, in un corpo unico.
Quando le bombe cadono dal cielo da diecimila metri di quota state tranquilli, non fanno distinzioni fra bandiere di hamas o fatah esposte sui davanzali, non hanno ripensamenti esplosivi neanche se sei italiano. Non esistono operazioni militari chirurgiche, quando si mette a bombardare l'aviazione e la marina, le uniche operazioni chirugiche sono quelle dei medici che amputano arti maciullate alle vittime senza un attimo di ripensamento, anche se spesso braccia e gambe sarebbe salvabili. Non c'è tempo, bisogna correre, le cure impegnate per un arto seriamente ferito sono la condanna a morte per il ferito susseguente in attesa di una trasfusione. All' ospedale di Al Shifa ci sono 600 ricoverati gravi e solo 29 macchine respiratorie. Mancano di tutto, soprattutto di personale preparato.
Per questa ragione, esausti più che dalle notti insonni, dall'immobilismo e dall'omertà dei governi occidentali , così complici dei crimini d'Israele, abbiamo deciso di far partire ieri da Larnaco, Cipro, una delle nostre barche del Free Gaza Movement con a bordo 3 tonnellate di medicinali e personale medico. Li ho aspettati invano, avrebbero dovuto attraccare al porto alle 8 am di questa mattina. Sono invece stati intercettati a 90 miglia nautiche da Gaza da 11 navi da guerra israeliane, che in piene acque internazionali hanno provato ad affondarli. Li hanno speronati tre volte, producendo una avaria ai motori e una falla nello scavo. Per puro caso l'equipaggio e i passeggeri sono ancora tutti vivi, e sono riusciti ad attraccare in un porto libanese.
Sempre più frustrati dall'assordante silenzio del mondo "civile", i miei amici ci riproveranno presto. Hanno scaricato infatti i medicinali dalla nostra nave danneggiata, la Dignity, e li hanno ricaricati su di un'altra pronta alla partenza alla volta di Gaza. Certi che la volontà criminale di Israele nel calpestare diritti umani e leggi internazionali non sarà mai forte come la nostra determinazione nella difesa di questi stessi diritti e uomini.
Molti giornalisti che mi intervistano mi chiedono conto della situazione umanitaria dei palestinesi di Gaza, come se il problema fossero la mancanza di cibo, di acqua, di elettricità, di gasolio, e non chi è la causa di questi problemi sigillando confini, bombardando impianti idrici e centrali elettriche. Lunghe file ai pochi panettieri con ancora le serrande semiaperte, 40-50 persone che si accapigliano per accappararsi l'ultima pagnotta. Uno di questi panettieri, Ahmed, è un mio amico, e mi ha confidato il suo terrore degli ultimi giorni. Più che per le bombe, teme per gli assalti al forni. Dinnanzi al suo, si sono già verificate risse. Fino a poco tempo fa c'era la polizia a mantenere l'ordine pubblico, specie dinnanzi alle panetterie, ora non si vede più un poliziotto in divisa in tutta Gaza. Si sono nascosti, alcuni. Gli alti stanno tutti sepolti sotto due metri di terra, amici miei compresi.
A Jabilia ancora strage di bambini, due sorelline di Haya e Laama Hamdan, di 4 e 10 anni, colpite e uccise da una bomba israeliana mentre guidavano un carretto trainato da un asino, in strada as-Sekka, a Jabalia.
Mohammad Rujailah nostro collaboratore dell'ISM, ha scattato una foto che più di un fermoimmagine, è una storia, è la rivelazione di ciò che tragico viviamo intensamente ogni minuto, contandoci ogni ora, perdendo amici, fratelli, familiari. Carriarmati, caccia, droni, elicotteri apache, il più grande e potente esercito del mondo in feroce attacco contro una popolazione che si muove ancora sui somari come all'epoca di Gesù Cristo.
Secondo Al Mizan, centro per i diritti umani, al momento in cui scrivo sono 55 bambini coinvolti nei bombardamenti, 20 gli uccisi e 40 i gravemente feriti.
Israele ha trasformato gli ospedali e gli obitori palestinesi in fabbriche di angeli,
non rendendosi conto dell'odio che fomenta non solo in Palestina, ma in tutto il mondo.
Le fabbriche degli angeli sono in produzione a ciclo continuo anche questa sera, lo avverto dai fragori delle esplosioni che avverto fuori dalle mie finestre.
Quei corpici smembrati, amputati, e quelle vite potate ancora prima di fiorire, saranno un incubo per tutto il resto della mia vita, e se ho ancora la forza di raccontare delle loro fine, è perchè voglio rendere giustizia a chi non ha più voce, a chi non ha mia avuto un fiato di voce, forse a chi non ha mai avuto orecchie per ascoltare.
Restiamo umani.
Vittorio Arrigoni
attivista per i diritti umani
ilmanifesto
Il direttore medico dell'ospedale di Al Shifa mi ha confermato di aver ricevuto telefonate da esponenenti dell'IDF, l'esercito israeliano, che gli intimavano di evacuare all'istante l'ospedale, pena una pioggia di missili. Non si sono lasciati intimorire. Il porto, dove dovrei dormire, ma a Gaza non si chiude un occhio da 4 giorni, è costantemente soggetto a bombardamenti notturni. Non si odono più sirene di ambulanze rincorrersi all'impazzata, semplicemente perchè al porto e attorno non c'è più anima viva, sono morti tutti, sembra di poggiare piede su di un cimitero dopo un terremoto.
La situazione è davvero da catastrofe innaturale, un cataclisma di odio e cinismo piombato sulla popolazione di Gaza come piombo fuso, che fa a pezzi corpi umani, e contrariamente a quanto si prefigge, compatta i palestinesi tutti, gente che fino a qualche tempo fa non si salutava nemmeno perchè appartenenti a fazioni differenti, in un corpo unico.
Quando le bombe cadono dal cielo da diecimila metri di quota state tranquilli, non fanno distinzioni fra bandiere di hamas o fatah esposte sui davanzali, non hanno ripensamenti esplosivi neanche se sei italiano. Non esistono operazioni militari chirurgiche, quando si mette a bombardare l'aviazione e la marina, le uniche operazioni chirugiche sono quelle dei medici che amputano arti maciullate alle vittime senza un attimo di ripensamento, anche se spesso braccia e gambe sarebbe salvabili. Non c'è tempo, bisogna correre, le cure impegnate per un arto seriamente ferito sono la condanna a morte per il ferito susseguente in attesa di una trasfusione. All' ospedale di Al Shifa ci sono 600 ricoverati gravi e solo 29 macchine respiratorie. Mancano di tutto, soprattutto di personale preparato.
Per questa ragione, esausti più che dalle notti insonni, dall'immobilismo e dall'omertà dei governi occidentali , così complici dei crimini d'Israele, abbiamo deciso di far partire ieri da Larnaco, Cipro, una delle nostre barche del Free Gaza Movement con a bordo 3 tonnellate di medicinali e personale medico. Li ho aspettati invano, avrebbero dovuto attraccare al porto alle 8 am di questa mattina. Sono invece stati intercettati a 90 miglia nautiche da Gaza da 11 navi da guerra israeliane, che in piene acque internazionali hanno provato ad affondarli. Li hanno speronati tre volte, producendo una avaria ai motori e una falla nello scavo. Per puro caso l'equipaggio e i passeggeri sono ancora tutti vivi, e sono riusciti ad attraccare in un porto libanese.
Sempre più frustrati dall'assordante silenzio del mondo "civile", i miei amici ci riproveranno presto. Hanno scaricato infatti i medicinali dalla nostra nave danneggiata, la Dignity, e li hanno ricaricati su di un'altra pronta alla partenza alla volta di Gaza. Certi che la volontà criminale di Israele nel calpestare diritti umani e leggi internazionali non sarà mai forte come la nostra determinazione nella difesa di questi stessi diritti e uomini.
Molti giornalisti che mi intervistano mi chiedono conto della situazione umanitaria dei palestinesi di Gaza, come se il problema fossero la mancanza di cibo, di acqua, di elettricità, di gasolio, e non chi è la causa di questi problemi sigillando confini, bombardando impianti idrici e centrali elettriche. Lunghe file ai pochi panettieri con ancora le serrande semiaperte, 40-50 persone che si accapigliano per accappararsi l'ultima pagnotta. Uno di questi panettieri, Ahmed, è un mio amico, e mi ha confidato il suo terrore degli ultimi giorni. Più che per le bombe, teme per gli assalti al forni. Dinnanzi al suo, si sono già verificate risse. Fino a poco tempo fa c'era la polizia a mantenere l'ordine pubblico, specie dinnanzi alle panetterie, ora non si vede più un poliziotto in divisa in tutta Gaza. Si sono nascosti, alcuni. Gli alti stanno tutti sepolti sotto due metri di terra, amici miei compresi.
A Jabilia ancora strage di bambini, due sorelline di Haya e Laama Hamdan, di 4 e 10 anni, colpite e uccise da una bomba israeliana mentre guidavano un carretto trainato da un asino, in strada as-Sekka, a Jabalia.
Mohammad Rujailah nostro collaboratore dell'ISM, ha scattato una foto che più di un fermoimmagine, è una storia, è la rivelazione di ciò che tragico viviamo intensamente ogni minuto, contandoci ogni ora, perdendo amici, fratelli, familiari. Carriarmati, caccia, droni, elicotteri apache, il più grande e potente esercito del mondo in feroce attacco contro una popolazione che si muove ancora sui somari come all'epoca di Gesù Cristo.
Secondo Al Mizan, centro per i diritti umani, al momento in cui scrivo sono 55 bambini coinvolti nei bombardamenti, 20 gli uccisi e 40 i gravemente feriti.
Israele ha trasformato gli ospedali e gli obitori palestinesi in fabbriche di angeli,
non rendendosi conto dell'odio che fomenta non solo in Palestina, ma in tutto il mondo.
Le fabbriche degli angeli sono in produzione a ciclo continuo anche questa sera, lo avverto dai fragori delle esplosioni che avverto fuori dalle mie finestre.
Quei corpici smembrati, amputati, e quelle vite potate ancora prima di fiorire, saranno un incubo per tutto il resto della mia vita, e se ho ancora la forza di raccontare delle loro fine, è perchè voglio rendere giustizia a chi non ha più voce, a chi non ha mia avuto un fiato di voce, forse a chi non ha mai avuto orecchie per ascoltare.
Restiamo umani.
Vittorio Arrigoni
attivista per i diritti umani
ilmanifesto
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