John Foot, storico (Internazionale)
Una catastrofe o una “rivolta democratica contro l’establishment”? Un’ondata di razzismo o il grido disperato dei diseredati contro i potenti? Si possono dare molte interpretazioni della Brexit. Ma i fatti sono questi: il 23 giugno, nel Regno Unito, 17 milioni di persone hanno votato per uscire (leave) dall’Unione europea e 16 milioni hanno votato per restare (remain). Cos’è successo una settimana fa, e perché?
Per rispondere a queste domande, dobbiamo ripassare un po’ di storia. Il Regno Unito è entrato a far parte della Comunità economica europea (Cee) nel 1973 con l’Irlanda e la Danimarca. Nel 1975 (mentre erano al governo i laburisti) fu indetto un referendum dal quale emerse che il 67 per cento della popolazione era favorevole alla Cee. Nel 1983 il Partito laburista, che all’epoca era guidato da Michael Foot, scrisse nel suo programma che se avesse vinto le elezioni sarebbe uscito dalla Cee.
Perse malamente. E nella politica britannica la questione dell’Europa rimase controversa per i trent’anni successivi. Il Partito conservatore, che era stato il maggior sostenitore della Cee, cominciò ad assumere una posizione più euroscettica. Il Regno Unito si rifiutò di entrare nell’euro. Nel 1990, Margaret Thatcher fu deposta dal suo stesso partito a causa di un conflitto interno sull’Europa. Ma il dibattito continuava. Intanto i laburisti si stavano spostando su una posizione molto più filoeuropea. Ma pochissimi politici parlavano a favore dell’Europa e tendevano ad attribuire all’Ue la responsabilità di una serie di problemi.
Negli anni duemila ha cominciato a farsi strada nel mondo politico l’United Kingdom independence party (Ukip). Prendeva voti soprattutto dai conservatori, ma anche dai laburisti, era (ed è) antimmigrazione, antiEuropa e antipolitica, ma all’inizio non è riuscito a conquistare molti seggi in parlamento. Alla vigilia delle elezioni del 2015, il Partito conservatore, guidato da David Cameron, ha promesso che, se avesse vinto, avrebbe indetto un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Ue. Era essenzialmente una strategia per evitare che i voti continuassero a defluire verso l’Ukip. E in un certo senso ha funzionato. I conservatori hanno vinto (inaspettatamente) a stretta maggioranza le elezioni e l’Ukip ha ottenuto quattro milioni di voti, ma un solo seggio in parlamento.
A quel punto, i tory dovevano mantenere la promessa. Cameron ha annunciato il referendum a febbraio del 2016. Il suo partito si è quasi subito diviso e molti membri del governo si sono dichiarati favorevoli all’uscita. Poco dopo, Boris Johnson – l’ex sindaco di Londra – ha detto che anche lui sarebbe stato favorevole all’uscita. I laburisti erano compatti a favore della permanenza nell’Unione, ma il loro leader Jeremy Corbyn era piuttosto tiepido nei confronti dell’Europa. La campagna è cominciata con una serie di avvertimenti da parte del fronte del remain: con la Brexit ci sarebbe stata una recessione, il costo dei mutui sarebbe salito, le tasse sarebbero aumentate, il tasso di disoccupazione sarebbe (di nuovo) cresciuto e così via. Molti esperti hanno parlato a favore della permanenza nell’Ue, ma quasi sempre in termini negativi.
La strategia del fronte del leave è stata diversa. Prima hanno detto una serie di bugie: che per l’Ue si spendevano 350 milioni di sterline alla settimana (cifra che non teneva conto dei soldi che tornavano indietro), denaro che poteva essere speso per il servizio sanitario nazionale e per altre necessità dei cittadini; che la Turchia stava per entrare nell’Unione (un’affermazione ridicola accompagnata da una foto che mirava a spaventare gli elettori); che il Regno Unito era arrivato al “punto di rottura” (anche questa accompagnata da una gigantesca foto di siriani in fuga). Le bugie hanno funzionato meglio delle sempre più disperate “suppliche” degli esperti.
Insomma, Donald Trump era arrivato nel Regno Unito. Non importava quello che si diceva, o se aveva una qualche base nella realtà: quello che contava era fare appello alle emozioni e al senso di identità. Era soprattutto un appello all’identità inglese, un invito a “riprendere il controllo (delle nostre frontiere)”. “Rivogliamo il nostro paese!”, dicevano. Ma chi doveva ridarcelo? Gli immigrati, naturalmente, i neri, i polacchi, i musulmani. Questi appelli alle emozioni sono stati molto più efficaci delle opinioni di avvocati, banchieri, economisti, di tutte le 96 università britanniche e di molti altri. Era un chiaro segno che stavamo entrando nel mondo del postfattuale. Il mondo di Trump. Il mondo di Boris.
Cameron ha sbagliato completamente tattica. Non ha avuto nulla da dire tranne che in negativo. Aveva sopravvalutato il potere del “progetto paura” (che si era già rivelato a dir poco insufficiente durante il referendum per l’indipendenza della Scozia del 2014). Inoltre, aveva indetto il referendum per giugno quando la maggior parte degli studenti (che probabilmente avrebbero votato per rimanere) era via. Senza contare che molti giovani erano stati eliminati dal registro degli elettori grazie alle riforme introdotte dai tory per vincere le prossime elezioni politiche. Mano a mano che il giorno del voto si avvicinava, i sondaggi hanno cominciato a cambiare. Quelli che volevano uscire erano in aumento.
E così è successo. Il 23 giugno c’è stata una partecipazione del 72 per cento. Diciassette milioni e mezzo di persone hanno votato per uscire, poco più di sedici milioni per restare. Che cosa è successo? A questo punto, è importante non essere dogmatici o semplicistici nel valutare il risultato. Non è stata una “rivolta” della classe operaia contro Westminster. A Londra, dove ci sono molti poveri e un’alta percentuale di immigrati, il 60 per cento delle persone ha votato per rimanere. Anche in Scozia, dove la classe operaia è numerosa, il 62 per cento ha scelto di restare nell’Ue. L’Irlanda del Nord non è molto ricca, eppure il 58 per cento dei votanti voleva rimanere. Molte grandi città hanno fatto la stessa scelta a larga maggioranza : il 61 per cento a Bristol, il 60 per cento a Manchester, il 58 per cento a Liverpool. In altre c’è stato un testa a testa, come a Birmingham (dove quelli che volevano uscire hanno vinto di stretta misura), o a Leeds (dove è successo l’opposto). Cardiff si è decisamente dichiarata favorevole a restare.
Disinformazione e propaganda
Quelli che volevano uscire hanno vinto grazie ai voti ottenuti fuori delle grandi città, in parte nelle (ex) zone operaie del Galles, del nord, del sudest, delle Midlands, ma anche nelle contee agricole. Non è vero che hanno vinto nelle zone a più alta immigrazione. A Londra la percentuale di immigrati è più alta che in qualsiasi altra zona del paese. Hanno vinto in regioni dove il tasso di immigrazione è relativamente basso. E non tutti quelli che hanno votato per uscire lo hanno fatto perché odiavano l’Ue. Sapevano molto poco di quello che fa l’Unione, grazie ad anni di disinformazione e di propaganda. A votare per uscire sono stati soprattutto gli anziani. E non è stato in nessun senso un voto contro l’establishment, questa è un’affermazione assurda. Il Daily Mail, il Sun, il Sunday Times, il Daily Telegraph (il giornale dell’establishment per eccellenza), il Daily Express e il Sunday Express erano tutti a favore dell’uscita.
E non tutti quelli che hanno votato per uscire sono razzisti, ma, come ha scritto di recente qualcuno, adesso i razzisti pensano che il 52 per cento della popolazione sia d’accordo con loro. Si è aperto un vaso di Pandora, e non sarà facile richiuderlo. È scoppiata una bomba nella politica britannica (e nel mondo, scusa mondo!), che è già costata il posto a David Cameron, e rischia di farlo perdere anche a Jeremy Corbyn.
Il Regno Unito è un posto più brutto, più diviso e più odioso di quanto non lo fosse prima del 23 giugno, e niente sarà mai più come prima. Ci saranno nuove frontiere: con l’Irlanda, probabilmente con la Scozia, e sicuramente con l’altro lato della Manica. Gli immigrati (o quelli che sembrano immigrati) si stanno già sentendo dire “tornatevene a casa, abbiamo votato per uscire”. E la situazione non può che peggiorare. Quando le promesse (le bugie) del fronte del leave non si avvereranno (stanno già dicendo di non averle mai fatte), si scatenerà l’inferno. Il Regno Unito diventerà un paese più conservatore, più isolato, più infelice in cui vivere e lavorare. È cominciata la disgregazione del Regno Unito.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
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3.7.16
5.5.10
«Questa incertezza è il frutto della delusione per i partiti»
Intervista di Fabio Cavalera allo storico Eric Hobsbawm sulle prossime elezioni in Gran Bretagna (Corriere della Sera)
L’errore del New Labour è stato quello di pensare che l’economia del Regno Unito potesse crescere sulle fortune oscillanti dei mercati finanziari trascurando la solidità delle risorse tradizionali dell’industria. Uno squilibrio che alla fine si è trasformato in bancarotta. Ecco la ragione per cui, dopo 13 anni di potere, i laburisti lasceranno Downing Street. La Gran Bretagna è a una svolta. I conservatori tornano ad essere il primo partito, però rischiano di non avere la maggioranza assoluta in Parlamento. In tal caso, come si risolverà l’incertezza politica? L’occhio critico di un grande storico, Eric Hobsbawm, aiuta a comprendere ciò che accade con le imminenti elezioni.
Professore, negli ultimi 50 anni i britannici hanno prevalentemente scelto fra due partiti, laburisti e conservatori. Ora una terza forza, i liberaldemocratici, spezza il duopolio. Una piccola rivoluzione?
«In verità, nel Ventesimo secolo, il Regno Unito ha sperimentato governi di unità nazionale con la partecipazione di tutti i partiti nelle due guerre mondiali, poi ha conosciuto l’esperienza di governi di coalizione, infine ha avuto governi di minoranza la cui vita dipendeva da altri partiti. Negli anni Venti, quest’ultima fu la situazione in cui si trovarono i governi laburisti che contavano sull’appoggio dei liberali. E ancora: negli anni Settanta né i laburisti né i conservatori avevano un’adeguata maggioranza e, di volta in volta, negoziavano i voti con una molteplicità di forze. Negli anni Ottanta, infine, la spaccatura nel partito laburista e la breve ascesa dei socialdemocratici creò le possibilità di una situazione non con due ma con tre partiti. In breve, il Regno Unito non è stato, esclusivamente, un sistema dominato da due partiti come lo è quello statunitense. Semmai va notato che i governi laburisti hanno dimostrato la vulnerabilità alle terze forze».
Tutti i sondaggi della vigilia suggeriscono che ci sarà un «hung parliament», un Parlamento bloccato, ciò può significare un lungo periodo di instabilità per la politica e i mercati. Sono pericoli reali?
«È difficile prevedere come si comporteranno i mercati nel dopo elezioni ma, nell’incertezza sulla formazione di un nuovo governo, difficilmente la reazione potrà essere positiva. L’hung parliament prolungherà il periodo in cui nessun partito sarà disposto a discutere con sincerità sulle misure spiacevoli e necessarie per affrontare la crisi finanziaria, un eventuale governo di minoranza sarà solo nel prendere queste decisioni».
Se nessun partito avrà la maggioranza assoluta chi formerà il governo?
«Ci sono discussioni di carattere costituzionale su questo punto ma è quasi certo che la regina chiederà al leader del partito che otterrà il maggior numero di seggi in Parlamento di provare a formare il nuovo governo. Il che può essere difficile».
È realistico ipotizzare una coalizione? I conservatori con i liberaldemocratici?
«Dubito che una formale coalizione possa essere la soluzione. Il problema è che, quasi certamente, i membri del partito liberaldemocratico, sebbene non necessariamente Clegg, non sarebbero affatto felici di un collegamento con i conservatori e non coi laburisti. Allo stesso tempo una coalizione dei liberaldemocratici con un governo Labour discreditato non sarebbe digerita bene dalla massa dei votanti LibDem. C’è il rischio, in entrambi i casi, di una spaccatura dei liberaldemocratici. Più probabile, semmai, è un governo di minoranza che si appella agli altri partiti per ottenerne l’appoggio ma, inevitabilmente, è condizionato da essi. Ciò avviene da alcuni anni nel Parlamento scozzese. E funziona bene, grazie all’abilità politica di Alex Salmond, il leader del governo formato dai nazionalisti scozzesi».
Questa incertezza non è il segnale del declino del sistema politico britannico?
«No, è il segnale della delusione e della disaffezione per i due maggiori partiti. La caratteristica di queste elezioni è che, quasi certamente, una maggioranza di votanti è scontenta dei laburisti, ma al tempo stesso non c’è entusiasmo per ciò che dovrebbe essere l’ovvia alternativa, vale a dire per un governo conservatore».
Qual è il bilancio di 13 anni di governo laburista? E quali sono stati gli errori di Tony Blair e di Gordon Brown?
«I tredici anni di governo laburista non sono stati insoddisfacenti, eccetto che per la decisione di Tony Blair di avventurarsi in tanti conflitti armati. Specialmente imperdonabili sono le guerre in Afghanistan e Iraq. Ma, nel mezzo della retorica elettorale sui presunti risultati catastrofici di questi 13 anni, è bene ricordare che non è proprio così. L’errore maggiore del New Labour, condiviso da Gordon Brown, è stato quello di accettare la logica del libero mercato globalizzato, il neoliberismo economico. Ha portato l’economia britannica ad essere sproporzionatamente dipendente da Londra come centro della finanza globale, ha determinato la crescita inaccettabile delle diseguaglianze economiche e l’abbandono delle risorse industriali nazionali. Ciò ha reso la presente crisi economica insolitamente seria nel Regno Unito e ha allargato il deficit finanziario».
Crede che il modello del New Labour sia tramontato per sempre?
«Probabilmente sì, perché l’ideologia che vi è dietro, il neoliberismo economico, è andata in bancarotta».
Nella campagna elettorale è nata la stella di Nick Clegg. Il leader liberaldemocratico potrebbe essere il kingmaker nel dopo elezioni. La Cleggmania è un fenomeno destinato a durare?
«La Cleggmania è la misura della reazione contro entrambi i partiti maggiori. Il futuro politico dei liberaldemocratici è in relazione al risultato delle elezioni e, poiché non avranno la maggioranza assoluta, dipende dalla loro capacità di negoziare con gli altri due partiti nel periodo relativamente breve dell’hung parliament, in cui saranno kingmaker».
Perché Nick Clegg è divenuto così popolare? Merito solo della televisione?
«No, al momento, lui è la voce efficace di un voto di protesta, principalmente del popolo del centro sinistra. Certo. Nick Clegg non era particolarmente conosciuto come leader dei LibDem prima della sua performance televisiva di grande effetto. È stato abile».
David Cameron è il leader di una destra moderna e riformista?
«La signora Thatcher rimpiazzò l’Old British Conservative Party con una organizzazione che propugnava una sorta di guerra di classe in nome del fondamentalismo neo liberista di mercato. Questa tipologia di conservatorismo, dal 1997, non è più vincente. Ed è stata rimpiazzata. La politica di Cameron si è spostata al centro, cercando di rappresentare un conservatorismo con maggiori attenzioni alla società e favorevole a uno Stato efficiente, più leggero ma amico».
Dunque, Cameron è credibile?
«Non c’è dubbio che Cameron sia sinceramente in favore di questo cambiamento. Credo però che egli rappresenti una modesta minoranza fra i politici e gli attivisti conservatori. Circostanza che, nel caso di vittoria dei Tory, restringerebbe la libertà d’azione del premier Cameron mettendolo in difficoltà».
La «Cool Britannia» laburista non esiste più?
«Cool Britannia fu solo uno slogan pubblicitario, vuoto come lo è la maggior parte degli slogan. Però nei 13 anni passati il Regno Unito è diventato il Paese occidentale più innovativo e fiorente nel campo della cultura e dell’arte e certamente il più cosmopolita. Spero che lo rimanga».
L’errore del New Labour è stato quello di pensare che l’economia del Regno Unito potesse crescere sulle fortune oscillanti dei mercati finanziari trascurando la solidità delle risorse tradizionali dell’industria. Uno squilibrio che alla fine si è trasformato in bancarotta. Ecco la ragione per cui, dopo 13 anni di potere, i laburisti lasceranno Downing Street. La Gran Bretagna è a una svolta. I conservatori tornano ad essere il primo partito, però rischiano di non avere la maggioranza assoluta in Parlamento. In tal caso, come si risolverà l’incertezza politica? L’occhio critico di un grande storico, Eric Hobsbawm, aiuta a comprendere ciò che accade con le imminenti elezioni.
Professore, negli ultimi 50 anni i britannici hanno prevalentemente scelto fra due partiti, laburisti e conservatori. Ora una terza forza, i liberaldemocratici, spezza il duopolio. Una piccola rivoluzione?
«In verità, nel Ventesimo secolo, il Regno Unito ha sperimentato governi di unità nazionale con la partecipazione di tutti i partiti nelle due guerre mondiali, poi ha conosciuto l’esperienza di governi di coalizione, infine ha avuto governi di minoranza la cui vita dipendeva da altri partiti. Negli anni Venti, quest’ultima fu la situazione in cui si trovarono i governi laburisti che contavano sull’appoggio dei liberali. E ancora: negli anni Settanta né i laburisti né i conservatori avevano un’adeguata maggioranza e, di volta in volta, negoziavano i voti con una molteplicità di forze. Negli anni Ottanta, infine, la spaccatura nel partito laburista e la breve ascesa dei socialdemocratici creò le possibilità di una situazione non con due ma con tre partiti. In breve, il Regno Unito non è stato, esclusivamente, un sistema dominato da due partiti come lo è quello statunitense. Semmai va notato che i governi laburisti hanno dimostrato la vulnerabilità alle terze forze».
Tutti i sondaggi della vigilia suggeriscono che ci sarà un «hung parliament», un Parlamento bloccato, ciò può significare un lungo periodo di instabilità per la politica e i mercati. Sono pericoli reali?
«È difficile prevedere come si comporteranno i mercati nel dopo elezioni ma, nell’incertezza sulla formazione di un nuovo governo, difficilmente la reazione potrà essere positiva. L’hung parliament prolungherà il periodo in cui nessun partito sarà disposto a discutere con sincerità sulle misure spiacevoli e necessarie per affrontare la crisi finanziaria, un eventuale governo di minoranza sarà solo nel prendere queste decisioni».
Se nessun partito avrà la maggioranza assoluta chi formerà il governo?
«Ci sono discussioni di carattere costituzionale su questo punto ma è quasi certo che la regina chiederà al leader del partito che otterrà il maggior numero di seggi in Parlamento di provare a formare il nuovo governo. Il che può essere difficile».
È realistico ipotizzare una coalizione? I conservatori con i liberaldemocratici?
«Dubito che una formale coalizione possa essere la soluzione. Il problema è che, quasi certamente, i membri del partito liberaldemocratico, sebbene non necessariamente Clegg, non sarebbero affatto felici di un collegamento con i conservatori e non coi laburisti. Allo stesso tempo una coalizione dei liberaldemocratici con un governo Labour discreditato non sarebbe digerita bene dalla massa dei votanti LibDem. C’è il rischio, in entrambi i casi, di una spaccatura dei liberaldemocratici. Più probabile, semmai, è un governo di minoranza che si appella agli altri partiti per ottenerne l’appoggio ma, inevitabilmente, è condizionato da essi. Ciò avviene da alcuni anni nel Parlamento scozzese. E funziona bene, grazie all’abilità politica di Alex Salmond, il leader del governo formato dai nazionalisti scozzesi».
Questa incertezza non è il segnale del declino del sistema politico britannico?
«No, è il segnale della delusione e della disaffezione per i due maggiori partiti. La caratteristica di queste elezioni è che, quasi certamente, una maggioranza di votanti è scontenta dei laburisti, ma al tempo stesso non c’è entusiasmo per ciò che dovrebbe essere l’ovvia alternativa, vale a dire per un governo conservatore».
Qual è il bilancio di 13 anni di governo laburista? E quali sono stati gli errori di Tony Blair e di Gordon Brown?
«I tredici anni di governo laburista non sono stati insoddisfacenti, eccetto che per la decisione di Tony Blair di avventurarsi in tanti conflitti armati. Specialmente imperdonabili sono le guerre in Afghanistan e Iraq. Ma, nel mezzo della retorica elettorale sui presunti risultati catastrofici di questi 13 anni, è bene ricordare che non è proprio così. L’errore maggiore del New Labour, condiviso da Gordon Brown, è stato quello di accettare la logica del libero mercato globalizzato, il neoliberismo economico. Ha portato l’economia britannica ad essere sproporzionatamente dipendente da Londra come centro della finanza globale, ha determinato la crescita inaccettabile delle diseguaglianze economiche e l’abbandono delle risorse industriali nazionali. Ciò ha reso la presente crisi economica insolitamente seria nel Regno Unito e ha allargato il deficit finanziario».
Crede che il modello del New Labour sia tramontato per sempre?
«Probabilmente sì, perché l’ideologia che vi è dietro, il neoliberismo economico, è andata in bancarotta».
Nella campagna elettorale è nata la stella di Nick Clegg. Il leader liberaldemocratico potrebbe essere il kingmaker nel dopo elezioni. La Cleggmania è un fenomeno destinato a durare?
«La Cleggmania è la misura della reazione contro entrambi i partiti maggiori. Il futuro politico dei liberaldemocratici è in relazione al risultato delle elezioni e, poiché non avranno la maggioranza assoluta, dipende dalla loro capacità di negoziare con gli altri due partiti nel periodo relativamente breve dell’hung parliament, in cui saranno kingmaker».
Perché Nick Clegg è divenuto così popolare? Merito solo della televisione?
«No, al momento, lui è la voce efficace di un voto di protesta, principalmente del popolo del centro sinistra. Certo. Nick Clegg non era particolarmente conosciuto come leader dei LibDem prima della sua performance televisiva di grande effetto. È stato abile».
David Cameron è il leader di una destra moderna e riformista?
«La signora Thatcher rimpiazzò l’Old British Conservative Party con una organizzazione che propugnava una sorta di guerra di classe in nome del fondamentalismo neo liberista di mercato. Questa tipologia di conservatorismo, dal 1997, non è più vincente. Ed è stata rimpiazzata. La politica di Cameron si è spostata al centro, cercando di rappresentare un conservatorismo con maggiori attenzioni alla società e favorevole a uno Stato efficiente, più leggero ma amico».
Dunque, Cameron è credibile?
«Non c’è dubbio che Cameron sia sinceramente in favore di questo cambiamento. Credo però che egli rappresenti una modesta minoranza fra i politici e gli attivisti conservatori. Circostanza che, nel caso di vittoria dei Tory, restringerebbe la libertà d’azione del premier Cameron mettendolo in difficoltà».
La «Cool Britannia» laburista non esiste più?
«Cool Britannia fu solo uno slogan pubblicitario, vuoto come lo è la maggior parte degli slogan. Però nei 13 anni passati il Regno Unito è diventato il Paese occidentale più innovativo e fiorente nel campo della cultura e dell’arte e certamente il più cosmopolita. Spero che lo rimanga».
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