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17.12.13

La truffa del finanziamento pubblico ai partiti

Roberto Perotti (lavoce.info)

La notizia dell’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti è falsa. Con questa legge i partiti costeranno al contribuente da 30 a 60 milioni, poco meno di quanto costano ora.
 (Questo articolo è stato modificato alle ore 21:30 di sabato 14 dicembre 2013, un’ora dopo la prima pubblicazione. La modifica riflette un’ incertezza nell’ interpretazione della legge. Questa nuova versione assume che  il decreto legge – che al momento di scrivere questo articolo non è disponibile su alcun sito ufficiale – abolisca il cofinanziamento del 50 percento delle elargizioni ai partiti. La versione precedente assumeva che il cofinanziamento sia ancora presente, e portava a una stima dei costi pià alta). 
GLI ANNUNCI DEL GOVERNO SONO UNA COSA LA REALTA’ UN’ALTRA
Il governo ha annunciato che il finanziamento ai partiti sarà abolito interamente a partire dal 2017. La realtà è ben diversa:  i partiti continueranno a pesare sul contribuente, da 30 milioni a 60 milioni, poco meno di quanto costano ora. Il motivo è nascosto tra le pieghe della legge approvata dalla Camera il 18 ottobre e riproposta nel decreto legge del governo del 13 dicembre.
 Con la legislazione vigente, i partiti avevano diritto a un massimo di 91 milioni di euroall’ anno: 63,7 milioni come rimborso spese elettorali, e 27,3 milioni come cofinanziamento per quote associative ed erogazioni liberali ricevute. Inoltre, il 26 percento delle erogazioni liberali ai partiti erano detraibili dall’ imposta dovuta.
LE NOVITA’ PRINCIPALI DELLA LEGGE
1) elimina i rimborsi delle spese elettorali dal 2017 (li riduce del 25 percento ogni anno fino ad arrivare a zero nel 2017)
2) innalza dal 26 al 37 percento la detrazione per le erogazioni liberali fino a 20.000 euro (la stragrande maggioranza)
3) consente al contribuente di destinare a un partito il 2 per mille della propria imposta.
L’ interpretazione universale è che, dal 2017, i partiti non prenderanno più un euro dallo Stato, e dovranno sopravvivere solo con contributi privati. Questa interpretazione è falsa: vediamo perché.
QUANTO RICEVERANNO ORA I PARTITI?
La prima cosa da notare è che i soldi ricevuti dai partiti attraverso il 2 per mille non sono un regalo deciso da privati: sono a carico di tutti i contribuenti. Il motivo è che il 2 per mille è di fatto una detrazione al 100 percento dall’ imposta dovuta. Se lo stato raccoglieva 10.000 euro in tasse per pagare sanità e pensioni, e ora un contribuente destina 1 euro a un partito attraverso il 2 per mille, tutti i contribuenti nel loro complesso dovranno pagare 1 euro di tasse in più per continuare a pagare pensioni e sanità.
L’ art. 12, comma 12 della legge autorizza una spesa massima per il 2 per mille ai partiti pari a 45 milioni dal 2017. E’ plausibile che venga toccato questo tetto? Gli iscritti totali ai partiti sono probabilmente circa 2 milioni (nel 2011 gli iscritti al PdL erano 1 milione, quelli al PD mezzo milione). Non tutti gli iscritti ai partiti pagano l’ Irpef, e non tutti sceglieranno il 2 per mille. Tuttavia, dall’ esperienza analoga dell’ 8 per mille sappiamo che, quando il costo è zero, una percentuale notevole dei contribuenti esercita la scelta. Una stima prudenzialesuggerisce quindi che il gettito del 2 per mille potrebbe essere tra i 20 e i 30 milioni. (1)
 L’ art. 11 della lege, comma 9, prevede che le detrazioni per erogazioni liberali siano di circa 16 milioni a partire dal 2016. Si noti che la legge consente di detrarre anche il 75 percento (!) delle spese per partecipazioni a scuole o corsi di formazione politicao. Nella colonna 1 della tabella sottostante assumo uno scenario prudenziale: le detrazioni saranno la metà del previsto, cioè solo 8 milioni, e il gettito del 2 per mille di 20 milioni. Il costo totale per il contribuente sarà di quasi 30 milioni.
 Nella colonna 2 assumo uno scenario intermedio: la previsione del governo sulle detrazioni, 16 milioni, è rispettata, e il gettito del 2 per mille è di 30 milioni. Il costo al contribuente è in questo caso è di circa 45 milioni
 Nella colonna 3 assumo uno scenario normale: la previsione del governo sulle detrazioni, 16 milioni, è rispettata, e il gettito del 2 per mille è di 45 milioni. Il costo al contribuente è in questo caso è di circa 60 milioni! 
IL TETTO MASSIMO DEL 2 PER MILLE
C’ è poi un meccanismo molto complicato, ed egualmente insensato (e quasi certamente non compreso neanche da chi ha scritto e votato la legge). Per il comma 11 dell’ art. 11, se le detrazioni per elargizioni liberali sono inferiori a 16 milioni, la differenza verrà aggiunta al tetto di spesa per il 2 per mille. Quindi di fatto in questo caso il tetto massimo del 2 per mille può arrivare a 61 milioni invece di 45. Poiché non sappiamo come reagiranno i contribuenti alla opzione del 2 per mille, questo è un modo per assicurarsi che, se c’è molta richiesta per il 2 per mille e poche elargizioni liberali, la richiesta del 2 per mille non vada “sprecata” dal tetto di 45 milioni.
Si noti infine che le detrazioni per erogazioni liberali sono pratica comune, ed esistono già anche in Italia. Ma i partiti si sono elargiti detrazioni quasi doppie di quelle consentite, per esempio, per le erogazioni a università e centri di ricerca (che sono al 19 anzichè al 37 percento). Inoltre questa legge, senza che questo sia stato notato da nessuno, innalza l’aliquota di detraibilità già presente nella legge Monti.
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(1) Secondo Wikipedia, nel 2007 il 43 percento dei contribuenti ha effettuato una scelta ed il 37 percento ha scelto la Chiesa Cattolica, anche se la percentuale di praticanti è molto inferiore; lo 0.89 percento dei contribuenti ha scelto la Chiesa Valdese, quindi presumibilmente quasi la totalità dei contribuenti valdesi. E’ quindi probabile che la quasi totalità degli iscritti sceglierebbe di destinare il 2 per mille al loro partito, visto che il costo è 0. Per prudenza, diciamo 1,7 milioni. Di questi, non tutti pagheranno l’ Irpef. Supponiamo dunque che 1,3 milioni di iscritti ai partiti paghino l’ Irpef e destinino il 2 per mille al partito. Supponiamo che 700.000 simpatizzanti non iscritti facciano lo stesso. Nel 2011 l’ imposta Irpef netta è stata di 152 miliardi, con 31,5 milioni di contribuenti. Se i 2 milioni di contribuenti che destinano il 2 per mille ai partiti hanno la stessa composizione media dell’ universo dei contribuenti, il gettito del 2 per mille sarebbe di quasi 20 milioni. Se a devolvere il 2 per mille saranno 3 milioni, il gettito sarà di circa 30 milioni.

13.7.11

Ecco come arrivare subito al pareggio

di Roberto Perotti e Luigi Zingales, Il Sole 24 ore

La reazione dei mercati purtroppo ci ha dato ragione: l'Italia ha bisogno di misure radicali e credibili. La nostra proposta (avanzata sul Sole 24 Ore di sabato 9 luglio) di azzerare subito il disavanzo è stata criticata su due aspetti: non pensa alla crescita e non è fattibile. È vero esattamente l'opposto.
Le liberalizzazioni invocate da tanti sono necessarie e benvenute, ma hanno effetti incerti e richiedono tempo. A nostro avviso rilanciare la crescita richiede interventi draconiani che cambino l'equilibrio di rassegnazione in cui vive il Paese. Oggi i giovani migliori vanno all'estero perché in Italia non vedono un futuro, sono scoraggiati dal clientelismo e parassitismo alimentati dall'enorme sottobosco al confine tra economia e politica. Se la politica del rigore di bilancio pulisce questo sottobosco, elimina la fonte delle rendite politiche, e dà un segnale di una svolta politica e morale, allora non solo non riduce la crescita economica, ma l'aumenta.
Per riuscire in questo doppio intento non bastano manovre marginali, come 10 euro di ticket medico in alcune regioni e per alcune prestazioni, o buone intenzioni come la lotta all'evasione. Queste misure, pur non prive di effetti, non sono comprensibili o credibili all'estero e non danno un segnale di svolta al Paese. Ci vogliono misure radicali. Per essere concreti, e senza la pretesa di essere esaustivi per il poco tempo a disposizione, proviamo ad abbozzare una serie di proposte di questo tipo, che raccolgano anche i 60 miliardi necessari per il pareggio di bilancio.

1 Privatizzazioni per almeno 140 miliardi con un risparmio di circa 5 miliardi di interessi l'anno.
Abbiamo fatto un rapido calcolo di quanto si potrebbe ricavare dalla privatizzazione delle maggiori aziende: Eni, Enel, Poste, Ferrovie, Finmeccanica, Fintecna, Cassa depositi e prestiti, Rai. Queste privatizzazioni (e quelle di molte altre partecipate) non solo ridurrebbero la spesa per interessi, ma darebbero un segnale molto forte ai mercati e agli italiani, e toglierebbero il terreno sotto i piedi al clientelismo, all'inefficienza e alla corruzione. Per accelerare queste privatizzazioni lo stato può conferire le sue proprietà in uno o più fondi privati che gli pagherebbero immediatamente l'80% del valore stimato (finanziandosi con debito), pagando poi il resto a vendite avvenute.

2 Esproprio della moderna manomorta: per 50 miliardi con un risparmio di circa 2 miliardi di interessi l'anno.
Quando volle rilanciare l'economia del Piemonte Cavour espropriò la manomorta ecclesiastica: non solo per questioni di bilancio, ma perché le proprietà della chiesa venivano gestite male e frenavano la crescita
economica. Le fondazioni bancarie sono la manomorta dei nostri tempi. È una proprietà dei contribuenti che fu appropriata dai politici con la legge Amato, e che oggi è fonte di prebende e di influenza politica sotto il mantello della funzione sociale. Riappropriarsi di quei patrimoni rivendendoli per diminuire il debito pubblico non aiuterebbe solo il bilancio dello Stato, ma libererebbe la vita economica dell'intermediazione politica.

3 Privatizzazioni delle municipalizzate per 30 miliardi con un risparmio di circa 1 miliardo di interessi l'anno.
Il Tesoro stima in 100 miliardi il valore di libro delle attività delle aziende municipalizzate. Tenendo conto dei debiti e di un possibile sconto di mercato stimiamo che si possano raccogliere circa 30 miliardi. Ovviamente queste privatizzazioni necessitano di regolamenti per evitare l'abuso del potere di mercato di cui alcune di queste imprese godono.

4 Riduzione dei costi della politica: circa 8 miliardi.
Vi sono molte stime sui risparmi dall'abolizione delle province; usiamo una cifra prudente, e diciamo 3 miliardi. Secondo il Sole 24 Ore di lunedì scorso i costi dei cda delle partecipate, delle auto blu, degli enti intermedi e delle consulenze esterne ammontano in totale a 7,5 miliardi. Questa spesa può essere sicuramente dimezzata senza alcun effetto negativo (anzi, probabilmente con un effetto positivo) sull'efficienza del l'amministrazione pubblica. Il costo complessivo di Camera e Senato è di 1,7 miliardi all'anno. Dimezzando il numero di deputati e senatori (portandolo così vicino alla media europea) e i vitalizi per ex deputati e senatori si risparmiano circa 900 milioni. Anche questa operazione non colpisce alcuna categoria a rischio di emarginazione sociale, e ha effetti positivi sulla crescita, perché innalza la qualità e la competenza dei deputati e senatori rimanenti.

5 Taglio di sussidi e agevolazioni alle imprese: 5 miliardi.
È difficilissimo ricostruire il flusso di sussidi e agevolazioni alle imprese. Una stima prudente è di circa 7 miliardi, ma possono essere molti di più, a seconda dei criteri di calcolo. La stragrande maggioranza sono inutili o dannosi, perché anestetizzano lo spirito d'impresa, inducendo a specializzarsi nell'ottenere sussidi e agevolazioni, invece che a produrre ed innovare, e sono una fonte infinita di corruzione, di diatribe politiche, di progetti inutili, e di frodi vere e proprie.

6 Eliminazione dei progetti faraonici ed inutili: 3 miliardi.
Una delle principali cause del dissesto greco è stata l'Olimpiade di Atene, fonte di corruzione e sprechi. La crisi è un'ottima occasione per ridimensionare alcuni grandi progetti inutili. Una moratoria sulle grandi opere, che consenta solo la manutenzione delle opere già esistenti, di cui invece c'è molto bisogno, porterebbe a un risparmio annuale difficilmente quantificabile: usiamo una cifra prudente e diciamo 3 miliardi.

7 Taglio delle pensioni inique e altri interventi sulle pensioni: 6 miliardi.
Accanto alle tante pensioni vicino al minimo, vi sono circa un milione 600mila pensioni oltre i duemila euro al mese, per un importo di oltre 60 miliardi. Alcune di queste sono totalmente sproporzionate ai contributi versati in passato, e non c'è nessuna ragione né morale né di equità per mantenerle al livello attuale. Da un taglio medio del 5% si possono ricavare 3 miliardi. Insieme con un innalzamento immediato dell'età pensionabile delle donne a 65 anni e con l'indicizzazione al Pil come avviene in Svezia e come proposto da Tito Boeri e Agar Brugiavini su www.lavoce.info, si potrebbe produrre un risparmio da quantificare esattamente, ma diciamo almeno 6 miliardi (le pensioni totali sono 250 miliardi, oltre il 15% del Pil; se non si può ridurre questa voce del 2%, che rigore è?).

8 Taglio degli stipendi pubblici più alti: 5 miliardi.
La seconda voce del bilancio pubblico è il monte salari, 173 miliardi, l'11% del Pil. Grecia, Spagna e Irlanda li hanno ridotti; anche noi possiamo fare altrettanto. Da una riduzione media del 3% (ogni ente pubblico può decidere se da minore impiego o minori salari), dolorosa ma non tragica, possiamo ottenere 5 miliardi.

9 Aumento delle rette universitarie: 3 miliardi.
L'università oggi è quasi gratuita, ma è frequentata soprattutto dai ricchi; i poveri finanziano dunque la laurea dei ricchi. Non c'è motivo per cui chi può permetterselo non paghi l'investimento più redditizio della vita, magari scegliendo tra pagare subito oppure un prestito da restituire in base al reddito conseguito dopo la laurea.

10 Addizionale Irpef.
Con queste misure si risparmiano circa 38 miliardi non riducendo la crescita, ma rivitalizzandola. Restano ancora 22 miliardi (meno dell'1,5% del Pil) da reperire con maggiori entrate. Qui non abbiamo una preferenza specifica. Ovviamente un'intensificazione della lotta all'evasione aiuterebbe, ma sappiamo per esperienza che i risultati richiedono tempo e sono incerti. Una possibilità è un'addizionale Irpef restituibile in caso di successo nella lotta all'evasione: ogni euro recuperato all'evasione viene restituito pro quota a chi ha pagato l'addizionale. Questo ha due vantaggi: è una tassa visibile, per cui i cittadini vorranno sapere che i loro soldi vengono usati bene; e crea un forte incentivo politico a fare sul serio la lotta all'evasione.

27.5.09

Economisti alla sbarra, ecco l'atto di accusa

Roberto Perotti

Con la crisi, agli economisti vengono mosse quattro accuse, che ritengo ingiustificate. Eccole.
1) «Gli economisti non hanno previsto la crisi». Su questo punto c'è molta confusione. È importante distinguere fra shock e propagazione degli shock. I primi sono, per definizione, non prevedibili. Dai sismologi non pretendiamo che prevedano i terremoti, ma che ci diano indicazioni di cosa succederà in certe zone se dovesse accadere un terremoto di una certa intensità. Per questo una critica più seria è che gli economisti non hanno saputo prevedere le conseguenze degli shock, una volta che questi si sono realizzati.

2) «Non hanno saputo prevedere né capire, perché la metodologia economica prevalente si basa su modelli troppo astratti e matematici».
Questa critica è frutto dell'ignoranza sugli sviluppi della scienza economica. Per molti qualsiasi differenza dall'approccio discorsivo e informale della "General Theory" di Keynes viene interpretato come il frutto di una forma mentis che costringerebbe la realtà ad accordarsi con modelli astratti. Chi fa questa critica ignora o non capisce l'enorme letteratura prodotta da eccellenti economisti che hanno allo stesso tempo una preparazione formale e una profonda conoscenza dell'economia reale. Spesso ignora e non capisce l'enorme letteratura empirica di economisti seri e assolutamente interessati a comprendere come funziona il mondo in pratica, dediti a testare le teorie economiche con dati macro e micro. E spesso i critici degli economisti non riescono a concepire che uno studioso possa usare un modello per organizzare il proprio pensiero, ma sia abbastanza intelligente per comprenderne i limiti.

3) «Guardano la realtà con la lente perversa di ipotesi assurde come le aspettative razionali, l'informazione completa, i mercati efficienti».
Una tipica variante di questa accusa prende la seguente forma: «Loro non lo sanno, ma noi che viviamo nel mondo e non nelle nuvole o nella turris eburnea dell'università sappiamo che i mercati non sono efficienti, che ci sono asimmetrie informative, che i prezzi degli asset possono deviare per lungo tempo dai fondamentali...».
Anche questa critica è frutto di una profonda ignoranza degli sviluppi dell'economia degli ultimi 30 anni, che si è dedicata in gran parte proprio allo studio di miriadi di deviazioni dall'ipotesi d'efficienza e d'informazione perfetta. Solo per fare un esempio, un'enorme ricerca studia teoricamente ed empiricamente come e perché vi possano essere bolle nei prezzi degli asset; e una enorme letteratura studia gli incentivi dei manager in presenza di asimmetrie informative.

4) «Molti non economisti hanno previsto la crisi».
Questo è falso. Dire per anni «la globalizzazione ha effetti perversi», «la nostra economia è eccessivamente finanziarizzata», oppure «l'economia finanziaria ha preso il sopravvento sull'economia reale» o ancora «il liberismo sfrenato comporta problemi sociali che solo gli economisti possono ignorare», non significa avere previsto la crisi. Accuse, tutte queste, a mio avviso infondate o strumentali. Ci sono però accuse realmente rilevanti. Vediamone alcune.
La stragrande maggioranza degli economisti non ha previsto né capito la crisi finanziaria perché era totalmente all'oscuro di alcuni fondamentali sviluppi del mercato del credito. Per mesi e anni siamo andati avanti a dibattere le spiegazioni e le implicazioni del fenomeno chiave dei primi anni 2000: il basso tasso d'interesse.
Ma mentre avveniva questo dibattito, i macroeconomisti hanno perso di vista completamente uno sviluppo ben più importante, cioè l'enorme evoluzione del mercato del credito. Con tassi d'interesse molto bassi, l'unico modo di rendere redditizia l'attività d'intermediazione delle banche era indebitarsi molto per comprare attività finanziarie, cioè aumentare la leva finanziaria.
Ma per fare questo, le banche dovevano trovare modi per sbarazzarsi del rischio di queste attività, sia perché in alcuni casi i regolatori non permettevano di eccedere una certa leva finanziaria per le attività più rischiose, sia perché le banche stesse non volevano detenere troppe attività rischiose.

Ciò portò a due sviluppi:
1) Le banche crearono un sistema bancario ombra, delle entità formalmente fuori bilancio in cui piazzarono le attività più rischiose; dotarono queste entità di un minimo di capitale, ma la gran parte dei fondi la raccolsero sul mercato con scadenza brevissima, anche giornaliera (commercial papers e repurchase agreements). Queste entità fuori bilancio avevano una garanzia esplicita o implicita delle banche, ma permisero di ridurre il capitale che le banche dovevano detenere, cioè di aumentare la leva finanziaria. Le entità spesso cartolarizzarono le attività trasferite dalle banche e le vendettero, spesso alle banche stesse.
2) Le banche decisero di detenere quantità sempre crescenti di titoli cartolarizzati, cioè di titoli creati dall'impacchettamento di centinaia o migliaia di mutui sottostanti, oppure di prestiti ai consumatori o alle imprese.

Per capire lo sviluppo successivo, è importante comprendere com'erano strutturati questi titoli cartolarizzati. Per consentire di ottenere rendimenti elevati da titoli apparentemente poco rischiosi, questi titoli erano divisi in tranche. La prima tranche (junior tranche) è la più rischiosa; se qualche mutuo sottostante va in default, la prima a esserne toccata è la junior tranche. L'ultima tranche (senior tranche) è apparentemente molto poco rischiosa: comincia a perdere valore solo se più del 10% dei muti va in default - una percentuale impensabile fino a tre anni fa.
Il 99% degli economisti italiani, ancora nell'estate del 2007, era all'oscuro di questi sviluppi, o al massimo ne aveva un'idea molto confusa. Ma ancora più vaga era la consapevolezza degli sviluppi e delle implicazioni successive. La teoria prevalente era che la cartolarizzazione permettesse di spandere il rischio dei vari tipi di credito al di fuori del sistema bancario, cioè da soggetti ad alta leva finanziaria a soggetti (come fondi pensione e fondi del mercato monetario) a bassa leva finanziaria.

Ma mentre i titoli più rischiosi (le junior tranche) vanno a ruba perché, essendo più rischiosi, danno rendimenti più alti, le senior tranche spesso rimangono nei portafogli delle banche o delle entità fuori bilancio. Con poche eccezioni (JP Morgan), le banche non se ne curano, perché sono ritenuti assolutamente sicuri. Nel 2008, banche ed entità fuori bilancio detenevano probabilmente il 50% di queste senior tranche. Lungi dall'aver diversificato i rischi, banche e shadow banking system avevano fatto un enorme investimento in economic catastrophe bonds, cioè in titoli di fatto rischiosissimi perché davano un rendimento generalmente elevato ma molto basso proprio nel momento peggiore, cioè nel caso di una recessione globale.
Gli acquirenti di questi titoli spesso cercarono di assicurarsi contro il rischio di default dei sottostanti. Lo fanno assicurandosi con monolines, compagnie di assicurazione precedentemente dedite all'assicurazione dei titoli municipali ma che ora tentano di espandersi. Ma le monolines avevano un leverage di 150, e fu presto chiaro a molti che non erano in grado di assicurare niente. Ma non fu chiaro per esempio a Merrill Lynch, i cui dirigenti pensavano di essersi assicurati con le monolines. Altri si assicurano con i credit default swaps, il cui mercato raggiunge a un certo punto quattro volte il Pil statunitense! Ma anche questi titoli sono esposti al rischio sistemico. Singolarmente, una banca poteva ritenere di aver fatto hedging; ma da un punto di vista macroeconomico il mercato non stava fornendo alcun hedge, anzi stava incrementando il rischio. Questo aspetto era compito dei macroeconomisti, ma essi non se ne resero conto a causa della loro mancanza d'informazione sui recenti sviluppi del mercato del credito.

Anche di questi due ultimi sviluppi gli economisti erano sostanzialmente ignari. Ancora nell'estate del 2008 è lecito affermare che la stragrande maggioranza degli economisti non si resero conto che il sistema finanziario aveva misspriced il rischio in un modo abissale consentendo alle banche di investire percentuali gigantesche del proprio attivo in catastrophe bonds, e l'irrilevanza (anzi la pericolosità) macroeconomica delle assicurazioni fornite dal mercato.
Come abbiamo imparato dal marzo del 2008, le banche centrali erano male equipaggiate a intervenire in questi mercati a difesa di queste istituzioni. Nel marzo del 2008 i problemi di Bear Stearns misero a nudo il quasi collasso dei mercati dei Cds e dei repos. Ma questi sono mercati di cui gli economisti non si sono mai occupati, perché in condizioni normali funzionano senza alcun problema, e di cui non avevano compreso il ruolo fondamentale nel nuovo sistema del credito. L'esempio più lampante fu la decisione della Bce di alzare i tassi nell'estate del 2008, quando già Bear Stearns era saltata esattamente per i motivi esposti sopra. Molti economisti accademici appoggiarono la decisione della Bce, perché così suggeriva la Taylor rule. Ma molta acqua era passata sotto i ponti, e per parlare di politica monetaria non era più sufficiente essere esperti di Taylor rule. Semplicemente, non avevamo idea di quanto lontano dal classico modello delle banche commerciali il mercato del credito era arrivato. Non avevamo idea delle grandezze e delle implicazioni macroeconomiche di tutto questo.

Eppure continuavamo a parlare di politica monetaria, quando era impossibile parlare di politica monetaria se non si conoscevano degli sviluppi recenti del mercato del credito. Come ha sostenuto con forza John Taylor in Getting Off Track, il problema non era tanto un classico problema di liquidità, quanto un problema di rischio di controparte in mercati a brevissimo termine. Ma il rischio di controparte non ha mai giocato il minimo ruolo nelle teorie monetarie più accreditate.
Poiché economisti di valore erano alla guida delle maggiori banche centrali, ci siamo convinti che il mondo fosse in buone mani. Ma non ci siamo resi conto che anch'essi, come gli altri, all'inizio sono stati tremendamente impreparati a comprendere i nuovi sviluppi.

Gli economisti hanno giocato troppo facilmente allo scaricabarile con politici e regolatori. Invece di studiare i dettagli del mercato del credito, hanno cercato di cavarsi dall'impiccio con facilità usando facili riferimenti al problema del moral hazard causato dai politici e a quello della regolamentazione.

Il moral hazard avviene quando le banche e le altre istituzioni finanziarie sanno che i politici, di fronte a una crisi, le salveranno. Questo ovviamente le incoraggia a prendere rischi molto maggiori di quanto sarebbe prudente e ottimale dal punto di vista del sistema economico nel suo complesso.
Il moral hazard è un vecchio cavallo di battaglia degli economisti, che generalmente si oppongono ai salvataggi bancari. Salvo poi criticare i policy makers per non avere salvato Lehman Brothers, causando il caos che è seguito al 14 settembre. Ma molti economisti hanno cambiato idea sul mancato salvataggio di Lehman Brothers proprio perché non si erano resi conto di cosa comportasse lasciar fallire una banca di investimento in un mercato del credito completamente cambiato. Proprio perché avevano una vaga idea dell'estensione e del ruolo del mercato dei Cds, pochissimi economisti si erano resi conto delle conseguenze quasi fatali che vi sarebbero state nel mercato dei Cds.

Alle prime avvisaglie di difficoltà, gli economisti hanno anche cercato di salvarsi con frasi del tipo «gli eccessi nel mercato del credito possono essere corretti con un'appropriata regolamentazione». Ma fino al 2006, finché Greenspan e poi Bernanke erano nettamente contrari a qualsiasi regolamentazione, dove erano gli economisti? Se i politici avessero tentato d'imporre più regolamentazione, cosa avrebbero detto gli economisti? Ma soprattutto, pochi economisti hanno avuto il coraggio di sporcarsi le mani dicendo esattamente quale regolamentazione si sarebbe dovuta imporre. Né poteva essere altrimenti, perché la stragrande maggioranza aveva una comprensione così limitata degli aspetti tecnici da non poter offrire suggerimenti competenti in materia di regolamentazione.
È stato anche facile per gli economisti scaricare le colpe sulla Greenspan put. Ma tutto questo ex post. Dove erano gli economisti quando il mondo inneggiava a Greenspan come il salvatore dell'economia mondiale?
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