Tommaso Pincio
Non è ancora un fenomeno di massa, tuttavia capita sempre più spesso di sentire di persone che emigrano lontano per la mera voglia di allontanarsi, tagliare i ponti con il mondo nel quale sono nate e vissute. Di gran lunga maggiore, ovviamente, è il numero di coloro che, pur non potendo passare a vie di fatto tanto radicali, vagheggiano comunque di mollare tutto. Auden diceva che «l'uomo ha bisogno di evadere, così come ha bisogno di cibo e sonno profondo». Lo diceva però in senso letterario, per spiegare quanto rinfrancante e indispensabile sia, per lo spirito, intrattenersi con storie immaginarie. Se però romanzi e film non bastano più la faccenda si complica. Decidere di vendere i propri beni e usare il ricavato per trasferirsi in qualche omologo della famosa «isola deserta» è il sintomo di una crisi. Significa che un ingrediente essenziale della società inizia a scarseggiare in misura preoccupante: il senso di vivere in una comunità.
Quando si giunge a un simile punto di rottura si dovrebbe allora smettere di parlare di fuga, per chiamare il problema con un termine più appropriato: rifiuto. Perché questo è il male insidioso che serpeggia da qualche tempo in Europa e che si manifesta in maniere varie e ambigue, a cominciare dalla cosiddetta antipolitica. Il rifiuto è diverso dall'evasione in quanto è più definitivo. Allo scontento e alla rabbia per lo stato di cose, il rifiuto somma una forte mancanza di fiducia, l'idea che la società sia a tal punto marcia da escludere la possibilità di un cambiamento in positivo. Storia vecchia, se vogliamo.
Due secoli e mezzo fa Jean-Jacques Rousseau mosse critiche morali a una società che ai suoi occhi appariva come il regno della falsità e della corruzione, un avvilente concentrato di vanità e sopraffazione. Era tuttavia convinto che certi mali non fossero il prodotto diretto della natura umana, bensì il risultato della disuguaglianza economica.
Propose anche un modello di convivenza alternativo nel quale gli individui potessero riacquistare la fiducia. E proprio al famoso contratto sociale di Rousseau si ispira la fuga dalla civiltà narrata nell'incantato quanto inquietante romanzo d'esordio dell'inglese Sam Taylor, La repubblica degli alberi (Neri Pozza Bloom, traduzione di Chiara Brovelli, pp. 283, euro 16).
All'alba di un giorno di giugno, poco prima dell'inizio delle vacanze, quattro adolescenti lasciano le case dove vivono, montano in sella a una bicicletta e puntano verso la foresta, decisi a impiantare una loro piccola utopia in mezzo agli alberi. Il tutto si svolge nei Pirenei perché - esattamente come l'autore - i personaggi del libro sono espatriati in Francia. I quattro si accampano in una casa diroccata e cintano il territorio circostante proclamandone l'indipendenza. Alex e Louis vanno a caccia di cibo. Isobel, sorella di Alex, prepara il caffé e si prende cura della dimora. Michael, il più giovane del gruppo nonché voce narrante, si arrampica sugli alberi come una scimmia perché è ancora un ragazzino per il quale parole come succhiotto, puttana e hashish sono suoni dal significato misterioso e bizzarro. Micheal attraversa però anche quella fase della vita in cui la consapevolezza del proprio corpo si arricchisce di nuove sensazioni. Mostra a Isobel un lago che ha appena scoperto e lei lo ricambia con un bacio. Massaggia innocentemente per ore la morbida pelle di Isobel e riceve in cambio altri favori. In breve, questa estate tra i boschi diventa sempre più calda per via della tensione sessuale. Contemporaneamente i ragazzi cominciano a giocare alla Rivoluzione francese, costruiscono una ghigliottina di fortuna con la quale giustiziano papere innocenti. Com'è facile immaginare, sarà proprio il sesso a trasformare la finzione in tremenda realtà. A rompere il fragile equilibrio della repubblica tra i boschi sarà l'irruzione nel gruppo di un quinto elemento, una ragazza che a dispetto del suo nome, Joy, porterà gelosia e sete di vendetta facendo annegare l'utopia in un bagno di sangue. Il tutto ricorda naturalmente Il signore delle mosche di William Golding ma regala comunque pagine di rinfrescante bellezza. Qualche problema si presenta nel momento fatidico della catarsi che, seppure in parte prevedibile, coglie il lettore un po' impreparato per il modo brusco e sfilacciato nel quale si dispiega, rischiando di togliere credibilità a una storia che finora aveva galleggiato mirabilmente in un limbo da favola.
A tale proposito, viene in soccorso lo stesso autore. In un lungo articolo comparso su un quotidiano inglese, Sam Taylor ha ripercorso in lungo e in largo la travagliata genesi del romanzo, rivelando di avere sempre vissuto con la testa tra le nuvole e che il suo sogno di ragazzo era quello di trasferirsi in un paese straniero e scrivere un romanzo. A venticinque anni si ritrovò invece padre di famiglia rassegnandosi a una grigia esistenza da pendolare. Finché un giorno il cartello di un'agenzia immobiliare gli offrì su un piatto d'argento la soluzione per mollare il lavoro e una città che gli piacevano sempre meno: poteva vendere la casa nello squallido sobborgo in cui era relegato e trasferirsi con la famiglia in una remota zona rurale della Francia meridionale, nei pressi dei Pirenei. Lì i suoi avrebbero tirato avanti arrangiandosi, mentre lui si sarebbe dedicato al sogno di sempre. La stesura del romanzo non fu un letto di rose. Nei momenti più difficili gli veniva però in soccorso l'impossibilità di tornare indietro.
Lunga e tormentata fu anche la strada per trovare un editore. Ma per venire al terrificante finale che si abbatte quasi senza ragione sull'atmosfera idillica del libro, Taylor lo spiega così: in un bel giorno d'estate il più piccolo dei suoi figli rischiò di annegare in una piscina. «Quella terrificante immagine della testa che spunta come un'isola di capelli biondi nel blu placido dell'acqua è marchiata a fuoco nella mia mente» - racconta. «È come un monito continuo, un simbolo...l'orrore che si nasconde dietro ogni attimo di felicità e lo intensifica».
ilmanifesto.it del 31 ottobre 2007
Quando si giunge a un simile punto di rottura si dovrebbe allora smettere di parlare di fuga, per chiamare il problema con un termine più appropriato: rifiuto. Perché questo è il male insidioso che serpeggia da qualche tempo in Europa e che si manifesta in maniere varie e ambigue, a cominciare dalla cosiddetta antipolitica. Il rifiuto è diverso dall'evasione in quanto è più definitivo. Allo scontento e alla rabbia per lo stato di cose, il rifiuto somma una forte mancanza di fiducia, l'idea che la società sia a tal punto marcia da escludere la possibilità di un cambiamento in positivo. Storia vecchia, se vogliamo.
Due secoli e mezzo fa Jean-Jacques Rousseau mosse critiche morali a una società che ai suoi occhi appariva come il regno della falsità e della corruzione, un avvilente concentrato di vanità e sopraffazione. Era tuttavia convinto che certi mali non fossero il prodotto diretto della natura umana, bensì il risultato della disuguaglianza economica.
Propose anche un modello di convivenza alternativo nel quale gli individui potessero riacquistare la fiducia. E proprio al famoso contratto sociale di Rousseau si ispira la fuga dalla civiltà narrata nell'incantato quanto inquietante romanzo d'esordio dell'inglese Sam Taylor, La repubblica degli alberi (Neri Pozza Bloom, traduzione di Chiara Brovelli, pp. 283, euro 16).
All'alba di un giorno di giugno, poco prima dell'inizio delle vacanze, quattro adolescenti lasciano le case dove vivono, montano in sella a una bicicletta e puntano verso la foresta, decisi a impiantare una loro piccola utopia in mezzo agli alberi. Il tutto si svolge nei Pirenei perché - esattamente come l'autore - i personaggi del libro sono espatriati in Francia. I quattro si accampano in una casa diroccata e cintano il territorio circostante proclamandone l'indipendenza. Alex e Louis vanno a caccia di cibo. Isobel, sorella di Alex, prepara il caffé e si prende cura della dimora. Michael, il più giovane del gruppo nonché voce narrante, si arrampica sugli alberi come una scimmia perché è ancora un ragazzino per il quale parole come succhiotto, puttana e hashish sono suoni dal significato misterioso e bizzarro. Micheal attraversa però anche quella fase della vita in cui la consapevolezza del proprio corpo si arricchisce di nuove sensazioni. Mostra a Isobel un lago che ha appena scoperto e lei lo ricambia con un bacio. Massaggia innocentemente per ore la morbida pelle di Isobel e riceve in cambio altri favori. In breve, questa estate tra i boschi diventa sempre più calda per via della tensione sessuale. Contemporaneamente i ragazzi cominciano a giocare alla Rivoluzione francese, costruiscono una ghigliottina di fortuna con la quale giustiziano papere innocenti. Com'è facile immaginare, sarà proprio il sesso a trasformare la finzione in tremenda realtà. A rompere il fragile equilibrio della repubblica tra i boschi sarà l'irruzione nel gruppo di un quinto elemento, una ragazza che a dispetto del suo nome, Joy, porterà gelosia e sete di vendetta facendo annegare l'utopia in un bagno di sangue. Il tutto ricorda naturalmente Il signore delle mosche di William Golding ma regala comunque pagine di rinfrescante bellezza. Qualche problema si presenta nel momento fatidico della catarsi che, seppure in parte prevedibile, coglie il lettore un po' impreparato per il modo brusco e sfilacciato nel quale si dispiega, rischiando di togliere credibilità a una storia che finora aveva galleggiato mirabilmente in un limbo da favola.
A tale proposito, viene in soccorso lo stesso autore. In un lungo articolo comparso su un quotidiano inglese, Sam Taylor ha ripercorso in lungo e in largo la travagliata genesi del romanzo, rivelando di avere sempre vissuto con la testa tra le nuvole e che il suo sogno di ragazzo era quello di trasferirsi in un paese straniero e scrivere un romanzo. A venticinque anni si ritrovò invece padre di famiglia rassegnandosi a una grigia esistenza da pendolare. Finché un giorno il cartello di un'agenzia immobiliare gli offrì su un piatto d'argento la soluzione per mollare il lavoro e una città che gli piacevano sempre meno: poteva vendere la casa nello squallido sobborgo in cui era relegato e trasferirsi con la famiglia in una remota zona rurale della Francia meridionale, nei pressi dei Pirenei. Lì i suoi avrebbero tirato avanti arrangiandosi, mentre lui si sarebbe dedicato al sogno di sempre. La stesura del romanzo non fu un letto di rose. Nei momenti più difficili gli veniva però in soccorso l'impossibilità di tornare indietro.
Lunga e tormentata fu anche la strada per trovare un editore. Ma per venire al terrificante finale che si abbatte quasi senza ragione sull'atmosfera idillica del libro, Taylor lo spiega così: in un bel giorno d'estate il più piccolo dei suoi figli rischiò di annegare in una piscina. «Quella terrificante immagine della testa che spunta come un'isola di capelli biondi nel blu placido dell'acqua è marchiata a fuoco nella mia mente» - racconta. «È come un monito continuo, un simbolo...l'orrore che si nasconde dietro ogni attimo di felicità e lo intensifica».
ilmanifesto.it del 31 ottobre 2007